Aggiornato al 27/04/2024

Non sono d’accordo con quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo

Voltaire

Ethiopia’s Nile mega-dam is changing dynamics in Horn of Africa © Ingram Pinn/Financial Times

 

La Grande Diga Africana e la guerra dell’acqua tra Egitto, Etiopia e Sudan (2/2)

(seguito)

di Vincenzo Rampolla

 

La prima raffineria di petrolio etiope è stata costruita nel 1967 da ingegneri russi nel porto di Assab, sotto l’impero e con capacità produttiva da 500-800.000 t di grezzo. L’esplorazione di petrolio e gas nella regione dell’Ogaden risale al 1945 quando l’ex imperatore Hailé Selassié fu costretto a bloccarla per le proteste contro il progetto. I trattati con Italia e Gran Bretagna definirono le frontiere sud-orientali dell’Etiopia riconoscendole la sovranità sull’Ogaden, territorio rivendicato dalla Somalia e nel 1977-78 oggetto di un conflitto con l’Etiopia, mai sedato. Nessun successo delle esplorazioni nel periodo 1955-1991, quando furono scavati 46 pozzi a Calub e Hilala, siti scoperti inizialmente nel 1972 dall’americana Tenneco e in seguito dalla sovietica Petroleum Exploration Expedition, attiva nel bacino dell’Ogaden. Dopo la secessione dell’Eritrea, l’Etiopia ha utilizzato la raffineria fino al 1997. A partire da quell’anno, ha iniziato a importare prodotti petroliferi raffinati. Nel 2007 i ribelli secessionisti dell’ONLF (Ogaden National Liberation Front) hanno preso d’assalto un nuovo giacimento petrolifero scoperto dalla società cinese Poly- Gcl (Petroleum Group Holdings Ltd - sede a Hong Kong), hanno trucidato 74 operai e distrutto l’intera struttura. Il governo etiopico reagì radendo al suolo interi villaggi intorno a Calub, confinò a 40 km di distanza la zona del giacimento e lo mantenne fortemente militarizzato. A fine 2013 Poly- Gcl, è ritornata alla carica, ha sviluppato una nuova tecnologia di esplorazione petrolifera e ha investito nella ricerca e sviluppo del bacino dell’Ogaden. A fine marzo 2018 ha scoperto nuovi giacimenti con enormi risorse di gas e petrolio; a Calub le riserve di gas sono superiori a 200 miliardi m³ rispetto ai 133 miliardi m³ iniziali. Secondo Koang Tutlam, Ministro delle Miniere, del petrolio e del gas naturale di Addis Abeba, Poly- Gcl ha anche scoperto una notevole quantità di grezzo a Hilala in nuovi siti a 1.200 km a Sud-est della capitale. Poly- Gcl ha condotto indagini sismiche in 3D e 2D che hanno reso possibili lavori di esplorazione di alto livello e di successo e ha subappaltato a BGP Geo Servizi, altra società cinese, la raccolta dei dati sismici nell’intera area di licenza di 93.000 km². I successi nelle scoperte dei depositi di gas e petrolio hanno convinto il Ministero etiope e Poly-Gcl a collaborare e realizzare gli impianti per l’estrazione e la gestione dei nuovi giacimenti.

Sull’onda dei successi cinesi, si passa dall’accordo per infrastrutture a un mega-accordo per un gasdotto, con l’Etiopia considerata da Pechino una base di enorme peso strategico. I due famosi piccioni con una fava: Poly- Gcl con i Governi di Etiopia e Gibuti sigla 4 PPAS (Personal Property Security Act), atti a garanzia degli accordi per il progetto di un gasdotto di 760 km, e all’unisono il Governo di Etiopia con il Governo di Gibuti avviano la costruzione del gasdotto. L’impianto a Gibuti renderà liquido il gas estratto (GNL) e sarà esportato in Cina con navi attrezzate per GNL. Stima del costo totale del progetto: $ 4 miliardi. Inizio dell’esportazione prevista entro il 2021 e capacità di generare a regime per l’Etiopia una base di entrate di $1,4 miliardi all’anno proiettata a $7 miliardi nel breve-medio termine. La raffineria avrà la capacità di trasformare 6 Mt di petrolio grezzo, pari a circa 120.000 barili al giorno. La capacità della raffineria verrà portata a 12 Mt annue e fornirà l’Etiopia e parte del mercato dell’Africa orientale. L’accordo con il Governo etiope porterebbe il Paese a guadagnare il 50% su ogni entrata derivante dalla produzione di petrolio o gas; di questo circa 10% andrà all’Area di produzione e il resto sarà ripartito tra il Governo e le Regioni federali.
I successi cinesi in Etiopia non hanno limiti. In arrivo un’altra mega partecipazione cinese nel più grande progetto infrastrutturale del Paese: il momento più atteso da Pechino, al termine di una lunga attesa alla finestra del progetto GERD per metterci le mani sopra. Abilissima manovra cinese di accerchiamento della preda etiope. La società EEP (Ethiopian Electric Power) firma un contratto di $40 M di dollari con il Gruppo China Gezhouba Group per la gestione delle attività relative alla Grande Diga Africana GERD, operativa entro il 2022 e a pieno regime nel 2023.                                        

Il Presidente Xi ce l’ha fatta. Ha marcato un punto in una situazione cruciale e complessa. Con la sua forza finanziaria, ha messo un piede fermo nella contesa tra Etiopia, Egitto e Sudan. L’uomo non si è fatto scrupoli a tessere accordi e prospettare investimenti anche a operatori ostili e battaglieri, va detto facili prede, mosse dal potere e incompetenti.

