Aggiornato al 02/05/2024

Non sono d’accordo con quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo

Voltaire

11 marzo 2017

Amare il futuro.

Nella vita la probabilità di avere le cose dipende anche dal desiderio che delle stesse si ha o meno. In altri termini, non si riesce mai ad avere una cosa se non la si desidera, se non piace. E la stessa cosa vale per le persone, le amicizie, così come gli amori, si scelgono sempre anche quando pensiamo che sia tutta colpa o merito del destino. La stessa cosa si può dire del futuro. Ogni persona può amare il futuro o non amarlo e anzi cercare di non farlo arrivare mai. Nel primo caso c’è un amore verso il cambiamento, l’innovazione, la voglia di avere una vita sempre piena di curiosa intelligenza, di prospettive e di progetti, mentre nel secondo caso non si vuole rischiare di perdere i privilegi dei quali si sta godendo o si ha paura di quello che può succedere e che non si conosce preferendo accontentarsi nel bene o nel male di quello che si ha rispetto a quello che si potrebbe avere o non avere. Questo atteggiamento verso il futuro può essere di una persona in modo consapevole o meno e può essere di un intero paese. Ci sono, infatti, dei popoli che per la loro storia, la loro cultura non hanno la capacità, il senso dell’avventura, la voglia di mettersi in gioco, di provare a vedere se esistono soluzioni per vivere meglio insieme, prigionieri di forme di egoismo collettivo forse provenienti anche da abitudini all’obbedienza e da utopie ideologiche collettive che hanno consentito illusioni pur in situazioni che non avrebbero potuto permettere obbiettivamente miglioramenti sociali e politici. Le ideologie, così come le religioni in generale, quando sono molto penetrate nella cultura di un popolo, lo condizionano pesantemente e soprattutto non gli consentono di progettare un futuro libero e pieno di speranza, perché in ogni caso condizionato da pregiudizi e condizioni che si ritengono irremovibili. La libertà non può avere condizionamenti così come il futuro, che in definitiva è sempre quello che ciascuna persona o popolo si costruisce, perché lo ama e perché ama la vita di cui si sente e vuole essere protagonista e non solo seguace.

13 marzo 2017

Il fascista moderno.

Un borghese come provenienza sociale che ha avuto successo (senza dimenticare che a proposito di successo la sua falsa somiglianza con il merito inganna gli uomini, come diceva Victor Hugo) o che non lo ha avuto e soffre per non averlo avuto perché pensa di meritarlo. Questo è un fascista moderno, che non si distingue più per il suo modo di vestire o per certi simboli di cui si circonda (anche se le eccezioni in merito ci sono), ma per il suo comportamento sociale e personale, cioè per come si comporta nei confronti di familiari, parenti e amici, oltre che nella quotidianità del suo lavoro. Crede nei valori tradizionali di Dio (tutti i fascisti sono religiosi), Patria e famiglia.  È nazionalista, preferibilmente autarchico e populista per opportunità e per tattica ma non per vocazione. Se ha avuto successo pensa che quelli che non lo hanno avuto sono dei poveretti che non lo meritano e che lui è sicuramente superiore, ha più diritti e si merita più rispetto e attenzione. Se non ha avuto successo pensa che ci sono dei complotti che tendono ad escludere i veri meritevoli come lui e che vanno combattuti. Entrambi i tipi di fascista sono arroganti, nelle discussioni non accettano il dialogo, non ammettono mai di avere torto. Infine sono conquistatori, hanno schiere di donne che aspettano solo un segnale anche impercettibile per donarsi completamente perdute, raccontano spesso delle loro avventure straordinarie e che considerano uniche e di cui vanno fieri. In politica sono conservatori, dicono di credere alla democrazia ma in cuor luogo pensano che debba essere guidata come diceva Amintore Fanfani, giudicano un governo dall’andamento delle Borse e dalle vittorie diplomatiche, credono nelle prove di forza, nella difesa dei confini, sono razzisti nel senso che considerano coloro che riescono ad infiltrarsi e magari parlano in modo diverso o hanno un colore della pelle diverso non sullo stesso piano, ma buoni per adempiere a funzioni di servizio. Il loro ideale è il Leone Britannico quando era leone e anche adesso pur se decaduto, ma certamente superiore nella dignità e nel comportamento. Il mondo è pieno di fascisti moderni, prima non lo volevano ammettere mentre adesso lo fanno anche con molto orgoglio. La loro presenza e diffusione non aiuta a creare una comunità uguale, solidale, giusta.

