Aggiornato al 26/04/2024

Non sono d’accordo con quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo

Voltaire

Karnish Art (Pretoria, South Africa, 1968 -    ) - Separation

 

Separazioni

di Ilaria Contini

 

“Sento di voler andare, sento di voler restare, sento di non vedere l’ora…Sento la paura che cresce

 all’avvicinarsi di quell’ora…Sento che sarò solo”.

“Non sei e non sarai solo. Sei unico. Incontrerai molti come te durante il tuo viaggio e in loro vedrai quanto sei unico” disse il vecchio Neqà con voce ferma e rassicurante. (…)

“E se non riuscissi ad arrivare al mare?” esclamò Nilo all’improvviso e la sua voce infranse il mattino come un sasso infrange il vetro.

“Imparerai che ha più senso il viaggio e non la meta”.

(I doni di Neqà, Rocco Mondello)

 

Le separazioni sono parte integrante della vita. Ci troviamo continuamente ad evitarle, a mistificarle, ad aspettarle, a sognarle, a pensarle e, per i più coraggiosi, ad affrontarle.

Nella mia formazione, e nella mia vita personale, ho imparato ad apprendere per differenza, a conoscere qualcosa partendo dal suo opposto.

Ho sempre pensato che l’opposto della separazione fosse l’unione. Poi, durante la terapia con una paziente, anzi la mia prima paziente, ho avuto un insight. L’opposto della separazione può essere l’abbandono.

L’etimologia della parola abbandonare deriva dal francese: abandonner, dall’espressione être à bandon essere in potere, da ban potere, giurisdizione. È una parola scomoda, che implica l’esercizio di un potere su un’altra persona, togliendo la possibilità di scegliere e portando ad una inevitabile conseguenza: la solitudine. Alla parola abbandono si associa comunemente l’abbandono di un cane, l’abbandonare la propria terra, un amico, un ideale, un figlio. Negare aiuto, sguardo, presenza.

L’accezione negativa è in primo piano. Lo è stato per me, fino a che non mi sono imbattuta in un cambio di prospettiva, semplicemente guardando la parola in un modo diverso: ABBAN-DONARE. In questo modo, l’abbandono prevede un dono. Abbandonarsi a un’emozione, abbandonarsi tra le braccia della persona amata, di un genitore. Lasciarsi andare, donarsi.

Spostando l’attenzione sull’etimologia della parola separare, questa è composta da se- via e parare, approntare. Separare non implica semplicemente disgiungere, dividere, ma porta con sé la volontà di costituire due nuove unità indipendenti.  Come una catena montuosa che separa due pianure. Non le tiene solo divise, ma le differenzia, le crea. Separare è quindi generare, distinguendo.

In terapia con la paziente a cui facevo riferimento precedentemente, mi sono ritrovata ad affrontare la separazione. Il nostro percorso non poteva più continuare, per motivi pratici e logistici. Alla mia prima esperienza, mi ritrovai a dover affrontare il mare magno della separazione, riuscendo a sentire solo il senso di inadeguatezza. Poi pensai che ogni cosa avviene per un motivo. Per entrambe, questo tema era uno dei nuclei fondanti della propria storia personale, uno degli snodi emotivi più forti. Nel cercare gli strumenti adeguati a vivere a pieno questo momento delicato della terapia, l’insight si è fatto strada: l’opposto della separazione è l’abbandono.

Siamo partite da qui e abbiamo associato delle immagini, delle emozioni a entrambe le parole.

Abbandono

vuoto, mistificazione, non riconoscimento, lacerazione, sospensione senza fine che non permette né di andare avanti né di andare indietro, paura, vergogna, solitudine.

Separazione

dolore, libertà, opportunità, aspettative mancate, trasformazione, novità, ponte tra vecchio e nuovo.

Compiendo questa distinzione, entrambe ci siamo sentite sollevate, capendo che non eravamo davanti ad un abbandono, ad un buco nero, ma ad una trasformazione, inevitabilmente dolorosa, che ci permetteva di cogliere nuove opportunità, di sentire che libertà non è solo solitudine, ma anche trasformazione, possibile solo se si percorre il ponte della separazione.
 

Non c’è nessun sé, senza separazione. Separazione come confine.

“Non servono doni per ricordarmi di te perché il dono più

prezioso e più grande l’ho già avuto da te

e lo custodirò per sempre in quel che sono e sarò”.

“Quale prezioso dono ti avrei mai fatto in

tutto questo tempo da neanche

ricordarmene vecchio Neqà?!”

“L’incontro”

(I doni di Neqà, Rocco Mondello)

 

Nasciamo, separandoci dall’altro. Veniamo al mondo, dopo una fusione, che proseguirà ancora, per permettere al nostro sé di svilupparci. Lo sviluppo si articola continuamente tra fusione e separazione e ogni intoppo in questa danza può comportare arresti nello sviluppo, sintomi e disagio.

