Judith Redman (from Fort Collins, CO - United States) – Schizophrenia
Disturbo dello spettro della Schizofrenia e altri Disturbi Psicotici
di Anna Maria Pacilli
Il DSM 5 classifica questi disturbi in:
Disturbo schizotipico di personalità
Disturbo delirante
Disturbo psicotico breve
Disturbo schizofreniforme
Schizofrenia
Disturbo schizoaffettivo
Disturbo psicotico indotto da sostanze
Disturbo psicotico dovuto ad un’altra condizione medica
Catatonia
Le caratteristiche chiave che definiscono questi disturbi, che, in realtà, sono spesso cortei sintomatologici ( presenza contemporanea di più sintomi), sono rappresentati dai deliri, dalle allucinazioni, dal pensiero disorganizzato, dal comportamento motorio grossolanamente disorganizzato o anormale compresa la catatonia, che vengono definiti sintomi “positivi”, ma non, come l’aggettivo potrebbe suggerire, “buoni”, bensì “produttivi”, ossia di aumento, di esasperazione di una funzione, e sintomi “negativi”, che invece, indicano l’impoverimento di una funzione.
I deliri, o disturbi del contenuto del pensiero, sono convinzioni fortemente sostenute, tanto che anche in caso di lampanti evidenze che li confutano, non sono passibili di modifica da parte di chi li sostiene. Il contenuto può essere vario e diversificato, comprendendo una varietà di temi. Di seguito riporto alcuni esempi:
I deliri di persecuzione che rappresentano la convinzione di poter essere oggetto di aggressioni, danneggiamenti, molestie da parte di un individuo, di un gruppo, di una organizzazione che ha come scopo quello di arrecare danni.
I deliri di riferimento rappresentano la convinzione che certi gesti, commenti, stimoli ambientali sono diretti necessariamente alla propria persona.
Comuni sono anche i deliri di grandezza, che si evidenziano, quando un individuo è convinto di essere dotato di eccezionali capacità, ricchezza, fama, per sue doti o grazie a genitori illustri e i deliri erotomanici, quando un individuo crede erroneamente che un’altra persona sia innamorata/o di lui/lei. I deliri nichilistici comportano la convinzione che si verificherà un evento catastrofico per sé e/o per gli altri e i deliri somatici, che concentrano l’attenzione su preoccupazioni che riguardano la salute e il funzionamento degli organi.
I deliri sono cosiddetti bizzarri se sono chiaramente non plausibili e non sono comprensibili a chi appartiene alla stessa cultura.
I deliri che esprimono una perdita di controllo sulla mente e sul corpo (ad esempio, il furto del pensiero, in cui un soggetto è convinto che il proprio pensiero possa essere leggibile ad altri e fatto proprio da essi), sono generalmente considerati bizzarri.
E’ necessario, però, fare una distinzione tra delirio e un’idea fortemente sostenuta, che non ha necessariamente carattere delirante ma rappresenta un convincimento molto radicato. Solitamente, nel secondo caso, il grado di convinzione con cui l’idea viene sostenuta cede dinnanzi ad una chiara e ragionevole evidenza contraddittoria della sua veridicità, mentre il delirio non cede mai.
Le allucinazioni, o disturbi della forma del pensiero, sono esperienze simil-percettive che si verificano senza che vi sia uno stimolo esterno. Quindi si definiscono “percezioni senza oggetto”. Sono, solitamente, vivide e chiare, e non soggiacciono al controllo volontario. Esse possono presentarsi in qualsiasi modalità sensoriale ma quelle uditive e quelle visive sono le più comuni nella schizofrenia e nei disturbi ad essi correlati Le allucinazioni uditive si presentano solitamente sotto forma di voci, familiari e benevole o sconosciute e malevole. Il colloquio condotto con un soggetto che sperimenta una dispercezione di questo tipo appare molto problematico: si tratta di individui che appaiono quasi sempre distratti nell’udito, perché sono in ascolto di altre voci oltre a quella di chi parla loro o nella visione e mostrano uno sguardo spesso perso nel vuoto, proprio perché stanno vedendo altro. In realtà le esperienze deliranti o allucinatorie vanno contestualizzate nell’ambito della cultura in cui si vive: credenze religiose che rappresentano la parte integrante di un contesto culturale e, quindi, considerate assolutamente fisiologiche, in un altro contesto, invece, sono considerate patologiche.
