Aggiornato al 28/04/2024

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Voltaire

Shah Jahan sul trono dei pavoni

 

Le civiltà d'Oriente - Storia dell'India - 10

(seguito)

di Mauro Lanzi

 

4.4.2 Shah Jahan (1628-1658), il Gran Moghul                             

Se c’è un personaggio che ha meritato appieno l’appellativo di “Gran Moghul”, questo è stato Shah Jahan  (in farsi ”Signore del Mondo” ), divenuto ovunque un personaggio leggendario per il suo potere, la sua ricchezza, lo splendore del suo regno; fu lui stesso ad alimentare questo mito, incaricando l’Atelier imperiale di pittura di lavorare solo per riprodurre la sua immagine; si trattò di un vero e proprio culto della personalità, ancora oggi la sua effigie compare in centinaia di quadri e di miniature, nessun sovrano ha avuto mai una ritrattistica così vasta e diversificata.

Il suo regno ebbe inizio con un massacro: fece mettere a morte, non solo il fratello Sharyar, che aveva cercato di insidiargli il trono, ma anche diversi nipoti e pronipoti, chiunque potesse minacciarlo con pretese dinastiche, una vera mattanza. Chi se la cavò meglio fu l’ex regina, Nur Jahan, esiliata a Lahore con un ricco appannaggio: il trattamento di favore sembra sia dovuto al fatto che una sua figlia era divenuta la moglie prediletta dell’imperatore, Mumtaz-i-Mahal (“splendore del Palazzo”).  Sistemate le questioni dinastiche, Shah Jahan si dedicò ai suoi veri interessi il lusso, lo sfarzo nella vita di corte e l’architettura; la politica non lo appassionava, le guerre le fece condurre dai suoi figli. Il Moghul poteva permettersi queste spese, sia per i proventi tuttora generati dalle esportazioni verso l’Europa, sia per le ricchezze accumulate dal padre: solo in fatto di gioielli, il lascito di Jahangir fu valutato a peso, perché impossibile catalogare tutto; pesava una tonnellata e mezza. Evidentemente Shah Jahn non poteva restare indietro, quando si trasferì da Agra a Dehli, furono inventariati 375 kg di perle, 137 kg di smeraldi,450 kg di diamanti, quintali di pietre preziose non ancora lavorate ed altro ancora; i suoi gioielli più preziosi, però, furono due, il Koh -I- Nor che riacquistò dallo Shah di Persia, inviando 20 elefanti carichi d’oro (un prezzaccio!), ed il famosissimo “Trono dei Pavoni”, che noi conosciamo dalle cronache mondane relative all’ultimo Shah di Persia, ma che era stato in origine proprietà dei Moghul, fatto costruire da Shah Jahn e poi razziato dai Persiani in una incursione a Dehli, di cui parleremo. Ai tempi, il trono aveva una seduta intarsiata da diamanti, ricoperta da cuscini intessuti di perle ed era fiancheggiato da colonne intarsiate di smeraldi che portavano un baldacchino interamente indiamantato: dietro i famosi pavoni, nella cui coda erano incastonati diamanti, zaffiri, smeraldi e quant’altro. In nessun altro stato al mondo si era mai vista una simile opulenza.

Ciò che devastò l’erario indiano, non fu tanto l’amore per gioielli e pietre preziose, quanto la passione del sovrano per l’architettura; mentre i suoi predecessori si erano accontentati di costruire in pietra arenaria, Shah Jahn volle essere circondato da marmi; questi venivano estratti da cave che si trovavano sui monti dell’Indu Kush, erano marmi di incredibile splendore, pressoché privi di venature, ma il trasporto costava una fortuna.  Senza voler elencare tutti gli edifici a lui dovuti, giova ricordarne due esempi: il primo è la nuova reggia che si fece erigere, Agra sembrava troppo modesta, e la località scelta fu Dehli: nove anni prese la realizzazione di quello che doveva essere il ”Paradiso in Terra”: come Agra, anche questa residenza è circondata da possenti mura in arenaria rossa (per questo si chiama “Forte Rosso” ), lunga 1100 metri, larga 600.  

