L’agenda digitale non è gratis.
05/08/2013
Tra un decreto e un rimpallo, stiamo perdendo di vista l’Agenda Digitale nel suo complesso: se ne parla moltissimo, specialmente sui social networks e sulle newsletter più o meno à la page, ma si ha la sensazione che sia un parlarne a vuoto, per inerzia.
Approssimativamente, siamo consapevoli del fatto che il Paese deve raggiungere alcuni obiettivi “minimi” di digitalizzazione e, con minore approssimazione, abbiamo contezza della dimensione degli investimenti necessari. Siamo, al contrario, assolutamente certi del fatto che i soldi necessari a finanziare tutto questo ben di Dio digitale non ci sono.
Sembra imminente la discesa in campo di Cassa Depositi e Prestiti, sia sul fronte della infrastrutturazione in banda larga che del supporto al “piano data center” a suo tempo concepito da Corrado Passera e perseguito dall’Agenzia diretta da Agostino Ragosa. Ma ci si ferma, nella migliore delle ipotesi, all’infrastruttura “nuda e cruda”.
Abbiamo un problema, dunque? Forse. Ma forse, no.
Con ogni probabilità, abbiamo solamente bisogno di farci venire in mente un modello di business da applicare ai servizi erogati da una pubblica amministrazione (Sanità compresa, ovviamente) affrancata da alcuni tabù: a partire da quelli rappresentati da operazioni di (sano) partenariato pubblico-privato.
Qualche settimana fa, moderavo un convegno sulla Sanità elettronica: il segretario generale del potentissimo sindacato dei medici di famiglia, a un certo punto, se ne esce con una affermazione spettacolare. “Potremmo finanziarla noi medici, la sanità digitale. In una logica di investimento, ben inteso.”
Idem per gli avvocati, se ci pensiamo: chi di loro non finanzierebbe qualcosa capace di migliorargli notevolmente il modo di lavorare quotidiano attraverso un piano di giustizia digitale?
Ma anche i fornitori di tecnologie, esattamente come accaduto nel Regno Unito per il piano di sanità elettronica, potrebbero accollarsi quote di investimenti a fronte di ritorni sui servizi erogati e sul cost saving generato in favore della finanza pubblica.
Bello, bellissimo. Ma c’è un ma. Anzi, ce ne sono due.
Il primo è rappresentato dalla mancanza di precedenti: “non lo abbiamo mai fatto”, e con questo il direttore generale di un Ministero, di una ASL o di un Comune ti toglie ogni speranza di potercela fare.
Il secondo, è un “ma” più complesso: finanziare significa, ovviamente, “avere voce in capitolo”. Decidere cosa, come, a che prezzo, con quali riorganizzazioni di processi sottesi. Significa, quindi, cedere quantità di sovranità ai fornitori e/o ai finanziatori.
In poche parole, mettere in piedi un meccanismo di governance multilaterale e garantirsi la fattibilità attraverso norme che incoraggino forme di procurement innovativo.
Poche semplici parole che rappresentano la differenza tra la teoria dell’innovazione e la sua messa in esercizio.
Il “fare”, per l’appunto.
Partiamo dalla privatizzazione delle società ICT “in-house”, ad esempio?
Perché se è vero che “l’agenda digitale non è gratis”, è altrettanto vero che la messa in efficienza di PA e Sanità in Italia rappresenta un mercato interessantissimo, se solo si è capaci di vederlo come tale.
Con un’avvertenza per gli eventuali scettici: al prossimo giro, se non lo faremo da soli, ci penserà la troika a rimetterci in riga.