14 marzo 2017

L’inaugurazione dell’anno giudiziario.

La televisione trasmette l’inaugurazione dell’anno giudiziario dei più importanti tribunali, come Roma o Milano per esempio, e poi naturalmente quello della Corte di Cassazione e della Corte Costituzionale. Ma anche di quello della Corte dei Conti e del Consiglio di Stato. Sono rappresentazioni straordinarie che sembrano organizzate da grandi registi e scenografi (Luchino Visconti ne sarebbe estasiato) tanto sono perfette nel riprodurre tempi che sono scomparsi e che i giovani non possono assolutamente ricordare, tanto sono lontani nel tempo. Il Presidente di ognuno di questi tribunali e corti di giustizia legge una relazione scritta e lo fa peraltro insieme a tutti i presenti che ne hanno copia ed è circondato da altri giudici tutti vestiti con vecchie toghe nere con bordi dorati e cappelli rotondi anche essi bordati d’oro, con l’aria severa come se stessero annunciando l’invasione di forze extraterrestri o di eventi naturali imprevedibili anche dal più grande scienziato del mondo, peraltro in un linguaggio che forse la stessa Accademica della Crusca sconsiglierebbe di usare perché antico e incomprensibile ai più (certamente riscontrabile in vecchi testi di vecchi monasteri). Il contenuto di questi interventi riporta alcuni dati della situazione, peraltro già da alcuni giorni diffusi dai principali giornali e televisioni, e contiene giudizi non solo e non tanto sulla giustizia e come sta andando la sua amministrazione (cosa che sarebbe di stretta competenza), bensì sul paese e su quello che devono fare il Parlamento, il Governo e quanti altri hanno compiti istituzionali (e menomale, hanno occasione di ribadire, che loro garantiscono le mancanze di tutti le istituzioni e lo fanno lodevolmente senza che nessuno glielo ha chiesto). I protagonisti di questo spettacolo sono tutti vecchi e non ci sono giovani e gli stessi spettatori seduti in silenzio sono sempre gli stessi e sono le cariche istituzionali del paese che girano da un tribunale all’altro, da una corte all’altra (quasi come le vacche dei tempi della buonanima). L’atmosfera è satura di gravità, alla fine ci sono compostissimi applausi e tutti si disperdono con leggeri sorrisi che potrebbero sembrare di approvazione e con i loro fogli contenenti il discorso del Presidente. Per capire dove è il nostro paese e dove sta andando basta assistere anche ad una sola di queste rappresentazioni, così come per capire perché è prigioniero di un sistema che lo stritola sempre più senza alcuna possibilità di sviluppo.

15 marzo 2017

Il papulismo è il populismo papale?