 

Poteva ospitare nel perimetro esterno 10000 soldati; passato l’imponente portale, si giungeva ad un grande piazzale destinato alle udienze pubbliche, in fondo il balcone in marmo intarsiato su cui appariva l’imperatore. Dietro si aprivano gli appartamenti privati, un vero Risultato immagini per jama masjid delhiparadiso, ispirato alle descrizioni del paradiso Coranico: sotto la sala del trono passava il fiume del paradiso, un canale di acqua potabile che poi giungeva al bagno dell’imperatore ed ai giardini. Di fronte al Forte Rosso sorge, sempre opera dell’imperatore, la più grande moschea di tutta l’India, la Jami Mashid, capace di accogliere fino a 40.000 persone, il più sublime monumento alla cultura islamica mai creato in India; la moschea esiste e funziona tuttora a Dehli.

Ma la costruzione per cui Shah Jahan è universalmente ricordato è il Taj Mahal , (letteralmente “la corona del palazzo”) un mausoleo dedicato alla moglie amatissima Mumtaz-i-Mahal, morta a 39 anni dando alla luce il quattordicesimo figlio; il vedovo inconsolabile  (ma non troppo, aveva comunque 42 mogli!) ordinò la costruzione di questo incredibile gioiello, cui lavorarono oltre 20.000 operai dal 1631 al 1657, un poema fatto di marmo, oro, argento e pietre preziose.

Il complesso architettonico del Taj Mahal si compone di cinque elementi principali: il darwaza (portone), il bageecha (giardino), il masjid (moschea), che rappresenta il luogo di culto dei pellegrini e la struttura che santifica l’intero complesso, il mihman khana (“casa degli ospiti”, chiamata anche jawab) ed infine il mausoleum ovvero la tomba dell’imperatore.  Ulteriori strutture secondarie sorgono addossate alle mura che dividono il complesso dall’esterno (esse lo cingono per tre lati, poiché il lato settentrionale prospiciente il fiume è libero) e sono: i due portali secondari ed otto torri ottagonali. All’interno del giardino, si trovano aiuole di fiori, canali d’acqua che riflettono l’immagine del Taj e viali alberati. Il giardino stesso è suddiviso in quattro parti da due canali che si intersecano in modo ortogonale al centro; ognuna delle quattro parti è a sua volta divisa in ulteriori quattro parti da viali percorribili.

Shah Jahan aveva progettato anche la costruzione di un mausoleo identico, ma nero, per sé, dall’altra parte del fiume; ne restano le rovine delle fondamenta, la costruzione non venne mai eseguita per la rovina finanziaria cui la prodigalità e la bulimia edilizia dell’imperatore avevano condotto lo stato. Iniziava così la decadenza dell’impero moghul; un cronista di corte rileva che dall’età di Akbar le entrate si erano triplicate, ma le uscite quadruplicate. Un colpo devastante, poi, lo portò la fine della Guerra dei Trent’anni, che quasi azzerò la richiesta di salnitro a scopi bellici e ridusse al minimo il mercato dei tessuti di cotone, in un’Europa impoverita e ridotta, in alcune aree, alla fame.

Per rimediare, le soluzioni erano le solite; la prima, le guerre che Shah Jahan affidò ai primi quattro figli con esiti disastrosi sia contro i persiani, che contro gli uzbechi per conquistare Samarcanda: solo il terzo figlio Aurangzeb ebbe qualche parziale successo al sud, ma il bottino non copriva le spese.

