Aggiornato al 27/04/2024

Non sono d’accordo con quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo

Voltaire

Arghavan Khosravi (Shahr-e-kord, Iran, 1984) - Our Hair has Always Been the Problem (2022)

 

L’Iran ed il regime sciita

di Mauro Lanzi

                                               

Gli eventi accaduti o che stanno accadendo in Iran, la barbara uccisione di due ragazze, la dura repressione di ogni manifestazione di dissenso, la violenza poliziesca impiegata contro i moti di piazza, le condanne a morte di giovani contestatori, hanno profondamente turbato l’opinione pubblica mondiale, riproponendo interrogativi, dubbi ed accuse rivolte al regime sciita che regge il Paese. L’Iran (o Persia, come è stata chiamata da sempre questa regione) è stato per secoli artefice di grandi civiltà, punto d’incontro tra culture diverse, fucina di un pensiero religioso che ha fecondato il mondo; basti pensare all’influsso che la Persia ha avuto sulle tre grandi fedi monoteiste, ebraismo, cristianesimo ed islamismo.

Ma questo è il passato; quando si legge di sentenze di condanna a morte di dimostranti, dichiarati “nemici di Dio”, dell’impiccagione già eseguita di un giovane manifestante, non si può non chiedersi, quale Dio può volere la morte di un ragazzo di 19 anni, quale religione può contemplare un simile obbrobrio? Come si è potuto giungere a tanto!!

Per comprendere i motivi e le origini di questa situazione bisogna rapidamente ripercorrere alcuni passaggi della storia di questo paese e capire chi sono gli sciiti, quali le basi del loro pensiero religioso e politico, della loro fede, della loro morale, quale il processo storico che ha portato al potere una religione ed il clero che pretende di interpretarla.  

La forza del movimento sciita in Iran si basa sull’identificarsi di questa religione con l’essenza della nazione, fino dalla sua rinascita.

 Il credo sciita è una corrente dell’islamismo che fa risalire le sue origini al quarto Califfo, Alì (scia significa partito, il partito di Alì). Alì era stato uno dei più stretti collaboratori di Maometto, marito della sua unica figlia, Fatima; alla morte del Profeta (632), quindi, Alì si riteneva il più qualificato a succedergli, ma l’assemblea degli anziani e dei capi clan decise diversamente, nominando Califfi (“sostituti”), in sequenza, due valenti guerrieri, Abu Bakr ed Omar, che portarono le bandiere dell’Islam fino in Siria, Palestina ed Egitto. Anche il terzo Califfo, Osman, venne preferito ad Alì, questa volta per l’appoggio di un ricco e potente clan, basato a Damasco, gli omayyadi. Osman era un mite studioso, a lui si deve la prima versione scritta degli insegnamenti del profeta, il Corano; tanto non bastò a fermare i suoi nemici, Osman morì assassinato. A questo punto la candidatura di Alì non aveva più avversari, quindi Alì fu il quarto Califfo eletto, ma si trovò ben presto a dover affrontare la dura opposizione degli omayyadi che non si rassegnavano alla perdita di un loro candidato al vertice del potere; Alì, temendo per la sua vita, abbandonò Medina e si rifugiò lontano dai territori arabi, a Kufa sull’Eufrate, che divenne quindi la base dei suoi primi seguaci, in seguito detti sciiti.

Quando nel 661 Alì venne assassinato da un fanatico nella moschea di Kufa, il capo del clan omayyade, Muawija colse la palla al balzo e si fece eleggere Califfo. La frattura nel mondo musulmano si verificò però più tardi, nel 680, poco prima della morte del Califfo Muawija, quando questi, con un’iniziativa fuori di ogni regola e consuetudine, nominò suo successore il figlio Yesid; il Califfato, originariamente elettivo, diviene così un’istituzione dinastica. C’era però ancora in vita un nipote del Profeta, figlio di Alì, che compiva allora vent’anni, Hussein (o Husayn). Hussein non si rassegna al fatto compiuto, raduna i suoi seguaci, cerca di creare un’opposizione al nuovo califfo, ma nella decisiva battaglia di Kerbala viene sconfitto ed ucciso dalle preponderanti forze degli omayyadi. Gli abitanti della vicina città di Kerbala assistono allo scempio senza intervenire; ancora oggi gli sciiti ricordano questo evento con “l’Ashura”, il giorno dell’espiazione; processioni di flagellanti si puniscono per le colpe degli abitanti di Kerbala.         