Sono quattro anni che questo Papa venuto dall’altra parte del mondo, come lui ha detto quando è stato proclamato, guida, come si suole dire, la Chiesa di Cristo. Ha suscitato tanto entusiasmo, ovunque va moltitudini accorrono per vederlo e per ascoltarlo. Il suo buon senso sta facendo epoca quando su tante questioni invita le sue strutture ad essere permissivi e non rigidi come tanti padri del passato e non solo. La forza con la quale predica la misericordia e con la quale denuncia i malanni del mondo e le pericolosità che attendono gli uomini di tutti i continenti è proverbiale, la sua umiltà che manifesta nel modo di vivere, di parlare, di approcciare, di andare sta meravigliando il mondo ed, infine, il ponte che sta tentando con tutte le religioni è visto da tutti con grande speranza. Ma una domanda sorge spontanea: cosa ha cambiato nella Chiesa questo Papa? Non ha aperto la strada alle donne nella Chiesa, non ha concesso alcuna deroga al pensiero della sua Chiesa sui grandi temi della umanità come aborto, eutanasia, omosessualità, comunione ai divorziati. In altri termini non ha toccato non solo la dottrina ma anche i sacramenti, non ha avviato alcun processo di revisione o di riforma. Si è limitato a cambiare qualche cardinale ed ha dato la sensazione di aver cambiato molto senza in realtà aver cambiato nulla, come direbbe il principe di Salina. Ecco che allora nasce il termine papulismo che trasferisce all’ambiente vaticano quello che il populismo fa nella società civile: promesse, speranze confuse con certezze, sensazione di lasciare il passato alle spalle come non più condivisibile e tutto ciò con una capacità e una tecnica di comunicazione di grande forza ed efficacia. L’abbandono della ritualità che è anche sacralità se contemporaneamente non si avviano cambiamenti strutturali e sostanziali può essere nel tempo controproducente. Infatti Francesco ha più successo con gli atei mentre procura irritazione nei cattolici ortodossi, soprattutto all’interno della sua Chiesa e del suo Vaticano, e gli atei non si convertono mentre gli ortodossi sono sempre pronti per la controriforma. Questo Papa, dopo quattro anni, è al bivio: o decide veramente di cambiare la Chiesa e non fermarsi ad essere considerato il libertador del capitalismo e l’ariete del movimento ecologista che magari lo potranno portare alla santità o rischia un ritorno al passato con ancora più forza e rigidità non solo dopo di lui ma già con lui quando i suoi nemici si accorgono che nulla può cambiare sotto il cielo della culla del cattolicesimo.

16 marzo 2017

Tutto bene in Olanda?

Dunque in Olanda ha vinto di nuovo il centro destra dopo qualche settimana di sondaggi traballanti e ha battuto il partito antieuropeo e, soprattutto, razzista di Geert Wilders. Come in Austria, il partito razzista ed antieuropeo è stato battuto, in quel caso sul filo di lana. In Olanda comunque il partito razzista aumenta i voti e i seggi in Parlamento e si può dire che è in crescita. La notizia più importante è che in Olanda ha votato l’82% degli aventi diritto e cioè c’è stata una larga partecipazione, che ha respinto il razzismo e bisogna sperare che anche nel futuro gli olandesi non si distraggano perché la situazione è pericolante. Altro fatto rilevante dei risultati olandesi è la progressiva scomparsa della sinistra, ma questo è comune a tutto il mondo (e dovrebbe fare riflettere anche in casa nostra). Dopo avere espresso soddisfazione per quel che è successo (almeno da parte di chi crede ancora nella Europa e non è razzista) bisogna notare che la società olandese mostra sempre più sintomi di insoddisfazione e di turbamento. Ed il fatto che ciò avviene in un paese dove l’economia va bene (cresce del 2% da diversi anni), la disoccupazione è solo fisiologica (circa il 5%), la società da sempre si può considerare stabile, aperta, multiculturale, capace di integrare nuovi immigrati e trasformare anzi questo fenomeno in una forza, vuol dire che la crisi è indipendente da fatti economici, cioè il populismo, il razzismo, e nel nostro continente l’antieuropeismo e altri fenomeni collegati, non sono in relazione a crisi economiche. Infatti, la stessa cosa in Austria sopra citata (populismo quasi vittorioso), ma le stesse ragioni sono alla base di Brexit e della stessa vittoria di Trump negli Stati Uniti. Il grande fenomeno della immigrazione e la paura che provoca è certamente un motivo, la pochezza dei governanti sta preoccupando soprattutto se si esaminano i privilegi di cui questi godono, la mancanza di visione del futuro si percepisce chiaramente, la concentrazione della tecnologia nelle mani di poche aziende e di pochi uomini è sicuramente una spada di Damocle perché si sa che condizionerà il mondo (che lo sta permettendo), la gestione del mondo stesso nelle mani di finanzieri e di economisti con i politici ormai relegati in secondo piano si avverte chiaramente e si capisce che costoro non si preoccupano delle comunità (ma solo dei profitti loro, cosa che sta alla base dello sviluppo delle diseguaglianze). In altri termini, l’Olanda ci dice che bisogna approfondire le analisi delle nostre società e preoccuparsi di più del futuro, perché la malattia delle comunità ovunque non è conseguenza della crisi economica come superficialmente pontificano tanti superficiali commentatori, ma ha radici più profonde di natura culturale e sociale.