Il pensiero disorganizzato si deduce dall’eloquio dell’individuo, che può passare da un argomento all’altro (fenomeno noto come deragliamento o allentamento dei nessi associativi). Inoltre, le risposte alle domande possono essere correlate in modo marginale o completamente non correlate (tangenzialità).
E’ bene tenere presente che questi sintomi devono essere sufficientemente gravi da compromettere in modo consistente una comunicazione efficace e comprensibile.
Il comportamento motorio grossolanamente disorganizzato o anormale può manifestarsi in una varietà di modi spaziando da una stolidità di tipo infantile fino all’agitazione imprevedibile. Si possono osservare anomalie in qualunque forma di comportamento con conseguenti difficoltà nell’esecuzione delle attività quotidiane.
Il comportamento catatonico è una marcata riduzione della reattività all’ambiente.
I sintomi negativi che rappresentano l’impoverimento di una o più funzioni, rappresentano una parte sostanziale schizofrenia ma sono meno preminenti in altri disturbi psicotici. Particolarmente significativi sono la diminuzione dell’espressione delle emozioni, che si definisce alessitimia, ma che troviamo rappresentata, come vedremo, anche in altri disturbi psichici, e l’abulia, ossia la diminuzione delle attività finalizzate volontarie spontanee. Altri sintomi negativi sono rappresentati dalla alogia, dalla anedonia e dalla asocialità. L’alogia si manifesta con una diminuzione della produzione verbale. L’anedonia è una diminuzione della capacità di provare piacere pur confrontandosi con stimoli che solitamente procurano piacere o una rapida perdita del ricordo di un piacere precedentemente provato.
L’asocialità si riferisce all’apparente mancanza di interesse alle interazioni sociali, per cui, se il soggetto si trova comunque, in una situazione conviviale, appare sperimentarne un senso di noia se non addirittura di sofferenza.
Lungi dal considerare questa una trattazione esaustiva dei disturbi dello spettro della Schizofrenia, ma mirata a fornire solo qualche cenno ai principali sintomi presenti e comuni ai vari quadri psicopatologici, Vi presenterò come caso clinico una situazione molto particolare che mi si presentò durante i primi anni di specializzazione e poi mai più, estremamente rara e che può essere inquadrata come “folie à deux” o disturbo psicotico condiviso. Per quanto riguarda il commento al caso, Vi rimando all’articolo successivo.
Marco e Anna: una simbiosi tra affetto e patologia
Marco era seduto, vicino alla finestra della sua camera, in quella splendida mattinata di primavera, come tante altre volte ormai nella sua vita.
I raggi del sole, però, non arrivavano a riscaldarlo e la luce ad illuminare il suo corpo dimagrito dai molti mesi di scarsa alimentazione, perché la tapparella della finestra era tutta tirata in basso.
Il mondo esterno era chiuso fuori ed escluso dalla sua vita. Marco era barricato nella sua camera, in compagnia della sua solitudine e dei soliti bizzarri pensieri.
Anna, la madre, era di là, in cucina, era ormai quasi ora di pranzo e anche oggi, come da molti mesi, stava preparando qualcosa per sé e per il figlio, pur avendo solo poche speranze che lui accettasse di consumare un seppur frugale pasto in sua compagnia.