 L’uccisione di Hussein fu sentita come una catastrofe dagli sciiti; da quel momento si aprì il solco che divide gli sciiti dal ramo ortodosso, i sunniti. I sunniti derivano il loro nome dalla Sunna, che è l’unione del Corano con gli Hadith (Scritti tramandati). Anche gli sciiti hanno testi analoghi, con sottili differenze, che indicherebbero in Alì e nella sua discendenza i veri successori del profeta; la distinzione è sostanziale, perché riguarda l’interpretazione della dottrina religiosa, che secondo i sunniti sarebbe affidata al Califfo, assistito da dotti e teologi, mentre per gli sciiti spetterebbe ad un capo carismatico, un Imam: chi conosce il modo arabo, sa che un imam è presente in ogni villaggio, è l’equivalente del prete o del parroco di una comunità islamica. Diversa è la figura dell’Imam per gli sciiti: l’Imam è il capo dei fedeli, il portatore dell’illuminazione divina: il primo Imam fu Alì, poi i suoi figli, Hassan ed Hussein, poi i loro successori fino all’ultimo Imam.

La figura dell’ultimo Imam è fondamentale; esistono due correnti che merita citare, perché entrambe presenti tuttora, quella detta del settimo e quella detta del dodicesimo Imam. La corrente del settimo Imam (Ismail), detta appunto degli “ismaeliti”, è sempre stata minoritaria, ma esiste ancora; oggi conta con 15 milioni di fedeli, il loro capo spirituale è l’Aga Khan.

La corrente principale degli sciiti è quella detta del dodicesimo Imam, oggi affermata in Iran; questi sarebbe stato l’Imam Muhammed Al Muntasar, scomparso in forma misteriosa nell’873 d.c. (probabilmente rapito o assassinato dai soldati del califfo). Alcuni anni dopo la sua morte comparvero, in ambienti sciiti, alcuni frammenti di scritti prima sconosciuti, nei quali il Profeta avrebbe annunziato, alla fine dei tempi, la comparsa di un uomo della sua famiglia che avrebbe riportato la giustizia sulla terra; gli sciiti si convinsero che questi fosse non altri che il dodicesimo Imam, non morto, ma eclissato per ricomparire prima della fine dei tempi e guidare l’Islam alla vittoria. I sunniti negano ovviamente che queste asserzioni siano da attribuire a Maometto, ma per gli sciiti l’attesa di un “mahdi” (guidato dalla giustizia) è un articolo di fede, un dogma, da realizzarsi, ovviamente, in un futuro più o meno lontano  Su un punto però gli sciiti sono sempre rimasti irremovibili; ogni principe o governante non deve considerarsi signore assoluto, ma soltanto luogotenente dell’Imam scomparso; in questa sua veste, deve prestare ascolto ai capi religiosi che vegliano, in nome dell’Imam, sul rispetto della morale islamica. Il principe o governante che non accetta i loro consigli può essere censurato od anche rimosso. Questo il criterio, che ha causato gli eventi più recenti che abbiamo vissuto, si è consolidato nella mentalità e nell’animo delle genti iraniche anche a seguito degli eventi che fecero della fede sciita il nocciolo attorno a cui si ricreò un’identità nazionale.

Con la conquista araba la Persia aveva perduto la sua indipendenza storica, la sua identità nazionale, era divenuta una provincia del califfato o dell’impero sunnita, la fede sciita era o perseguitata o ignorata.

La riscossa partì agli inizi del 1300, dal monastero di Ardebil (nell’odierno Azerbaijan), fondato da un derviscio di nome Safi ad Din. La successiva conversione dei monaci alla fede sciita divenne un fatto dirompente quando il primate ordinò ai suoi adepti di intraprendere azioni missionarie; il messaggio portato dai monaci  missionari non era solo un messaggio religioso, era anche un messaggio radicale di protesta contro le ineguaglianze e le ingiustizie sociali, contro i ricchi latifondisti che espropriavano i miseri contadini dai loro terreni, cacciavano i nomadi dai pascoli, esercitavano un’oppressione spietata sulle classi più umili: la soluzione proposta dai missionari era una società di uguali, quale quella che si era creata ad Ardebil, nel nome dell’Imam portatore di giustizia. Da questa saldatura tra motivi religiosi e protesta sociale nacque un movimento di una forza devastante, che aveva il suo epicentro ad Ardebil.