17 marzo 2017

La politica del deal.

Deal vuol dire affare e per Donald Trump è tutto un deal come potrebbe dire Renzo Arbore se dovesse scrivere ancora qualche suo spettacolo. Questa è la vera rivoluzione culturale di Donald come viene chiamato da amici ed oppositori familiarmente. Bisognerà vedere se si diffonderà e prenderà il posto della politica nella concezione classica, come servizio per la cura e lo sviluppo della comunità e che affonda nel pensiero classico arrivato sino a noi. Per la verità ci sono esempi di statisti che hanno pensato e pensano alla politica come deal, come affare, anche anteriori allo stesso Donald, ma in una versione mista e mai totalmente dedicata, influenzata, diretta esclusivamente al deal. Al deal come centro della politica, degli obiettivi politici solo lui ci sta introducendo e potrebbe anche avere successo con le conseguenze che in questo momento sono imprevedibili (certamente rimarrà nei libri di storia come promotore e/o responsabile di una svolta epocale). Sembra che abbia scritto un libro nel 1987 chiamato appunto l’arte del deal e a cui continua a ispirarsi. I suoi principi sono: pensare in grande, massimizzare le opzioni, usare il proprio vantaggio, riconquistare posizioni di forza se si è in difficoltà, divertirsi. Per cui deve essere chiaro a tutti che da questo momento tutto va negoziato: le cose si fanno non per una visione politica ma in relazione al deal, all’affare. Si capisce che abbia voluto sostituire al sistema commerciale multilaterale, la trattativa bilaterale nella quale uno vince (il più forte) e l’altro perde perché ha la carta peggiore, come a baccarat. Auguri mondo, chi può e chi ci crede si munisca di un amuleto potente!

18 marzo 2017

Il referendum è democrazia?

Un antropologo belga, David van Reybrouk, ha appena pubblicato un libro che si chiama “Come salvare la democrazia”, nel quale parla della democrazia diretta, di quella rappresentativa e di quella partecipativa. Affronta il tema del referendum che è classificabile come uno strumento della democrazia diretta e ritiene che se affronta temi di alto valore emozionale senza una preparazione tecnica sufficiente si trasforma in una forma di disattenzione della democrazia. Sostiene il belga che sottoporre al popolo assolutamente impreparato questioni che possono condizionare il futuro del paese come uscire o meno dalla Unione Europea è assolutamente irresponsabile (come abolire o introdurre la pena di morte, abolire o introdurre una tassa). In altri termini, quando la questione che si vuole porre al popolo ha implicazioni gravi per il futuro e si pretende una risposta solo con un sì o con un no, significa effettuare una operazione democratica solamente per la forma ma molto lontana nella sostanza. Ed allora, per sviluppare ulteriormente questo discorso, tutta la democrazia diretta è pericolosa (soprattutto per popoli non particolarmente maturi per esperienza e per frequentazioni internazionali) perché affida a persone totalmente impreparate decisioni spesso anche tecniche, certamente complicate soprattutto nel mondo di oggi. Ed è per questo che è stata inventata da chi ha inventato la democrazia, la democrazia rappresentativa e cioè la scelta di delegati capaci di capire, di rappresentare. Perché viene messa in dubbio la democrazia rappresentativa? Perché può non funzionare la intermediazione dei partiti nella scelta dei delegati e perché l’allargamento della rappresentatività (centro e periferia) quasi sempre è la causa di opportunità di corruzione che nei momenti in cui i valori traballano rischiano di diffondersi (quindi allargare la democrazia non sempre è una operazione utile alla sua diffusione). Come è successo nel nostro paese.  In altri termini lo studioso dice che la democrazia diretta è pericolosa perché può portare il paese al di fuori dei binari degli interessi comuni e che la forma più alta (soprattutto più vera) di democrazia è quella rappresentativa e aggiunge che per curare il male non bisogna uccidere il malato. Bisogna dunque far funzionare i partiti e garantire i criteri di scelta dei delegati oltre a controllare le opportunità di corruzione (se si vuole fare camminare il paese). Ed allora va bene il referendum (visto come strumento integrativo della democrazia rappresentativa) ma non su questioni vitali di tipo costituzionale o di appartenenza ad un certo tipo di alleanze internazionali o meno. Interessante la sua analisi, soprattutto perché apre un dibattito sulla evoluzione della democrazia e di come questa deve reagire alle tempeste cui le attualità la sottopongono.

