Prospettive…. nel futuro.
21/11/2013
Con le note di presentazione della Newsletter n. 7, Gianni Di Quattro conferma che una confusione piena di contraddizioni sovrasta il mondo.
E poiché mi sembra che, con la confusione, una diffusa angoscia impedisca di trovare il bandolo di una matassa che sembra ingarbugliarsi sempre più, vorrei permettermi un’analisi un po’ diversa da quelle sostenute da tradizionali e affermate posizioni culturali e socio-economiche
In tutti i tempi, per periodi più o meno lunghi ed ai più vari livelli di civiltà, momenti di serenità si sono espressi qua e là per il mondo, consentendo di coltivare quella fiducia che alimentava la speranza.
Oggi, la speranza sembra essere morta: non c’è angolo del pianeta, nei cinque continenti, che non sia funestato da una qualche guerra locale o da un terrorismo, da una crisi economica, da una radicata e devastante criminalità, da un’endemica miseria, da una disperata lotta contro una natura ostile e così via per il mondo.
Una ricca ed impegnata pubblicistica ha già denunciato e continua a denunciare con gravità d’accenti il caos planetario, ma la complessità dei problemi non ha consentito e non consente proposte risolutive.
I parametri di valutazione smarriscono sempre più i punti di riferimento sui quali si fondavano e la dimensione dell’incertezza, vasta e profonda, tende a travolgere l’argine dei valori morali, politici e sociali che in pochi tentano ancora di indicare.
La rapida obsolescenza delle tecnologie, delle idee e delle mode impedisce il consolidamento di qualsiasi conquista e la fragilità di ogni raggiunto traguardo economico, sociale e culturale enfatizza la provvisorietà dell’essere.
La pretesa di costringere tutti, con le più stolte tecniche pubblicitarie, al più maniacale consumismo ha costruito la più capillare struttura di violenza che sia mai esistita: violenza individuale, di gruppo e di massa; violenza verbale, fisica, morale e culturale; violenza sociale, politica ed economica; violenza interna ed internazionale.
La violenza, espressa o temuta, sembra essere diventata la struttura portante della società umana.
Un rigurgito del razzismo, infine, sale ovunque con violenza così ultimativa da farlo apparire senza alternative possibili in ogni angolo del mondo.
Il risultato è l’angoscia: angoscia per la precarietà del presente e angoscia per l’incertezza del futuro.
Com’è potuto accadere?
Non ci sono risposte sicure e la speranza che ha sempre sorretto l’impegno degli uomini diventa sempre più incerta.
Forse, però, per recuperare la speranza sarebbe necessario reimpostare il modo di leggere la storia e gli avvenimenti che la costruiscono.
Se guardiamo alla storia e a quanto accade nel mondo dalla distanza del più grande angolo possibile, gli avvenimenti appaiono sfumati, se ne perde il fragore e si scorge uno spaccato a due livelli.
Il primo, in superficie, visibile a tutti, fatto dagli egoismi individuali e collettivi, dagli scontri d’ogni giorno, dalle efferate violenze, dai cinismi, dal dolore degli uomini.
Il secondo, sommerso e quasi non percettibile nel breve periodo, fatto con le idee universali che sopravvivono e con il patrimonio di cultura che cresce pietra su pietra, realizzato con il senso di solidarietà costruito lentamente dagli uomini fin dai primordi del loro esserci.
Questo senso di solidarietà, come un fiume ”carsico”, affiorando quando possibile fra le violenze, si è espanso pian piano nei millenni dall’individuo al piccolo nucleo familiare, al gruppo sociale, alla comunità culturale e, come il lavoro delle ong no profit dimostra, tendead espandersi fino alla comunità mondiale.
Nello spaccato della storia proposto, il primo livello occupa la più gran parte ma non offre spunti al tentativo di individuare una qualche continuità oltre l’ininterrotto incombere della violenza e degli egoismi velleitari.
Il secondo livello, lentamente ma costantemente cresciuto nei secoli, è quello che, nei fatti, indica il cammino “carsico” della società umana sostenuto da una molteplicità di tendenze che sono collegate ad una tendenza generale che non è stata sempre e solo in avanti, che talvolta è regredita, ma che fino ad oggi fra mille difficoltà si è sempre riavviata.
