Aggiornato al 24/04/2024

Non sono d’accordo con quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo

Voltaire

Vittore Carpaccio (Venezia, 1465 - 1520) - Madonna in trono con il Bambino e sei santi, Pala di Pirano

 

Ma davvero il patrimonio culturale deve appartenere a uno stato?

di Gabriele Paleari

 

Recentemente mi sono imbattuto in un articolo, pubblicato sul sito della Radiotelevisione slovena, che riguardava un contenzioso tra Italia e Slovenia. Il pomo della discordia non era un confine da spostare ma un’opera d’arte, una pala del Carpaccio, che originariamente si trovava in una chiesa di Piran/Pirano (Slovenia). Durante la Seconda Guerra Mondiale il dipinto fu trasferito a Padova, dove è tuttora conservato, come scrive Ornella Rossetto.

Fin qui niente di nuovo: l’Italia, come è ben noto, ‘rivorrebbe’ capolavori conservati in altri Paesi; la Grecia ‘rivuole’ i marmi di Elgin, oggi custoditi in Gran Bretagna. La lista potrebbe essere lunga. In molti reclamano i ‘propri’ tesori culturali. La questione dei patrimoni ‘sottratti’ - e qui le virgolette sono d’obbligo - non è l’oggetto di questo articolo. Resta il fatto che alcuni stati reclamano le opere d’arte ‘rubate’ in base alle loro costituzioni. Si ritiene pertanto, in modo arbitrario, che le nazioni odierne abbiano ereditato legalmente patrimoni culturali risalenti a epoche in cui gli stati nazionali non esistevano.

Qui, premetto, non è l’aspetto ‘legale’ che conta. Offellee fa el tò mestee e non mi intendo di pasticci, pardon, cavilli di giurisprudenza.

Ciononostante vorrei ugualmente fare una piccola osservazione, anche se in punta di piedi, per non turbare il sonno di chi si eleva a paladino di una data cultura, decretandola ‘nazionale’ sulla base di miti inventati e reinventati.

Faccio notare che, in fondo, le leggi di oggi, proprio quelle che mirerebbero a ‘difendere’ il patrimonio culturale di un Paese, sono il prodotto dell’ideologia che ha portato all’invenzione degli stati nazionali.

Pertanto ritengo che la questione della ‘legalità’ dell’appartenenza di un dato ‘oggetto culturale’ non chiarisca un problema morale, ancor più che ‘legale’.

Creare una legge che renda ‘italiani’ o ‘croati’ il Colosseo, Marco Polo o l’Arena di Pula/Pola (Croazia) è probabilmente un atto di ‘pirateria culturale’, parafrasando liberamente lo storico e avvocato spalatino Mladen Čulić-Dalbello.

La pirateria, come tutti ben sanno, è diffusa.

Purtroppo anche le leggi costituzionali promuovono atti di pirateria culturale.

Come ho scritto nel mio saggio AlterItà, secondo la costituzione italiana “Lo Stato ha legislazione esclusiva” nella “tutela […] dei beni culturali” (articolo 117).

Tradotto in soldoni ho appreso per caso, consultando un libro pubblicato da Cambridge University Press, che per pubblicare un volume contenente fotografie del Foro Romano occorre l’autorizzazione ministeriale.

Verrebbe da dire reddite ergo, quae sunt Caesaris, Caesari….

Purtroppo a Cesare è stata sottratta l’eredità.

C’è da chiedersi per quale ragione il patrimonio di Roma antica debba appartenere a un altro stato che, ricordiamo, è stato creato con gli espedienti militari millequattrocento anni dopo la caduta dell’Impero romano. Qualcuno potrebbe storcere il naso e addirittura indignarsi per la critica alla costituzione. Ritengo che non esistano carte o libri sacri, ma persone che amano consacrare le proprie idee e imporle agli altri. Non intendo polemizzare ma far riflettere.

Chiunque abbia letto un testo di storia ‘italiana’ si imbatte nelle ‘eroiche’ vicende di sedicenti patrioti che volevano liberare la Patria, o meglio, le patrie degli altri.

Sappiamo, tuttavia, che la baldanzosa spedizione dei Mille non fu un viaggio compiuto da pacifisti, missionari o romantici sognatori - per rifarmi al compianto storico Denis Mack Smith. La spedizione fu un atto di forza, non d’amor di patria per ricollegarmi al tema al centro di un saggio di Maurizio Viroli su patriottismo e nazionalismo. Rischio di divagare.

In realtà, in seguito all’annessione degli stati della Penisola al Regno d’Italia, ci fu l’appropriazione dei beni culturali da parte del nuovo stato nazionale. Questa appropriazione, tuttavia, non può essere legittimata da una costituzione, quantunque la carta sia oggetto di venerazione.

Tralasciando il fatto che la costituzione italiana è stata introdotta senza una votazione popolare more helvetico - e quindi per imposizione - ciò che mi preme sottolineare qui è che nessuna costituzione dovrebbe attribuire la proprietà, la promozione e la difesa della cultura a uno stato.

Se per cultura, accettando una definizione operativa di un’idea molto complessa, si intende un insieme di pratiche quotidiane quali la gastronomia, o il frutto di elaborazioni intellettuali come la letteratura, l’arte, la musica e via discorrendo, è praticamente impossibile assegnare un ruolo morale a un governo di un dato stato.

