Aggiornato al 09/11/2024

Non sono d’accordo con quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo

Voltaire

Alexander Sharpe Ross (Scotland/USA, 1909-1890) - A visit from a doctor

 

Nella cura del tumore ci vuole “empowerment”

di Francesca Morelli

 

“Shared decisions, one policy”, ovvero pazienti chiamati ad essere più coinvolti in ogni aspetto che riguarda la loro salute e decisone terapeutica, specie in relazione a una problematica di ordine oncologico, riguardante aspetti clinici e non: dal rimodellamento della sperimentazione clinica fino alla tutela della privacy, così come dalla legislazione alle questioni complesse tra cui la gestione dei dati genetici, al centro dei molti nuovi protocolli della medicina personalizzata.

Nel rispetto di un intendimento nuovo di fare medicina, secondo il concetto di ‘patient empowerment’. Termine coniato e sviluppatosi negli Stati Uniti a partire dagli anni ’70, che implica la partecipazione del paziente a tutti i processi decisionali come prevede anche la pianificazione delle nuove strategie sanitarie dell’Unione Europea.

È una richiesta non solo istituzionale, ma anche dei malati stessi emersa dal primo Forum Internazionale sull’empowerment del paziente oncologico, promosso dall’Università degli Studi di Milano in collaborazione con Fondazione Umberto Veronesi. Evento che ha anche formulato, nero su bianco, il “Patto per l’empowerment” con la richiesta ufficiale alla comunità scientifica, medica, agli operatori sanitari, alle autorità politiche e regolatorie, alle associazioni e all’industria, di adoperarsi concretamente affinché la centralità della persona malata e della sua dignità sia alla base di ogni intervento di ricerca, di formazione e di cura dei pazienti con tumore. Interesse che invece ancora oggi non avviene o, se accade, resta carente e lacunoso come attesta una indagine dell’Istituto di Ricerche SWG, condotta tra uomini e donne di età superiore ai 45 anni, residenti in paesi europei – Italia, UK, Spagna, Francia e Germania – che hanno conosciuto la malattia oncologica in prima persona o in maniera indiretta assistendo un familiare.

Il sondaggio rivela, infatti, che solo il 4% dei pazienti scopre di essere affetto da tumore durante una visita di controllo, segno che c’è ancora molto da fare in termini di campagne di informazione e screening che, in una lettura di ‘patient empowerment’, significa già in fase preventiva un atteggiamento/approccio alla malattia poco proattivo da parte del malato. Il quale tuttavia si trova a dover affrontare altre importanti carenze: prima fra tutte la scarsa informazione o partecipazione da parte di medici curanti e/o strutture sanitarie e il mancato supporto psicologico ricevuto soltanto nel 7% dei casi, invece fondamentale soprattutto nella fasi iniziali e di accettazione della malattia come espresso anche dal 79% degli italiani oncologici.

«La diagnosi di tumore – spiega Guja Tacchi dell’Istituto Ricerche SWG, commentando i risultati del sondaggio - genera paura nel 75% dei pazienti, tristezza nel 52% di essi e in 3 su 10 solitudine e rabbia. Alla comparsa dei sintomi 8 malati su 10 si rivolgono al medico, di cui il curante nel 60% dei casi è la prima figura di riferimento, mentre per il 47% l’oncologo è il professionista più adatto a comunicare la diagnosi. Riguardo l’empowerment, la partecipazione attiva alla cura è percepita molto importante da 7 pazienti su 10, tuttavia meno della metà (47%) degli intervistati dichiara di essere pienamente consapevole del proprio percorso terapeutico, contro oltre un quarto che lo è poco o affatto».

Dunque in tema di empowerment, l’Italia ha ancora molto da imparare, tanto da classificarsi al penultimo posto in classifica (66%) tra i paesi che mettono in atto questo approccio alla malattia, seguita solo dalla Spagna (58%) e preceduta dalla Francia (67%). Le nazioni più virtuosamente ‘empowered’, con pazienti che riconoscono un elevato valore alla partecipazione alla cura, ci sono, in testa l’UK (75%) e Germania (72%) con percentuali ben superiori rispetto alla media del 68%.

Un dato, quello italiano, da non sottovalutare se si considera che nel nostro paese, nonostante sia diminuita la mortalità per cancro del 23% tra il 1995 e il 2012 e più velocemente rispetto agli altri paesi UE (-17%) grazie agli avanzamenti e progressi scientifici che hanno consentito un tasso di sopravvivenza a 5 anni superiore alla media europea, l’incidenza di tumore è cresciuta del 15% in circa un ventennio raggiungendo quasi 600 malati ogni 100.000 e collocando l’Italia al terzo posto per l’elevato numero di diagnosi. Tali che l’impatto delle patologie oncologiche ha superato quello delle malattie cardiovascolari.

«Oggi, quando si intraprende un percorso di cura – dichiara Gabriella Pravettoni, direttore della divisione di psiconcologia all’Istituto Europeo di Oncologia e ordinario di psicologia delle decisioni all’Università Statale di Milano - occorre condividerlo con la persona che si ha di fronte a prescindere dal sesso, dall’età e dalle sue conoscenze in ambito medico. Comunicare è fondamentale, anche perché sempre più spesso dal cancro si guarisce. L’essere ascoltati, seguiti e accuditi dai propri familiari favorisce l’auto-efficacia e riduce i livelli di ansia e preoccupazione collegati alla malattia».

Troppo spesso, invece, il “patient empowerment” resta ancora relegato a una dichiarazione di intenti e raramente viene tradotto nella prassi medica e sanitaria quotidiana. Il “patient empowerment” non dovrebbe rientrare nel percorso di ‘umanizzazione della medicina’, di attenzione alla persona di cui tanto oggi ci si vanta?

 

Inserito il:22/08/2017 08:49:57
Ultimo aggiornamento:22/08/2017 08:57:52
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