I successori del primo fondatore, detti “safavidi”, conobbero alterne vicende, riuscendo comunque a tenere viva la fiamma della loro fede, anche nelle circostanze più avverse: il culmine della vicenda storica della dinastia safavide si raggiunse nel XVI secolo, con due personaggi eccezionali, il primo, Ismail (1501-1524), fu il rifondatore della nazione; a lui va riconosciuto il merito, non solo di aver riunito tutti i territori persiani, ma anche di aver creato, fino a battersi contro il potente impero ottomano, uno stato indipendente che si identificava con una religione; la fede sciita divenne da allora la religione nazionale persiana, il fattore identitario del nuovo stato.

Il secondo fu un personaggio grandioso e spietato, Shah Abbas, Il Grande; salito al trono nel 1587, Shah Abbas fu innanzitutto un grande comandante militare, riorganizzò l’esercito dotandolo di armi da fuoco, cannoni e moschetti, soppresse rivolte e disordini interni ed arrivò infine a ricostituire la “Grande Persia”, comprensiva di Irak e Afghanistan.  

Con Shah Abbas si rinsaldò l’identificazione stato - religione che divenne l’asse portante della nazione; si aggravò, però, la frattura religiosa e politica con i sunniti: la difesa dell’ortodossia sunnita fu assunta dai turchi ottomani, che riuscirono infine, dopo la scomparsa di Shah Abbas ad infliggere dure sconfitte alle armate iraniche, riconquistando anche l’Irak, la fede sciita fu limitata alla sola Persia, con modeste minoranze in altri paesi. Dal canto loro, gli sciiti cominciarono a vedere negli ottomani e nei sunniti i loro peggiori nemici, ancora più che gli altri infedeli; tuttora nelle loro preghiere del venerdì gli sciiti sono tenuti a maledire personalità sunnite come il Califfo Omar, accumunandolo nei loro anatemi ad Osman ed Abu Bekr ed al famigerato Yesid, il carnefice di Husayn a Kerbala.

Come spesso accade, quando la grandezza di una nazione è dovuta ad un autocrate geniale e spregiudicato, con la morte di Shah Abbas, avvenuta nel 1628, inizia la decadenza della Persia, che prosegue inarrestabile, non solo con i suoi discendenti, ma anche con le altre dinastie che si succedettero ai Safavidi, fino ai Quajar , una stirpe straniera ( erano turco armeni), che resse le sorti del Paese dal 1794 fino al 1925. Sotto i regnanti Quajar la Persia accelerò il suo declino; dopo numerose sconfitte militari, dovette subire l’invadente presenza di potenze straniere: Russia e Gran Bretagna si spartirono quello che restava di un grande regno; i russi erano presenti nell’esercito e nelle regioni del nord, i britannici nella finanza, nel commercio e nell’industria, fino alla scoperta ed allo sfruttamento delle risorse petrolifere.

 Il progressivo indebolimento del potere centrale, esautorato dall’arroganza degli stranieri, portò come logica conseguenza l’emergere di un contropotere, quello del clero; questo contava nel ‘6-700 con 180.000 rappresentanti, la maggioranza dei quali erano poveri mullah di campagna, ma sopra di loro cominciò ad affermarsi una classe di dotti, la cui sapienza in materia religiosa ispirava considerazione e rispetto, che venivano detti “motschatahed", (colui che da giudizi). I motschatahed si consideravano i veri interpreti delle scritture, i discendenti dell’Imam, e, come tali, titolati anche a criticare lo Shah: i motshatahed erano ben lontani dallo spirito egualitario dei primi dervisci, erano spesso ricchi proprietari terrieri, ma la loro influenza veniva crescendo, si erano dati una sorta di organizzazione che eleggeva dei capi, dei rappresentanti titolati a fronteggiare il potere politico; questi capi eletti venivano detti “ayatollah” (simboli di Allah, o voce di Allah) e costituivano il contraltare del potere politico, senza la loro approvazione nessuna decisione avrebbe dovuto avere effetto. A questo punto, non solo la religione si conferma come il vero collante della nazione, ma emerge in forma sempre più decisa l’influenza dell’alto clero sulla scena politica; senza il suo assenso era praticamente impossibile governare il paese.