La continuità di questo periglioso cammino è stata nella progressiva cessione di spazio da parte dell’egoismo individualista alla sua stessa sempre più ampia, razionale consapevolezza sociale: è questa la vera storia “muta” dell’umanità
Avere accettato la convenzione che la storia degli uomini inizi dalle civiltà di cui sono state rinvenute prove documentali in monumenti o scritti, ha menomato i tentativi di rintracciare una coerenza planetaria.
E’ la storia “muta” di ogni giorno, con assieme la ”preistoria” riletta come fondamentale processo di evoluzione biologico-culturale della specie, che offre le informazioni più probanti su quella che è la tendenza più evidente e allo stesso tempo più ”carsica” dell’avventura umana.
Una storia che guardi soprattutto agli eventi documentati – bellici, politici e anche culturali – di appena cinquemila anni non rintraccia il senso del suo procedere spontaneamente naturale perché non coglie al giusto livello l’origine dei contributi dati in circa centomila anni al processo evolutivo culturale della specie homo.
L’attenzione, cioè, deve risalire agli stimoli e ai comportamenti che hanno consentito all’uomo di scrivere la storia “muta”, recuperando il valore del ruolo delle masse e rileggendo la storia lungo le conquiste socio-giuridico-morali.
Come ha scritto Luigi Chiais, centomila anni fa l’uomo era ancora un animale feroce che praticava l’antropofagia, aveva rapporti sessuali violenti con la madre, le figlie e le sorelle, uccideva i suoi simili anche per futili motivi.
Dalle radici del nostro inizio, dai nostri primi incerti passi, emerge chiara l’unità inscindibile della nostra cultura. La rozza pietra scheggiata, la rappresentazione artistica dei graffiti, i primi tentativi di indagare i misteri dell’universo e della vita ebbero un’unica origine, furono aspetti inseparabili di un’unica attività intellettuale. E questo è vero ancora oggi.
Il lavoro di studiosi come Luigi Luca Cavalli Sforza – che, con Storia dei geni umani e Geni, popoli e lingue, ha dimostrato il risultato genetico, linguistico e culturale delle migrazioni delle masse umane per circa centomila anni – non può essere lasciato alla scienza genetica e deve essere assunto per cercare di cogliere il senso complessivamente unitario della storia non in una visione ideale ma nel suo svolgersi concreto.
Anche se la complessità dell’odierna vita sociale rischia a volte di far dimenticare quest’unità fondamentale, il substrato culturale nel mondo è unico: è umano.
E il segreto è posseduto dalle masse.
L’incidenza storica delle masse è nel profondo, ad una dimensione fatale che non si coglie nel quotidiano.
La storia vera, globale, di fondo, espressa dai comportamenti umani anche nel continuo quotidiano, è quella delle collettività umane che, fedeli alla legge dell’evoluzione – una successione di tentativi, di errori e di nuovi tentativi – pur se strette da sovrastrutture culturali costruite da fantasie metafisiche, rimangono anonimamente le vere protagoniste del processo evolutivo umano.
La forza di questo procedere delle masse è esplosa evidente nell’ultimo secolo.
E’ in questo secolo che la straordinaria crescita delle popolazioni, la loro pressione sulle città con una sempre più intensa urbanizzazione, la diffusione della produzione industriale ispirata al taylorismo, la progressiva generale crescita dei consumi, la scolarizzazione a tutti i livelli sociali, la conquistata visibilità delle donne che hanno posto in crisi l’idea della storia come storia di soli uomini, il processo di decolonizzazione, i flussi migratori come spontanea espressione della speranza di una nuova vita, il ritorno dei fondamentalismi religiosi, rappresentano tutti assieme quel quid che progressivamente ha imposto di riguardare alle collettività umane come al soggetto storico che costruisce “dal basso” la prospettiva umana.
Oggi, pur in un’organizzazione della società nella quale la violenza ideologica dei mezzi di comunicazione tende ad amplificare la massificazione degli uomini, in effetti la collettività spontanea è espressione dell’insieme dei singoli che tendono a reagire, anche con sacrifici, recuperando, in ambiti specifici e gestibili, una cosciente autonomia e una responsabile partecipazione ad obiettivi condivisi nel loro spazio sociale, anche minimo: sono tutte queste singole fatiche che, “mute” e tutte insieme, fanno la storia vera. (Guardate, per esempio, a quanti ci ritroviamo Nel futuro)
Questa lunga premessa era necessaria per chiarire le ragioni per le quali è necessario guardare in questa direzione per tentare di cogliere, con un ottimismo proiettato lontano, la prospettiva anche di quanto accade oggi, nel nostro tempo.