19 marzo 2017

La buona educazione serve?

Osservando la cafoneria con la quale il Presidente degli Stati Uniti (nientemeno) Donald Trump ha trattato la cancelliera tedesca Angela Merkel viene da riflettere se la buona educazione serve nella vita e soprattutto è necessaria quando si ricoprono incarichi ufficiali e formali magari in rappresentanza di popoli o di importanti gruppi di persone. Certo l’epoca che stiamo vivendo in cui molti (la maggioranza) non sa scrivere, non sa vestirsi, non sa parlare se non per sigle e stereotipi, non rispetta persone e canoni formali di attenzione reciproca, può suggerire che forse la buona educazione non fa più parte del bagaglio di tanti e neanche di statisti o funzionari di alto livello. Ma non è vero! Perché la perdita della buona educazione, del rispetto della forma è l’anticamera della mancanza di rispetto di accordi e di relazioni, cosa che può rappresentare la strada verso forme di violenza. Così è stato nella storia passata, per esempio quella europea, che pensavamo di avere superato con tanti decenni di paziente costruzione di relazioni umane personali e collettive dalla fine della seconda guerra mondiale in poi. Se gli scenari internazionali dovessero essere popolati da persone che hanno poco rispetto per gli altri e che non credono alla buona educazione, non sarebbe una buona notizia per il mondo e rischierebbe di alimentare preoccupazioni e nessun vantaggio per il mondo del futuro anche per la parte in cui i maleducati stanno e pensano di comandare.

20 marzo 2017

Si può vincere?

Ogni tanto uomini delle istituzioni vanno in visita a località del paese dove tutti sanno si annidano basi operative di organizzazioni criminali (ne vantiamo alcune di livello assolutamente internazionale). E nei discorsi che in queste occasioni si pronunciano e che poi in qualche modo sono sempre gli stessi con piccole e doverose personalizzazioni geografiche, si afferma che lo Stato sta lottando, i successi stanno arrivando e che le organizzazioni criminali si possono assolutamente vincere. Questo lo dicono gli uomini delle istituzioni in visita e i sindaci e altre autorità locali, i vescovi o arcivescovi del luogo. Naturalmente non succede niente e la scena si ripete puntualmente alla prossima visita di un Ministro, di un Presidente della Repubblica o del Governo o magari di qualche Presidente di Autorità Speciale (nel nostro paese ce ne sono tante per non farci mancare niente) e persino della Camera e del Senato (i poteri che continuano a fare leggi che qualche volta entrano in vigore quando la burocrazia decide in loro favore). Da un punto di vista teorico è certo che uno Stato qualsiasi può vincere le organizzazioni criminali che operano sul suo territorio. Ma non ci dovrebbero essere le connivenze che queste hanno in tutti i poteri dello Stato medesimo a tutti i livelli come la storia peraltro ha sufficientemente dimostrato e che possono fare leggi ad hoc, ritardare leggi non gradite, intervenire nei giudizi della magistratura ed eventualmente nei modi e tempi della espiazione delle pene. E poi soprattutto bisognerebbe investire nel paese e nel meridione in particolare per fare lezioni di moralità nelle scuole, negli uffici, nelle aziende, nelle chiese, ovunque ci siano aggregazioni per convincere la popolazione che esiste una alternativa al suo comportamento e alla sua maniera di interpretare la vita della comunità ed il modo di partecipare anche nel proprio interesse. Si può vincere, non in tempi brevi naturalmente, solo se si riesce, in altri termini, a modificare la cultura del paese.

Inserito il:11/03/2017 23:19:43
Ultimo aggiornamento:20/03/2017 07:54:13
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