L’età moderna era alle porte; dopo la fine della prima guerra mondiale ed il ritiro dei militari russi, sembrò possibile un cambiamento radicale, una svolta che allineasse la Persia al resto del mondo, allentando i vincoli tra politica e religione; sale al potere nel 1925 l’ultima dinastia che ha governato la Persia, i Pahlavi; si insedia sul “trono del pavone” in questa data, Reza Khan, un ex pastore che si era arruolato, per sfuggire alla fame, nel reggimento cosacco, l’elite dell’esercito persiano e, cresciuto di grado per le sue capacità ed il suo coraggio, era infine balzato ai vertici dello stesso dopo la defezione degli ufficiali russi, a seguito della rivoluzione bolscevica; la conquista del potere assoluto e la cacciata dello scià, l’ultimo Quajar, furono la logica conseguenza di queste vicende. L’ex-pastore non aveva avuto un’educazione nella cultura tradizionale e neppure un’educazione religiosa; non si era mai accostato al patrimonio di pensiero dei filosofi o dei teologi persiani, l’Islam gli appariva come una religione retrograda. L’obiettivo principale che Reza, affascinato dalla civiltà occidentale, si pose fin dall’inizio del suo regno era la modernizzazione del paese a tappe forzate; il suo ispiratore ed il suo modello era Mustafà Kemal, detto in seguito Ataturk, il geniale statista che proprio in quel periodo stava cambiando radicalmente i lineamenti della Turchia. Sul suo esempio Reza inizia un vasto programma di riforme ed opere pubbliche, la Persia si copre di nuove strade e nuove ferrovie, le città si estendono e la loro popolazione aumenta, nascono ovunque nuove fabbriche, il paese conosce una fase di tumultuoso sviluppo. Nel 1928, sull’esempio di quanto fatto da Ataturk quattro anni prima, viene promulgata una costituzione di modello francese, che sanciva in particolare una rigida separazione tra potere politico e potere religioso.

Reza si sentiva la reincarnazione dei grandi sovrani persiani, da Ciro, a Cosroe, a Shapur, quindi un autocrate illuminato, fautore della grandezza del paese; per Reza l’invasione degli arabi aveva determinato il declino della Persia, bisognava ritornare alla civiltà degli arii, la tradizione ariana doveva essere ripresa e sviluppata. Nel 1935 il nome della nazione venne modificato in Iran, cioè terra degli arii, lo Shah stesso modificò il suo nome in Reza Pahlavi, utilizzando, come patronimico per sé e per la sua dinastia il nome della lingua parlata al tempo dei sassanidi, il pahlavi.  Vale la pena osservare che gli orientali, in genere, non hanno cognome, retaggio della civiltà latina.

Evidentemente in questa opera di modernizzazione, Reza non poteva non scontrarsi con il clero; la costituzione e la riforma dell’ordinamento giudiziario, messe a punto con l’assistenza di giuristi francesi, prevedevano, come detto, una netta separazione tra potere politico e gerarchie religiose; la novità fu giudicata inaccettabile dal clero che chiamò il paese allo sciopero generale, iniziando così lo scontro tra i Pahlavi e le gerarchie sciite.

In questo momento, non furono però i contrasti interni a mettere a repentaglio il potere dello Shah; fu quando Reza cominciò ad esprimere ambizioni di controllo sull’estrazione del petrolio, che gli inglesi si mossero, non potevano tollerare che venissero messi in forse i loro ricchi profitti. Prendendo come pretesto le simpatie hitleriane del sovrano, inglesi e russi nel 1941 invasero il paese costringendo lo Shah ad abdicare in favore del figlio, di soli 22 anni.

Mohammad Reza Pahlevi, il figlio, regnerà per 38 anni e per il primo decennio fu un docile strumento nelle mani di inglesi e americani; sembrava tutto perfetto, era stato invece commesso, da parte degli occidentali, il primo grave errore nei confronti della politica iraniana.

