Crystal Stokes (Montpelier, Vermont, USA - Contemporanea) - Suicidal Tendencies
Educazione al suicidio. Parliamone
di Vincenzo Rampolla
Perché quel titolo? Perché Educazione al suicidio?
Perché non Guida al suicidio oppure Manuale perfetto del suicidio, meglio ancora Suicidio fai da te o Suicidio per tutti?
Quel titolo mi sta bene. Non deturpa suicidio, parola che resta nuda, chiara e univoca. Come deve essere: non vuole aggettivi insolenti per essere capita. Parola che non suscita dubbi o confronti, perché suicidio è morte e di lei nessuno chiede: cos’è? Tutti lo sanno, nessuno ne parla né vuole parlarne: ha paura, paura di chi ti accompagna dalla nascita, ti segue e non la vedi, ti cerca quando non la pensi. Questa forse è l’angoscia dell’uomo, la sua incapacità di pensare il suicidio insieme alla morte: pensa due cose distinte. Sono invece uguali, gemelle: una ti cerca, l’altra la cerchi.
E poi la parola Suicidio si accoppia con Educazione, termine antico, nobile, calpestato e dimenticato. Ha origine latina: ex-ducere, estrarre, guidare. Che cosa, da dove? Tirare fuori ciò che abbiamo dentro e dargli il lievito della ragione, farlo crescere: imparare a pensare. Pensare al suicidio. Di rado l’uomo pensa la morte come amica, sorella morte ha detto il santo Francesco, né mai pensa il suicidio come un compagno di viaggio, frate suicidio. Saper pensare la morte, saper capire quando è vicina, sapere agire al suo arrivo, qualunque sia la forma: essere educati alla morte, questo è il castigo.
Penso la morte costantemente, pensiero dolce e sereno.
Penso allora il suicidio, non come agire, come fatto in sé con la sua forza. Si parla di morte e di suicidio solo davanti al parente defunto o al giovane che giace, non se ne parla a tavola o tra amici, come si parla di ragazze e di stadi. E’ vietato, è abietto e triviale. Se ne parla solo se c’è il cadavere, giovane o vecchio che sia. Manca il coraggio di aprire il dialogo. Vince il rifiuto, si è spenta la voglia.
Per questo taluni mi evitano. Sei matto dicono, sei vecchio, sei malato. E’ vero, matto, vecchio, malato ma ci penso da quando a vent’anni sul letto di morte ho abbracciato mio padre appassito dal male e a sedici è stata la nonna inabile, a quindici la compagna di scuola suicida per stupro di gruppo.
Ci penso da quando a nove anni una mattina di gennaio, nel cortile della casa in fondo al vicolo ai confini del ghetto, capobanda di disperati del dopoguerra ho visto pendere dalla ringhiera del balcone del primo piano l’operaio dalla tutta blu, quello che tutte le sere rientrava in bici. Fischiettava e pedalava felice. Si chiamava Toni e lui immobile penzolava a due metri da terra e la neve gli s’incollava al cranio. Noi lo guardavamo attoniti e ignari tacevamo e crudeli allungavamo le mani ai fondi delle brache blu per vederlo oscillare.
Articolo introduttivo e primo di una serie di articoli sul suicidio ispirati al saggio dell’Autore Educazione al suicidio. Realtà, metodi e drammi di ieri e di oggi (2015)