L’altra, la spoliazione dei sudditi, soprattutto i non islamici; si mise in moto un inesorabile meccanismo fiscale che nei successivi cinquant’anni provocherà l’impoverimento dei contadini e la fuga dalle campagne, nonché la progressiva tesaurizzazione delle risorse da parte delle classi abbienti che non sapevano più come sfuggire al fisco; questo fu il punto di svolta, mentre nell’Europa uscita dalla tragedia della guerra dei trent’anni le classi mercantili erano invitate ad investire dai rispettivi governi e si creavano così le premesse dello sviluppo industriale futuro, in uno stato estremamente più evoluto e prospero come l’India, questo meccanismo si arrestava e si avviava la decadenza. Inoltre il crescente bigottismo islamico dell’imperatore, non più frenato dalla saggezza della prima moglie, cominciò ad allontanare dal governo moghul la popolazione indù, che era fatta oggetto di continue vessazioni e spoliazioni ; anche i mercanti cristiani divennero un bersaglio di questa fobia, in particolare i portoghesi, cui non si perdonava il culto delle immagini ed il commercio degli schiavi, anche indiani; un loro grosso insediamento sul fiume Gange fu assediato ed espugnato dall’esercito indiano. Più di quattromila portoghesi furono uccisi o fatti prigionieri; dei prigionieri solo chi si convertì all’islam ebbe salva la vita. Questo episodio liberò da ogni concorrenza gli inglesi, ma non giovò certo alle esportazioni indiane.

Come tutti sovrani moghul, anche Shah Jahan ebbe a soffrire delle lotte e delle rivolte dei figli, in particolare i primi quattro: il suo preferito era il primogenito, Dara Shikoh, un esteta dai gusti raffinati, molto simile al padre, che non perdeva occasione di manifestare la sua predilezione nei confronti del maggiore, destando le invidie di tutti gli altri. Tra tutti il più dotato appariva essere il terzo figlio, Aurangzeb, “quello che meno amo”, ripeteva il padre, che aveva dimostrato, ogni qualvolta chiamato alla guida di eserciti, notevoli doti militari e politiche, nel reprimere o placare ribellioni; i maestri ne avevano fatto un mussulmano devoto e bigotto, aspetti che si dimostreranno devastanti in futuro, ma al momento lo facevano apparire austero e capace, a fronte della fragilità dei fratelli. Finché fu saldo in sella Shah Jahan riuscì a contenere le ambizioni dei figli, ma nel 1657 fu colpito da una grave crisi di stenosi urinaria, dovuta, secondo alcuni, (in particolare l’ambasciatore francese, in genere molto bene informato) ad un’eccessiva assunzione di afrodisiaci da parte dell’anziano sovrano, che si era invaghito di una tredicenne.

Sia come sia, l’imperatore rimase una settimana tra la vita e la morte, poi, assegnato il ruolo di reggente al primogenito, si ritirò per curarsi. La rivolta scoppiò immediata tra i fratelli: il più avveduto si dimostrò Aurangzeb, che non per nulla conservava nella sua biblioteca i libri di un certo Machiavelli; radunato senza fretta e senza clamori un forte esercito, strinse alleanza con il quarto fratello, Murad, che governava il Bengala, e, a forze riunite, marciò contro Dara che sconfitto (29 maggio 1658), fu costretto alla fuga e ad un penoso esilio;  l’anno successivo, dopo lungo e incerto vagabondare, abbandonato da tutti, allettato anche dagli inviti del fratello, Dara rientrò in India; catturato da un capo tribù,  fu ricondotto a Dehli, dove era, malgrado tutto, ancora molto popolare; qui il fratello, prima lo fece sfilare per la città in catene, poi, visto il favore che Dara incontrava, lo fece prontamente decapitare. 

Non molto meglio era andata a Murad, che pure era stato suo alleato; all’insorgere dei primi inevitabili dissidi, Aurangzeb lo aveva invitato ad un banchetto di riconciliazione, dal quale Murad era uscito drogato ed incatenato su di un elefante in marcia lontano da Agra: di lui non si seppe più nulla. Tutti i figli di Dara e Murad morirono avvelenati e così i parenti maschi delle loro mogli. La lettura di Machiavelli qualcosa aveva insegnato.

Tristissima fu anche la sorte del padre che aveva tentato a più riprese di trovare un’intesa, un ravvicinamento con il figlio; non si incontrarono neppure, il grande Shah Jahan, che diverrà immortale nella fama dei posteri, dovette assistere allo sterminio della sua famiglia e sopportare, prigioniero nel suo palazzo, per gli ultimi, lunghissimi, otto anni della sua vita tutte le meschine angherie del figlio; alla sua morte, nel 1666, la figlia lo tumulò nel Taj Mahal.

 

Inserito il:02/07/2021 15:28:44
Ultimo aggiornamento:02/07/2021 15:54:51
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