La diga GERD in Etiopia è al centro di uno stallo in cui la Cina ha trascinato la Russia a infilarsi in coppia. Mentre l’Etiopia sprofonda nella lotta civile, Putin e Xi mettono alle spalle al muro il Presidente egiziano Al Sisi con un perentorio diktat congiunto: Non deve intervenire. Secondo fonti di stampa locali, entrambe i leader hanno comunicato al Cairo il loro secco rifiuto per un qualsiasi genere di ostilità contro Addis Abeba, in ogni circostanza. Concludono e rimarcano: L’Egitto dovrebbe fare uno sforzo maggiore con l’Etiopia invece di acuire conflittualità e rivendicazioni. Eppure quando il Governo di al Sisi ha presentato le proprie richieste per attivare il riempimento del bacino, il Primo Ministro etiope, Abiy Ahmed, le ha bellamente respinte definendole: Un tentativo di mantenere il proprio dominio coloniale sull’allocazione delle risorse idriche e di continuare ad avere potere di veto su qualsiasi decisione riguardante il progetto del Nilo. Istrione e assolutista, ma prepotente e con il coltello dalla parte del manico.                                  

Conclusione? A novembre 2020 e la situazione ristagna peggiorata. Le pressioni di Mosca e Pechino per un’intesa sono quisquiglie alla luce delle parole di Trump, mediatore di turno.

Ai giornalisti ha detto che l’Egitto finirà per far saltare in aria la diga e ha parlato dei rapporti con il Sudan, con Khartoum allineato con il Cairo. Intanto le posizioni assunte da Russia e Cina rivelano impareggiabili tattiche di diplomazia: marcare una differenza con gli Usa e chiudersi, facendo i propri interessi: per Pechino la situazione sociale in Etiopia rappresenta un alto rischio e la stabilità del Paese è la chiave per la sua permanenza in Africa. Per Mosca, giova tenere l’equilibrio in atto e scoprire le carte: massimo interesse per il Sudan

e creazione di una base militare strategica nell’area Mar Rosso - Suez - Corno d’Africa.

Dagli annunci ufficiali di Putin, la Russia inizierà la costruzione di una base navale a Port Sudan, a pochi chilometri da un porto che la Cina inserisce nella Via della Seta e a nord del Corno d’Africa, in un contesto decisamente incandescente. Potrà ospitare fino a 4 navi da guerra e potrà essere usata per lo smercio di armamenti, in pratica un centro logistico militare nel Sudan con la Cina piazzata a Gibuti. A due passi. E il duo Vladimir-Xi, auto investitosi del ruolo di guardia del corpo dell’Oceano Indiano, procede imperterrito.

Lo scorso anno Mosca ha chiuso un accordo di cooperazione militare con Khartoum di durata 7 anni e ha introdotto nel Paese il Wagner Group, gruppo paramilitare privato del Cremlino usato per interventi in ambienti in cui occorre portare avanti lavori sporchi e clandestini (tipo  la guerra civile sudanese o gli interventi in Siria) e sfruttare contesti particolari per creare ad arte reazioni critiche per Mosca.

Intanto a circa 60 km a nord della futura base militare russa di Port Sudan, a Haidob la Cina sta ultimando la costruzione di un porto di raccordo per alcuni vettori inseriti nella Via della Seta. I suoi nodi sono disseminati ovunque. La struttura sarà dedicata al trasporto di bovini, cammelli e pecore, in priorità per i mercati asiatici, e verrà costruita dalla China Harbor Engineering Co. con gestione affidata alla governativa Sea Ports Corp. Di lì alla decisione di Pechino di arricchire quella postazione strategica con elementi di intelligence o scali per missioni militari, il passo è breve. Se non altro per fare gioco di squadra con la base di Gibuti sita a due passi. L’infrastruttura portuale di Port Sudan sarà gestita dalla DP World, pedina degli Emirati, gigante del settore, con Abu Dhabi che pensa al Mar Rosso come un segmento nevralgico nella cosiddetta strategia della collana di porti. E c’è dell’altro. Da quella costa si può dare un’occhiata a Gedda e a La Mecca, le due più importanti città dell’Arabia Saudita. E non è tutto. L’Arabia Saudita sta strutturando il Consiglio del Mar Rosso, raggruppamento di Paesi in odore economico-commerciale e dal chiaro sapore geopolitico, dal quale Riad ha escluso gli Emirati e l’Etiopia. Per ora.

È tempo di fare il punto. Tutte le grandi potenze si sono ammucchiate in un’area con interessi comuni, complementari e antagonisti. A questo si aggiunga: la crescente crisi in Etiopia, Paese storicamente fonte di stabilità nell’area, ma in piena guerra civile; la transizione del Sudan, con un Governo non rappresentativo della società civile; la Somalia, Paese fragile e insicuro; l’Eritrea instabile e al collasso e per tutti la miccia accesa sulla diga del Nilo.