Il papà di Marco era morto molto giovane, colpito da un infarto ed Anna, mai del tutto convinta della malattia del marito, ma più propensa a credere che qualcuno lo avesse ucciso in modo misterioso, aveva dovuto tirar su da sola questo figlio, e più volte si era colpevolizzata di non essere riuscita a farlo diventare un uomo coraggioso come suo padre, un uomo che non aveva paura di nulla, disposto ad affrontare qualsiasi situazione, anche la più pericolosa, per difendere la sua famiglia.
Si era anche colpevolizzata di non essere riuscita a dare alla luce un figlio sano e forte come tanti altri. Marco, infatti, era un uomo di quasi trentacinque anni, ma, come un bambino indifeso, aveva paura di tutto.
Era sospettoso verso tutti, da tempo ormai non aveva più nessun amico, non accettava nemmeno più di vedere i parenti che andavano a far visita alla mamma, cercando di compensare la scarsa compagnia che le faceva questo figlio “un po’ strano”.
Aveva cominciato progressivamente ad allontanarsi da tutti, prima dagli amici, accusandoli di essere gelosi di lui, in seguito alla scoperta che aveva fatto, consultando il suo albero genealogico, di essere di nobili origini e alla successiva divulgazione della notizia, e di volergli fare del male; poi dalle attività sportive: aveva giocato per tanti anni a pallavolo, ma aveva deciso di abbandonare questa passione da quando aveva cominciato a farsi largo nella sua mente l’idea che gli spogliatoi fossero contaminati da qualche sostanza strana, che proveniva dall’impianto di areazione. Non sapeva bene di cosa si trattasse, ma era certo che fosse qualcosa di tossico, che poteva nuocergli.
Non sopportava neanche più l’inevitabile contatto fisico con gli altri compagni di squadra, la loro pelle spesso brulicava di terribili insetti, non riusciva a capire come essi stessi potessero non averne fastidio e si comportassero come se nulla fosse…una volta che uno di quegli insetti neri era saltato sul suo braccio aveva dovuto interrompere la partita, correre negli spogliatoi e lavarsi ripetutamente, ma senza ottenerne beneficio…ormai era sicuro che quell’insetto doveva avergli iniettato un terribile veleno che prima o poi, lentamente ma inesorabilmente, l’avrebbe portato alla morte.
Infine, Marco aveva deciso di abbandonare anche il lavoro in una nota ditta di assicurazioni, anche i colleghi provavano invidia nei suoi confronti, che in tante occasioni aveva dimostrato al responsabile di essere più in gamba di tutti loro.
Non resisteva più a stare fermo in quell’ambiente in cui l’aria era diventata irrespirabile. Anzi, si ritrovava a riflettere, forse i suoi problemi erano iniziati proprio lì, nel suo ufficio, due anni prima, quando, inspiegabilmente, una luminosa mattina d’estate, aveva cominciato a sentire il suo corpo scosso da intensi brividi di freddo.
All’inizio aveva pensato di avere la febbre, poi il cuore aveva accelerato sempre più i suoi battiti, come un cavallo impazzito che cerca di balzare fuori dal recinto in cui è stato rinchiuso.
E poi, ancora, quella paura di impazzire, di perdere il controllo, di cadere a terra, la sensazione spiacevole di non essere più in quella stanza, ma in un luogo buio, stretto e sconosciuto, una specie di tunnel senza fine, e di vedere il suo corpo in preda a questi tormenti come se una parte di lui si fosse staccata e lo osservasse dall’esterno.
Dopo quell’episodio, che Marco si sentì di attribuire ad un sovraccarico di lavoro, ne successero alcuni altri, per cui Mara, la ragazza con la quale all’epoca aveva intessuto una relazione sentimentale, una studentessa di medicina di parecchi anni più giovane di lui, lo convinse a farsi visitare da un suo collega che stava frequentando la scuola di specializzazione in Psichiatria.
Questo medico gli parlò di presumibili “attacchi di panico”, e gli consigliò una terapia combinata a base di psicofarmaci e di colloqui psicoterapeutici, che Marco seguì solo per poco perché, a suo parere, i farmaci lo rendevano assonnato e i colloqui non avevano molto senso (“Cosa vado a fare da uno che devo anche pagare per raccontargli i fatti miei? Ho tanti amici…ne parlo con loro, se voglio”, diceva).