La somma delle contraddizioni planetarie e fattori specifici avevano messo in crisi l’economia degli Stati Uniti dove la fine della “guerra fredda” aveva quasi azzerato le commesse militari con il conseguente massiccio licenziamento di decine di migliaia di lavoratori dell’industria bellica.
Come è sempre accaduto negli ultimi decenni, la crisi statunitense si è allargata a tutto l’Occidente dove il crollo dei consumi ne ha aggravato gli effetti negativi.
In Italia, il livello della disoccupazione generale ha superato il dieci per cento della popolazione attiva mentre il livello della disoccupazione dei giovani ha superato l’incredibile livello del quaranta per cento: l’emigrazione dei giovani, specialmente laureati, è diventato un preoccupante fenomeno di massa.
Ma il problema è molto più grande di quanto sia ufficialmente riconosciuto dagli economisti, dai sociologi e dai politici. Sembra che tutti rimuovano la realtà: non si è di fronte ad una delle periodiche, cicliche crisi economiche.
Quella che è rilevata come una normale crisi economica, è in effetti la conseguenza di una non dichiarata guerra mondiale che ha come obiettivo finale il riequilibrio dei consumi di tutti i popoli del mondo. E’ una guerra a lunghissima scadenza combattuta con un’arma contro la quale non può essere opposto nulla: il movimento planetario delle genti.
E’ un evento inarrestabile, progressivamente crescente, definitivo. Non si muovono soltanto le masse umane dei paesi poveri verso quelli ricchi o i profughi, che pure nei cinque continenti sono ormai milioni e milioni. Si muovono anche da un paese all’altro flussi crescenti di lavoratori specializzati, dirigenti di aziende, uomini d’affari, sportivi e artisti in un interscambio economico, culturale ed umano che tende a costruire una civiltà globale di cui non è possibile prevedere il modo d’essere.
Si aggiunga il fatto che a fronte dei venticinque milioni di disoccupati del mondo occidentale ci sono i duemiliardi e mezzo di disoccupati e sotto occupati del resto del mondo: verso questo mondo gli imprenditori occidentali stanno delocalizzando le loro aziende per godere di costi del lavoro più bassi di oltre il novanta per cento.
Si aggiunga, ancora, che gli immigrati, che arrivavano in Occidente a centinaia di migliaia ogni anno e che ormai sono decine di milioni, offrono il loro lavoro a prezzi che tendono ad allontanare dal mercato gli autoctoni aggravandone la disoccupazione. I gruppi immigrati, inoltre, rimangono fedeli alle loro culture, religioni e visioni della vita che, presto, metteranno in discussione la presunta universalità dei principi dei popoli occidentali che, demograficamente, tendono a diventare minoranza etnica nei loro stessi paesi. Per i biologi, addirittura, entro cinquecento anni gli uomini sulla terra saranno tutti di pelle scura, per ibridazione progressiva.
E’ proprio il fenomeno demografico la via lungo la quale l’Occidente si sta incamminando verso la “destrutturazione” della sua civiltà. Le sempre più massicce immigrazioni delle genti di varia etnia, infatti, stanno mettendo in evidenza come, per la più frammista mescolanza di etnie, di culture e di religioni, si è sulla strada per superare l’uniformità ariana, religiosa e culturale delle popolazioni occidentali fino al conseguente superamento dello stesso concetto ottocentesco di nazione.
Si è di fronte ad un processo che lascia immaginare lunghi tempi evolutivi. Ma, movimento planetario delle genti, delocalizzazione delle aziende, redistribuzione globale del lavoro, riequilibrio dei consumi mondiali e superamento del concetto di nazione sono gli strumenti di una guerra pacifica che sta “destrutturando” la civiltà occidentale, come premessa per un più equilibrato dialogo mondiale.
Questa prospettiva, però, può essere intravista solo se dismettiamo le lenti della cultura occidentale ed inforchiamo un paio di lenti che tengano conto anche delle culture degli altri popoli del mondo e dei loro bisogni.
La reimpostazione del modo di leggere la storia e uno sguardo con lenti nuove alle prospettive possibili, consentono finalmente una visione non drammatica di quanto sembra aspettarci.