La reazione si ebbe nel 1953, quando un settantenne politico, fino allora sconosciuto, Mohammed Mossadegh, si mise a capo del movimento nazionalista che stava agitando le piazze al grido “il petrolio ci appartiene”, ed ottenne l’appoggio di tutte le forze politiche di opposizione, compreso il clero. Lo Shah, pressato dalle folle, non poté che chiamarlo al governo, nella posizione di primo ministro; assunto l’incarico, Mossadegh come primo atto pubblicò la lista dei funzionari e dei politici corrotti dalle compagnie petrolifere e ne pretese le dimissioni; poi annunziò un programma di nazionalizzazioni dell’industria petrolifera. Lo Shah, sentendosi in pericolo, fuggì all’estero, ma ritornò ben presto in patria sulle ali di un colpo di stato militare orchestrato dalla CIA, Mossadegh fu arrestato e condannato a morte (poi graziato, non conveniva a nessuno creare dei martiri).

Gli americani avevano commesso un altro grave errore, il secondo, che avrebbero pagato a caro prezzo; Mossadegh non era affatto un comunista filosovietico, come fu fatto credere, era un laico, un nazionalista, un personaggio carismatico preoccupato solo del benessere del suo paese; con lui l’Iran perse forse l’unico politico capace di condurlo verso forme di governo più liberali e democratiche.  

Reza Pahlavi, reinsediato sul trono per proteggere gli interessi delle compagnie petrolifere, decise di esercitare in prima persona il potere così riacquistato; appariva molto saldo al vertice dello stato, aveva l’appoggio dell’esercito e degli americani, era anche agevolato nella sua opera dalla nazionalizzazione dei giacimenti petroliferi, che non poté essere revocata e quindi generò un cospicuo aumento delle entrate statali. Su suo impulso e grazie a queste nuove risorse, si cominciarono a costruire fabbriche, strade, ferrovie, le città si riempirono di grattacieli, i giovani privilegiati venivano inviati a studiare all’estero a spese dello stato, soprattutto si rafforzarono l’esercito e la polizia segreta, il famigerato SAVAK.

Il regime, apparentemente molto forte, poggiava però su fondamenta precarie, per il divergere dei programmi del governo dalla realtà del Paese Reza Pahlavi commise una incredibile serie di errori, alcuni anche in buona fede, soprattutto non riuscì mai ad entrare in sintonia col suo popolo, non comprese mai il peso e l’influenza, in primo luogo tra le moltitudini di diseredati, della fede e quindi del clero sciita. Si comportò, come il padre, da autocrate, il parlamento esisteva solo per sancire le sue decisioni, il popolo doveva essere un’argilla docile da modellare; come il padre, pose in cima al suo programma di governo la modernizzazione e l’industrializzazione a tappe forzate del paese, senza considerare gli squilibri sociali che un simile programma poteva generare.

Alla fine, furono proprio i consiglieri americani che lo obbligarono ad aprire gli occhi sulla realtà; erano indispensabili, per gli americani, consistenti aiuti all’agricoltura, per frenare la fuga dalle campagne ed evitare l’inurbamento di masse di diseredati. Il sovrano accettò il consiglio, ma volle fare di più, voleva una vera rivoluzione sociale che allineasse l’Iran alle nazioni più moderne. La ”Rivoluzione Bianca”, come fu chiamata, prevedeva l’eliminazione della servitù della gleba, l’esproprio dei latifondi e dei terreni incolti, di proprietà sia dei laici che del clero, l’assegnazione di appezzamenti di terra ai contadini incapienti, l’estensione del diritto di voto ai non islamici ed alle donne, la partecipazione degli operai ai profitti delle fabbriche, la lotta all’analfabetismo. Era un programma di tutto rispetto, pieno di buone intenzioni, la cui attuazione però avrebbe richiesto una solida base politica nel paese; viceversa si attirò fin dall’inizio l’ostilità del clero, contrario all’estensione dei diritti alle donne ed ai non islamici, ma soprattutto esacerbato dall’esproprio dai propri possedimenti.

La guida del movimento contrario alle riforme fu assunta da un ayatollah fino allora poco conosciuto, ma dotato di una grande oratoria, capace di soggiogare le folle di fanatici: il suo nome era Rudollah, ma diventerà famoso col nome della sua città di origine, Khomeini: la sua predicazione era diretta principalmente contro il voto alle donne ed ai non islamici, anche se l’esproprio della proprietà terriera era il primo motivo del malcontento del clero. Il 24 giugno 1963, nella giornata dell’Ashura, sacra agli sciiti, i fedeli eccitati dalla predicazione dei mullah, i diseredati, le folle disperate che si accalcavano ai sobborghi delle città si rivoltarono, mettendo a ferro e fuoco la stessa capitale; lo Shah fu costretto a far intervenire la polizia che prese a sparare sulla folla; nessuno ha mai saputo il numero delle vittime, certo molte centinaia o migliaia. Khomeini fu prima arrestato ed incarcerato, poi espulso dal paese.