Ma la sintomatologia, rimasta silente per sei mesi circa dopo quegli episodi, riaffiorò in modo impetuoso con altri sintomi che in linguaggio psichiatrico vanno sotto il nome di “bouffèe delirante” o “esordio psicotico”: Marco aveva cominciato a barricarsi nella sua stanza, non voleva vedere più nessuno, gridava che ce l’avevano tutti con lui, che qualche setta voleva fargli del male, avendo installato in tutto il resto della casa delle microspie che controllavano i suoi movimenti, che anche la fidanzata non gli voleva più bene, perché quei dolcini squisiti che era solita preparargli, ora erano avvelenati.
Accettava solo la compagnia della madre, lei era l’unica che gli voleva ancora bene e, dal canto suo, la povera donna non osava contraddirlo, perché le poche volte che aveva provato a dissuaderlo da queste false convinzioni, dicendogli che forse era solo un po’ “esaurito”, aveva dovuto subire molti insulti e qualche sonoro ceffone.
La donna non sapeva cosa fare, era esausta, non capiva cosa stesse succedendo al figlio.
In qualche piega della sua mente talvolta si affacciava l’idea che forse era vero che qualcuno voleva ucciderle il figlio, come avevano già fatto con suo marito
Ricordava che Marco da piccolo era sempre stato un bambino sereno ed ubbidiente.
L’unico particolare “anomalo” erano quei giochi strani che, all’età di quattro anni, faceva con la sua paperella di plastica, alla quale faceva compiere sempre lo stesso percorso, fatto di cerchi concentrici. E, se qualche volta si accorgeva di avere sbagliato, doveva, ossessivamente, ricominciare da capo.
A scuola Marco era bravo, studioso, aveva solo qualche problema in matematica: per lui era come se esistessero solo i numeri pari e i multipli di questi.
La mamma aveva allora deciso di fargli dare ripetizioni private, ma i vari insegnanti che si erano succeduti ci avevano rinunciato, alcuni di questi ritenendo che, forse, il ragazzo aveva qualche problema…ma non solo con la matematica.
Poi, dopo il diploma, venne il lavoro in quell’agenzia, laddove Marco si occupava anche di contabilità. La madre era felice, i problemi con i numeri sembravano risolti.
Aveva una vita sociale soddisfacente, usciva spesso con gli amici e aveva conosciuto anche quella ragazza tanto carina e buona, che, tra l’altro studiava medicina, per cui, ci fosse stato anche bisogno, avrebbe saputo come aiutarlo.
E proprio Mara, andando anche contro il parere della madre, vedendo che Marco peggiorava, decise di contattare il Centro di Salute Mentale della loro città.
Uno psichiatra del territorio si recò al domicilio di Marco una prima volta, ma non riuscì né a farsi aprire la porta della stanza in cui si era barricato né a parlare in qualche modo con lui.
Una seconda volta, dopo più di un’ora di colloquio, condotto attraverso la porta che li divideva, Marco gli aprì, e il medico si trovò davanti una scena raccapricciante: Marco era circondato da carte e residui di cibi avariati, i pochi che accettava che la madre gli passasse aprendo solo appena l’uscio, velocemente, altrimenti “quelli della setta possono vederci e fare del male anche a te”, le sussurrava, da bottiglie vuote, da rifiuti di vario genere e dai suoi stessi escrementi…tutto era sudiciamente accumulato in quello che lui ormai riteneva “il suo mondo”, tutto ciò che era fuori la sua stanza era nocivo e dannoso.
Il collega, dopo un’altra ora di colloquio, stavolta vis à vis, riuscì a convincerlo a ricoverarsi nel Reparto di Diagnosi e Cura.