Le lenti nuove, come primo effetto, fanno superare il razzismo perché consentono di ammettere che, al di là del colore della pelle e delle scelte religiose e culturali di ogni individuo, se si ha la sensibilità di fermare l’attenzione sulla stessa sensibilità di ogni altro uomo, sul suo desiderio d’amore, sulla sua speranza di partecipare alla sobria gioia della vita con la sua famiglia, si ha chiara la conferma di trovarsi sempre di fronte ad un altro uomo con la stessa nostra fragilità e la stessa forza, la stessa dignità e lo stesso pudore, la stessa capacità d’amare e di odiare, le stesse paure, la stessa capacità di perdonare e di aggredire con violenza, la stessa capacità di ridere e di piangere. Le stesse speranze. La stessa umanità.
Queste considerazioni non sono sollecitazioni al senso morale o alla emotività sentimentale: sono indiscutibile riscontro quotidiano che consente di ammettere come la prevista, quasi certa scomparsa della “razza” bianca non sia una tragedia cosmica ma una prospettiva positiva nel processo di superamento dei contrasti fisici e ideologici fra le genti del mondo.
Non dimenticando mai, però, che qualunque sia il futuro, la civiltà e la cultura europea possono essere orgogliose di aver dato all’umanità, che procede nella sua evoluzione unitaria verso l’ignoto, un contributo di valori morali e sociali, di sensibilità estetica e di razionalità scientifica che rimangono patrimonio fondamentale di ogni ulteriore momento evolutivo.
La transizione verso una possibile, unica realtà etnica mondiale, vissuta come naturale e fecondo processo evolutivo dell’intera umanità, potrà consentire di cogliere, a chi saprà farlo, l’emozione della sua crescita umana: vivere in modo pacifico in una società intensamente multietnica, con tante culture, tanti modi di vivere, tanti colori, tante sensibilità, sarà inebriante e ricco di infiniti stimoli per chi potrà avere la fortuna di viverci in pace.
Alla condizione che anche nei più nascosti angoli della società europea arrivi la consapevolezza della sterile inutilità di ogni orgoglioso arroccamento che, ove dovesse ergersi a muro opposto al futuro, non potrebbe provocare altro che una più dolorosa agonia.
Racconta Denis Mack Smith, ne la Storia della Sicilia medievale e moderna, come Palermo, nel Duecento, fra la fine della dominazione araba e il regno di Ruggero II, abbia dimostrato la fecondità dell’incontro pacifico fra le etnie e le culture. Alla lettura di quella storia è rinviato chiunque voglia approfondire la fondatezza o meno di quanto è stato sostenuto in queste note.
Comments
21/11/2013 at 13:47
L’auspicio di una società mondiale multietnica che rappresenti la somma degli aspetti positivi delle diverse culture è senza dubbio condivisibile.
Il superamento di ogni forma di razzismo e di presunte superiorità di una “razza” rispetto ad un’altra non solo deve essere perseguito, ma è soprattutto conditio sine qua non perché a questo traguardo si possa arrivare in modo relativamente pacifico.
Credo peraltro che una difesa della nostra cultura occidentale: arte, musica, valori democratici, sensibilità estetica, sia altrettanto auspicabile ed indispensabile affinché non siano le altre culture a far scomparire quanto di altamente positivo è nella nostra.
Se, come abbiamo imparato a scuola, “Grecia capta ferum victorem cepit” facciamo in modo, giustamente senza arrocarci in vane e inammissibili difese ad oltranza, che i nostri valori morali e sociali, possano conquistare o perlomeno influenzare questa nuova ineluttabile realtà futura.
o Giuseppe Di Marco
21/11/2013 at 17:02
Carissimo Mario,
Complimenti per questa tua analisi anche per il suo ottimismo ed apertura.
A quanto da te descritto, io volevo dare un piccolo contributo aggiungendo che la società di oggi (purtroppo) tende a evidenziare molto di più le situazioni di crisi per una capacità di comunicazione che fino ad ora non abbiamo mai avuto.
Purtroppo, quando la comunicazione è tanta e trasversalmente pervasiva, tra i contenuti prevalgono quelli “negativi” piuttosto che quelli “positivi”.
Basta confrontare (senza dare giudizi di merito) il numero dei follower su Twuitter” di Papa Francesco con il numero dei follower di Lady Gaga.
Un abbraccio,
Giuseppe