 Se le riforme promosse da Reza Pahlavi avessero prodotto gli effetti che ci si auspicava, la crisi sarebbe stata  superata, ma proprio la riforma agraria, il punto centrale della Rivoluzione Bianca, fallì clamorosamente; i contadini assegnatari delle terre espropriate furono lasciati soli, senza risorse per avviare un’attività, senza aiuti per irrigare le loro terre, costretti ad indebitarsi ricaddero sotto il giogo dei latifondisti o furono costretti ad emigrare in città, dove finivano ammassati in misere baraccopoli; Teheran in pochi anni passò da due a sei milioni di abitanti, mentre le campagne si svuotavano. La Persia, che per secoli era stata autosufficiente da un punto di vista alimentare, si vide costretta ad importare più della metà del suo fabbisogno.

Le masse di diseredati, nelle campagne come nelle città, erano terreno fertile per la predicazione del clero, che sosteneva che le difficoltà esistenti derivavano dall’aver abbandonato il dettato coranico. Khomeini dall’esilio, prima in Irak, poi in Francia, proseguiva con la sua predicazione; agli inizi degli anni settanta veniva pubblicato un suo libro, noto in occidente col titolo di “Governo Islamico”; in questo scritto, Khomeini va oltre alla tradizione sciita ed alle sue stesse tesi originali, che accettavano un governo laico, purché fedele alle leggi islamiche: ora, come detto, Khomeini si distacca dal pensiero tradizionale, condanna i compromessi accettati dal clero sciita nei secoli precedenti, esige il ritorno ai tempi di Maometto (o dei Califfi), in cui potere politico e potere religioso erano riuniti in un’unica istanza, ovviamente religiosa, quindi lo stato come teocrazia; siamo alla svolta critica che prelude ai giorni nostri.

La diffusione delle idee di Khomeini non solo tra i diseredati, ma anche tra la borghesia urbana, commercianti, funzionari pubblici, giovani tecnici che avevano studiato in occidente non cessa di sorprendere; il numero dei delusi, se non addirittura spaventati dalle conseguenze della civiltà occidentale esportata in oriente, aumentava ogni giorno. Tutti coloro, che nutrivano un profondo malcontento nei confronti di un regime sempre più inefficiente e corrotto, erano indotti ad accettare il dettato di Khomeini, secondo cui il progresso materiale importato dall’occidente andava a discapito del progresso morale, che il sistema occidentale non possedeva le virtù morali necessarie a risolvere i problemi sociali del paese ed eliminare la miseria umana.

Lo Shah, chiuso nel suo palazzo, circondato da adulatori e sicofanti, ottenebrato, anche, secondo alcuni, dalle droghe di cui faceva uso, non si rendeva conto della marea che montava, non teneva in dovuto conto l’ostilità del clero.

L’episodio che più di ogni altro dimostra l’insensibilità del sovrano verso i sentimenti religiosi della popolazione, fu l’introduzione, votata dal Parlamento, su pressioni del governo, del “calendario monarchico” che faceva risalire l’inizio del computo degli anni alla investitura imperiale di Ciro il Grande (di cui Reza si riteneva successore), anziché all’Egira (622 dc), come in uso in tutti gli stati islamici.

Difficile immaginare iniziativa più inutile e sconsiderata; anche i moderati e gli indifferenti si allontanarono dal regime, per un gesto che venne percepito come un oltraggio ad Allah. Ben presto scoppiarono disordini: le proteste religiose si univano alle proteste contro la povertà, la disoccupazione, la riforma agraria fallita, creando una miscela esplosiva, che né lo Shah, né la sua polizia seppero valutare ed arginare correttamente. Già nel gennaio 1978 imponenti manifestazioni di folla dovettero essere represse con l’impiego dell’esercito e dei mezzi blindati, che provocarono migliaia di vittime; l’esplosione finale si ebbe l’11 dicembre 1978, giorno dell’Ashura, sacro per gli sciiti; in quelle giornate le folle raccolte in preghiera in tutte le moschee udirono da nastri incisi, contrabbandati nel paese, la voce possente di Khomeini che incitava il popolo alla guerra santa contro il sovrano infedele, che veniva paragonato al Califfo Yesid, il personaggio più esecrato nella tradizione sciita, il carnefice di Hussein, ultimo figlio di Alì; ogni fedele morto martire in questa lotta sarebbe asceso al paradiso.