La Russia, finora assente nel Mar Rosso e con rapporti quasi esclusivamente economici con il Sudan ha ingranato una marcia alta nella politica pro Africa. Nel Stato di Gibuti - grande quanto la Toscana, grosso modo 1M abitanti - c’é la prima base cinese e a 15 km circa, la base militare americana a Camp Lemonnier da dove partono i droni che colpiscono Al-Qaeda nello Yemen e a pochi km c’è la Francia, intoccabile nel suo feudo storico. Sempre a Gibuti, con l’insediamento cinese sono sbarcati i giapponesi. Dopo aver limitato per anni l’uso della forza per proteggere attività umanitarie nell’area (sic), Tokyo ha scelto di piazzarci un contingente per un fine di contenimento. E l’India, che sta covando? Stiamo a vedere.                                       

A gennaio 2020, il tentativo egiziano di coinvolgere altri Paesi nelle trattative, ha visto le autorità etiopi, egiziane e sudanesi davanti a Usa e alla Banca Mondiale, con un nulla di fatto.

E il gioco ritorna alla casella di partenza. A giugno 2020, l’Etiopia ha annunciato di voler iniziare a riempire il bacino verso la fine di luglio, con l’inizio della stagione delle piogge, anche senza accordi con le controparti, strappo inedito e significativo. Tale mossa unilaterale dal lato etiope farebbe salire a livelli imprevisti la tensione con il Cairo. Secondo le ultime previsioni, il processo di riempimento della diga GERD potrebbe comportare una perdita media annua della capacità agricola egiziana del 2,5%. Inoltre, cresce ogni anno il fabbisogno idrico del Paese e con il rapido sviluppo industriale e il costante aumento della popolazione, la perdita di capacità produttiva in campo alimentare danneggerebbe le finanze pubbliche, lo Stato sarebbe obbligato ad accrescere l’import alimentare, eroderebbe le riserve in valuta estera e creerebbe un deficit nella bilancia commerciale. Questa a sua volta andrebbe a contrarre la capacità degli investimenti del Governo nelle riforme strutturali e nel sostegno alla crescita economica. Scarsi anche i tentativi estremi del Cairo per formare un fronte compatto di più Paesi per bilanciare le pretese etiopi, sia estendendolo alla maggiore parte delle regioni dell’Africa orientale, sia contentandosi dell’adesione del vicino Sudan. Il Sudan si era accordato inizialmente con le istituzioni egiziane per contrastare il progetto, poi il Governo ha rifiutato un accordo bilaterale proposto da Addis Abeba. Rifiutando l’accordo, Khartoum ha permesso all’Egitto di rientrare nelle trattative e ha mandato a picco il blitz etiope di isolare il Cairo. Nel gioco delle parti la cosa va per le lunghe e si avvita. Rientro alla casella di partenza e il 14 luglio, Egitto, Etiopia e Sudan hanno annunciato di non essere riusciti a raggiungere un accordo sul dossier della diga GERD. Una nuova tornata di colloqui, con la mediazione dell'Unione Africana, ha visto nuovamente affondare i negoziati dopo che Addis Abeba ha deciso di disertare la firma dell’accordo a Washington, previsto a fine febbraio 2021. Finora, astutamente, Addis Abeba ha abusato di una strategia dilatoria per far crescere la pressione sull’avversaria egiziana. ma il continuo blocco nei negoziati e l’inefficacia dei vari mediatori internazionali, potrebbero indurla a giocare una mossa imprevista, un colpo di testa, tanto per mantenere alto il termometro. Di tutto c’è da aspettarsi, dopo dieci anni di battibecchi.

Se vale l’adagio del terzo che gode tra i due litiganti, in una contesa a tre è la pacchia per tutti, Cina, Russia, India, Giappone, Francia, Unione araba e chi altro? Nelle aule italiche del potere qualcuno ha strombazzato… aspetta e spera che già l’ora si avvicina.

 

(consultazione:   accordo sul nilo; approvvigionamento idrico; gerd-grand ethiopian renaissance dam; r.masto-buongiorno africa; delta del nilo; diga; egitto; etiopia; guerra dell'acqua; nilo; nilo azzurro; siccità, sudan; al jazeera news; e.moran, docente geografia e ambiente - michigan state university, corriere sera; f. donelli – unigenova - le due sponde del mar rosso: la politica estera degli attori mediorientali nel corno d’africa, mondadori università, 2019; f. donelli – unigenova - le due sponde del mar rosso: la politica estera degli attori mediorientali nel corno d’africa, mondadori università, 2019; a.galvi - notizie geopolitiche ice, bloomberg, the reporter ethiopia bonelli erede with lombardi pappalardo studio legale agenzia nova; buongiorno africa, r.masto - centro diocesano crema; cesi centro studi internazionali m.urbinati)

 

Inserito il:18/02/2021 12:23:30
Ultimo aggiornamento:18/02/2021 12:33:38
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