Da lì, il calvario continuò ancora: alle dimissioni Marco sembrava stare meglio, aveva riacquistato una certa lucidità e una coerenza ideica. Il contenuto del pensiero non era più incentrato sull’ideazione a carattere persecutorio e di nocumento. Era solo un po’ deflesso nel timismo, ma questo gli specialisti lo attribuivano alla somministrazione massiccia che avevano dovuto utilizzare di farmaci di tipo neurolettico, per sedare il delirio, e che Marco avrebbe dovuto continuare ad assumere, seppur in dosaggio ridotto, anche a domicilio.
Ma Marco era triste perché, andate via quelle idee bizzarre, si sentiva vuoto, era come se non provasse più nulla, nessun interesse, senza quei fantastici castelli che la sua mente aveva costruito e che erano diventati tutto il suo mondo.
Aveva scoperto di non avere nemmeno degli antenati illustri… non era più nessuno.
Era diventato completamente “alessitimico” ( = incapace di provare emozioni ), non riusciva nemmeno più ad amare la sua ragazza, né con la mente, ormai svuotata dei sentimenti, né con il corpo, perché i farmaci gli impedivano l’erezione e gli procuravano un fastidioso stato di irrequietezza agli arti inferiori.
Così, dopo un primo tentativo di interrompere la terapia per recuperare delle energie, fallito e terminato in un altro ricovero, Marco decise di lasciare Mara: non poteva continuare ad avere vicino una donna, nei cui occhi leggeva ormai più tristezza che affetto. Non poteva costringerla a rinunciare ai suoi sogni, alle sue esperienze, per vivere una vita a metà vicino a lui.
Da allora fu l’inizio della fine: la vita di Marco continuò ad oscillare tra ricoveri sempre più frequenti e remissioni della patologia sempre più brevi, vista la scarsa aderenza alla terapia quando era a domicilio.
La madre non riusciva più a gestirlo e, così, quando le fu prospettata la possibilità di un inserimento di Marco in una struttura protetta che accoglieva altre persone affette da disagi simili al suo, volle provare.
La donna riusciva ad incontrarlo solo i fine-settimana, quando si recava da lui o le rare volte che a Marco venivano concessi permessi per far ritorno a casa.
Le sembrava di vederlo peggiorare sempre di più. Il dialogo con lui era diventato impossibile, era come parlare con un muro di marmo, freddo e impenetrabile a qualsiasi emozione.
L’affettività era appiattita e coartata, l’umore spento in un’inettitudine senza fondo.
Così la donna prese una decisione.
Agì non d’impulso, ma ci rifletté bene.
Decise di riportarselo a casa, lo avrebbe curato lei, in qualche modo sarebbe riuscita a nutrirlo con il suo amore di madre e a fargli prendere qualche medicina. Non poteva più sopportare di vederlo morire a poco a poco.
Era proprio vero, come ricordava di aver letto da qualche parte, che i genitori non dovrebbero mai sopravvivere al dolore e alla morte dei figli.
E così, contro il parere di tutti, Marco tornò a casa.
La madre si accorse subito, però che anche il rapporto con lei era cambiato.
Era difficile fargli mangiare qualcosa, ormai non si fidava forse neanche più di lei, e quindi ancora più difficile fargli assumere costantemente la terapia che lei scioglieva puntualmente nel cibo.
Che strazio era sentirlo urlare, imprecando contro dei fantomatici insetti che gli mordevano la pelle.
Che tristezza, le poche volte che lui le apriva la porta, vederlo assorto, in penombra, a guardare e a parlare con le pareti come se fossero delle persone, in preda a fenomeni allucinatori di tipo visivo ed uditivo.
Unica consolazione era sentirlo pregare, come faceva spesso a qualsiasi ora del giorno e della notte, immerso in un delirio di tipo mistico.
Ma Anna, lungi dal pensare che la preghiera fosse una delle manifestazioni della sua patologia, sperava che solo il Signore potesse salvarli da questo dolore.