Lo Shah fece intervenire ancora l’esercito, ma neanche il fuoco delle mitragliatrici riusciva a fermare le migliaia di fanatici in rivolta, gente che affrontava la morte a cuor leggero perché non aveva più nulla da perdere e poteva solo sperare nel premio del martirio.

Il 16 gennaio 1979 Mohammed Reza Pahlevi, resosi conto che solo una guerra globale avrebbe potuto aver ragione della rivolta, abbandonò il suo paese; accomiatandosi dai suoi generali, disse loro: “non durerà molto”. Sperava si ripetesse quanto accaduto nel 1953; non tornerà mai più, morirà in esilio nel 1980.                

Il primo febbraio 1979 l’ayatollah Khomeini, all’età di 78 anni, rientrò a Teheran accolto da folle osannanti, assumendo, insieme agli alti rappresentanti del clero, il potere assoluto. La saldatura tra religione e politica che i Pahlevi avevano cercato di spezzare, si riproponeva più forte che mai.

Siamo all’attualità; attraverso i passaggi che abbiamo esaminato, la religione sciita, che aveva avuto il grande merito di favorire la rinascita e l’indipendenza della Persia, divenendo l’elemento identitario della nazione, apre le porte al governo di un clero miope ed implacabile. L’Iran è oggi forse l’unica nazione al mondo apertamente, ufficialmente, governata da una teocrazia: gli organismi elettivi, che pure esistono, come Parlamento e Presidente, sono soggetti al controllo del “Consiglio dei Guardiani” che seleziona e approva i candidati al Parlamento ed alla Presidenza, vaglia la congruità di ogni legge, di ogni decreto con il Corano e con la dottrina islamica, nell’accezione sciita.

Inoltre, secondo la Costituzione, al vertice della piramide del potere c’è un esponente del clero, la “Guida Suprema”, attualmente l’Ayatollah Khamenei, in carica dal 1989, a cui sono affidati poteri vastissimi, di indirizzo e controllo della politica dello stato; la “Guida Suprema” è il Comandante in capo dell’esercito e delle “Guardie della Rivoluzione” (i Pasdaran), controlla i servizi segreti, nomina i componenti del Consiglio dei Guardiani, il ministro della giustizia, il Capo della Polizia , il  presidente degli enti televisivi ed altro ancora; in Iran regna da anni la dittatura più ferrea, un’autocrazia nel nome di Dio.

 Le responsabilità di questo esito devastante vanno suddivise fra molti; gli americani che, per controllare il petrolio, avevano fatto fallire, con Mossadegh, il più serio tentativo di governo laico e progressista possibile nel paese, la borghesia occidentalizzata che accettò il dettato di Khomeini, senza comprenderne le implicazioni, i regnanti della dinastia Pahlavi che non si resero conto che le riforme radicali da loro promosse dovevano essere negoziate con i poteri forti, non potevano essere semplicemente imposte dall’alto; soprattutto l’arretratezza ed il fanatismo che dominano in un paese in cui ancora oggi metà della popolazione (81 milioni di persone) è analfabeta. Comunque, quali che siano state le cause e le responsabilità, si è venuta a creare in Iran una situazione potenzialmente irreversibile, in cui ogni speranza di sviluppo civile sembra preclusa.

Eppure, le dimostrazioni di piazza che si susseguono da mesi, giovani e donne che affrontano senza timori violenza e repressione, lasciano l’impressione che qualcosa stia cambiando, che la dottrina e la morale sciita, nell’accezione imposta dal clero iraniano, non siano più condivise o accettate da vasti strati della popolazione, quindi che il patto tra nazione e religione che ha retto il paese per secoli si sia incrinato o stia tramontando. Evidentemente gli strumenti di repressione di cui dispone il regime sono in grado di arginare qualunque protesta. Ma, se la ragion d’essere di questo sistema politico, l’identità religione – nazione venisse a cadere, la repressione potrebbe divenire insufficiente, qualcosa di nuovo sarebbe alle porte.

 

Inserito il:27/12/2022 11:21:34
Ultimo aggiornamento:27/12/2022 17:41:56
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