La cultura è il prodotto individuale di una rielaborazione, che successivamente può essere o non riesce a essere condivisa da altre persone. La cultura è basata sullo scambio continuo e non sulla manipolazione del passato, sulla glorificazione, sul controllo e sulla successiva mummificazione degli ‘oggetti culturali’, fisici e spirituali. Che la cultura debba essere di stato è discutibile e pericoloso. Gli esempi del recente passato forse dovrebbero invitarci a riflettere su questo punto.

Nel 1998 uno stato considerato, forse superficialmente, democratico quale la Germania ha deciso in maniera non democratica di ‘impossessarsi’ della lingua tedesca introducendo riforme ortografiche obbligatorie per legge, che hanno arricchito certo gli editori ma impoverito il senso critico. Il quotidiano londinese The Times, in un editoriale di Philip Howard, ironizzava sulla vicenda proponendo che anche l’inglese adottasse la grafia tedesca per risolvere l’annosa questione dell’ortografia inglese. Purtroppo gh’è pocch de rid, come dicevano un tempo a Milano. Grazie al cielo in Inghilterra non si è affermata una politica linguistica basata sull’idea di una cultura di stato.

Nell’Europa continentale si assiste invece a interventi di ministri che nominano i direttori dei musei e a pagliacciate di sovrintendenti poco intendenti che impongono le proprie partiture ai direttori d’orchestra. L’idea delle ‘Opere di Stato’ a livello teatrale è un sintomo di una malattia, il nazionalismo culturale, che non accenna a scomparire in Europa.

Nell’ultimo secolo si sono visti interventi dispotici da parte di tiranni, ad esempio Hitler che si occupava direttamente di cinema, come scrive lo storico Bill Niven. La cultura di stato è un concetto abbastanza pericoloso. Simon Morrison, nella sua biografia di Lina Prokofiev, moglie del celebre compositore, si sofferma sull’ingerenza del regime sovietico, specie di Stalin, il quale esigeva musiche che esaltassero la sovieticità. Non erano ammesse espressioni critiche. Sembrano tempi remoti, e invece, ci accorgiamo che il fenomeno è tristemente contemporaneo.

Nel maggio del 2018 il direttore della Kunsthalle di Vienna ha rassegnato le dimissioni in segno di protesta nei confronti delle politiche nazionaliste perseguite dal governo austriaco. Quanto accade a Vienna non è un caso isolato; i governi di Polonia e Ungheria hanno intrapreso percorsi analoghi. In Italia i ministri intervengono nelle nomine dei direttori dei musei. Pare che nessuno si indigni.

L’esempio austriaco, la politica linguistica autoritaria perseguita dalla Germania e l’ingerenza nella cultura da parte dei governanti d’Italia dovrebbero far riflettere anche i difensori della cultura ‘italiana’, che non è immune ai fenomeni di pirateria culturale di stato. Recentemente, mentre mi accingevo a preparare una lezione per i miei studenti mi sono trovato di fronte a un problema ‘morale’: l’unità di un libro di testo che utilizzo si intitola ‘Italiani nella storia’. Sfogliandolo ho appreso per esempio che Galileo era italiano, così come Cristoforo Colombo, Leonardo da Vinci e tanti altri. Su Wikipedia si legge persino che il musicista Johann Simon Mayr, nato in Baviera, attivo a Poschiavo, nella Svizzera odierna, e a Bergamo era un compositore italiano di origine tedesca! Ciò che trovo preoccupante non è solo l’appropriazione, sì, insomma, la pirateria culturale ma la mancanza di senso critico.

Definire per esempio Venezia uno stato italiano e Galileo Galilei un italiano è impreciso, ma è soprattutto anacronistico. Trovo che sia altrettanto grave che un’opera d’arte ritenuta di grande valore economico, specie ma non esclusivamente del periodo preunitario, non possa essere esportata per fantomatici interessi nazionali. In fondo il Duomo di Milano, che come ben sanno i milanesi è un’opera infinita in continua proverbiale costruzione, non ha ricevuto la licenza edilizia dallo stato italiano nel lontano 1386, anno della posa della prima pietra. Non esisteva la sovrintendenza italiana e nemmeno il ministero dei beni culturali. Forse per questo la cultura poteva prosperare, nonostante la frammentazione politica dell’Italia geografica di allora.

Così come il Duomo di Milano dovrebbe essere un bene condiviso da chi lo ama, le tradizioni gastronomiche, le opere d’arte, i libri e gli spartiti musicali andrebbero coltivati da chi li rielabora, studia, suona e via discorrendo. In fondo la cultura dovrebbe appartenere non a un luogo fisico o giuridico ma a chi la produce, per diletto o mestiere. Questi deve sentirsi libero/a di condividerla senza imposizioni.

In conclusione sarebbe forse auspicabile modificare le costituzioni moderne e fare vivere la cultura grazie a chi la ama, senza decretare ‘appartenenze giuridiche’ frutto di conquiste militari e pirateria. Anche perché, come fascismi, nazismo e comunismi hanno dimostrato con le loro follie, imporre una cultura e salvaguardarla per legge è una fatica di Sisifo. Poche lingue sono sopravvissute per decreto o in base all’inclusione in qualche articolo della costituzione di un Paese. La lingua è come un muscolo, se non la si tiene in esercizio si arrugginisce e poi muore, idem per la cultura. Le usanze, come la frutta e la verdura, vanno coltivate e non preservate per legge.

Chiudo riproponendo la mia domanda iniziale: in base a quale valore morale può uno stato dichiarare sua una lingua, un autore, un prodotto della terra o della cucina che per loro natura sono il frutto di contaminazioni che non conoscono confini ‘nazionali’?

 

Inserito il:12/06/2018 18:19:49
Ultimo aggiornamento:12/06/2018 22:22:28
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