In questi processi, il corpo assume un ruolo centrale. Il corpo è il testamento della nostra relazionalità e, come dice Alessandra Lemma, “non si sviluppa in un vuoto”. È un corpo sociale, è il crocevia delle relazioni, territorio dell’alterità. Le esperienze corporee sono il veicolo primario per le relazioni con gli altri e con se stessi; infatti, il più arcaico senso del Sé è tessuto, in cui il contatto corporeo permette i processi di separazione tra il “me” e il “non-me”, oltre ai processi di sviluppo neurobiologico. La pelle, sostiene la Bick (1968), è l’oggetto primario di contenimento ed è percepita dal bambino come un confine, come qualcosa che tiene insieme le parti della personalità, ancora non differenziate dalle parti del corpo. La funzione contenitiva della pelle si sviluppa però grazie all’esperienza di una relazione di accudimento adeguata che, permette di introiettare la funzione contenitiva materna. Anzieu (2017) prosegue gli studi della Bick e sottolinea come l’Io sia principalmente strutturato come un Io-pelle che si presenta come una rappresentazione mentale; l’Io del bambino lo usa per rappresentare se stesso come un Io che contiene i contenuti psichici, partendo dalle esperienze che compie attraverso la superficie corporea. In particolare, sostiene che il bambino acquisisce la percezione di una superficie corporea attraverso il contatto con la pelle della madre, mentre questa lo accudisce. L’Io-pelle, il nostro primo confine, ha quindi origine dalla pelle condivisa tra madre e bambino, quella che Anzieu definisce “pelle comune” (Lemma, 2011).

Senza un noi, non c’è nessun io e senza un io non c’è nessun noi.

Il sé, la nostra individualità, emerge da una relazione e da essa deve poi differenziarsi, per continuare ad essere, e con essa deve poi continuare a relazionarsi, in modo separato e distinto; perché, come ci ricorda Winnicot (1960), l’obiettivo dello sviluppo è l’interdipendenza.

Il nostro viaggio è costellato da tante separazioni, che assumono vesti, colori e odori differenti. C’è la separazione inevitabile, quella dello svincolo, necessaria all’individuazione, alla ricerca del proprio sé; c’è la separazione da un partner, che comporta il recuperare parti di sé, investite nella relazione; il lutto in cui, dinnanzi al fenomeno della morte, nulla ha più senso; la separazione da ideali, dalla propria terra. Un’infinità di separazioni, a volte così ben celate, che arrivano a formare solchi nell’anima, senza nome e senza voce.

Ma qualsiasi separazione richiede un ingrediente fondamentale, senza il quale nulla può davvero compiersi: il riconoscimento.

Nel terreno della separazione è difficile scorgere il seme del riconoscimento, offuscato dalla fitta nebbia della rabbia che inevitabilmente una separazione porta con sé, dietro cui spesso si cela il buio e il freddo del dolore.

Nel mio percorso personale, credevo impossibile scorgere altro oltre la rabbia, che ho capito poter trovare mille forme per manifestarsi. Con la sua nebbia, non permette di vedere, offusca la mente, ovatta i suoni e il tempo sembra sospeso. In un limbo, dove non è possibile né andare avanti né andare indietro. Ed è così che il terreno della separazione e quello dell’abbandono, per me, si fondevano. E lo stesso era per quella preziosa mia prima paziente.

Poi, durante il mio viaggio, ho scoperto che oltre la nebbia, se si guarda in alto, ci sono i raggi, caldi e a volte cocenti, dell’incontro. Solo con l’ascolto, attraverso il dare parole al dolore, il buio paralizzante del dolore, può diventare anche altro. Risorsa, opportunità, libertà. È tutto lì, proprio nel luogo che proviamo ad evitare con tutte le nostre forze, nel luogo del dolore.

Oltre la separazione (?)

Ogni separazione vive dentro di noi, è un seme piantato, che fa parte del nostro terreno, è una strada percorsa, una finestra che fa parte della nostra casa interiore. E per abitarla interamente, dobbiamo ascoltare tutte quelle separazioni affrontate, dare voce a tutto il dolore che ogni separazione cela, per permettere al nostro sé di abitarla tutta quella casa e per continuare la meravigliosa fioritura che ad ognuno di noi spetta e che la vita ci offre.

 

BIBLIOGRAFIA

-Anzieu D. (2017), L’Io pelle. Milano: Raffaello Cortina Editore.

-Cancrini L (2016), Date parole al dolore. La depressione: conoscerla per guarire. Roma: Scione Editore.

-Lemma A. (2011), Sotto la pelle. Milano: Raffaello Cortina Editore.

-Mondello R., I doni di Neqà. Roma: Armando Editore.

-Siegel D. (2001), La mente relazionale. Milano: Raffaello Cortina Editore.

 

Inserito il:10/10/2022 12:21:41
Ultimo aggiornamento:10/10/2022 12:28:45
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