Aggiornato al 27/04/2024

Non sono d’accordo con quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo

Voltaire

Achille Beltrame (Arzignano, 1871 - Milano, 1945) - Giuramento di Vittorio Emanuele III

 

1915/18 La guerra dell'Italia - (2) Dalla neutralità all’intervento

di Mauro Lanzi

 

(seguito)

Parte prima: la politica interna.

“Sono figlio della libertà, e a lei devo tutto ciò che sono”.

Camillo Benso, conte di Cavour (Epigrafe sulla sua tomba)

«Le leggi devono tener conto anche dei difetti e delle manchevolezze di un paese… Un sarto che deve tagliare un abito per un gobbo, deve fare la gobba anche all'abito»

Giovanni Giolitti. Memorie.

Se vogliamo esaminare il processo che portò il Paese al conflitto, dobbiamo necessariamente rivolgerci ad un aspetto specifico della vita del Paese, in sostanza la struttura politica che reggeva lo stato e le sue carenze.

L’Italia del principio del XIX secolo era, come sapete, una monarchia costituzionale retta in base al cosiddetto Statuto Albertino, promulgato, un po' di malavoglia, da Carlo Alberto, il 5 Marzo 1848, in francese (che era allora la lingua ufficiale della corte sabauda).

Forse ultima costituzione “octroyée“, cioè concessa, non negoziata, proteggeva necessariamente, per sua genesi, le prerogative reali. Prevedeva due camere, di cui una sola elettiva (il Parlamento), mentre i Senatori erano designati dal Re a vita (ne resta traccia, ancor oggi, nell’istituto dei senatori a vita). Le leggi dovevano essere approvate dalle due camere e dal Re (tre quindi gli organi legislativi), che conservava il privilegio “reale” di revoca delle leggi. Il Re nomina e revoca i ministri, che sono responsabili nei confronti del Re, non del Parlamento, scioglie le camere, può governare in assenza per decreti, nomina e revoca generali e ambasciatori (è il comandante in capo dell’esercito), può negoziare e concludere trattati internazionali, senza informare governo e parlamento (a meno di implicazioni finanziarie degli stessi), può dichiarare guerra.

Lo Statuto Albertino era stato concepito come uno strumento provvisorio: già negli accordi intercorsi col Comune di Milano, dopo le Cinque Giornate, Carlo Alberto si era impegnato ad una revisione della Carta ad opera di un’assemblea costituente, nominata all’uopo, e tale impegno era stato confermato da Cavour e Vittorio Emanuele II. Ciononostante, lo Statuto Albertino non fu mai rivisto, anche se era modificabile con legge ordinaria e rimase in vigore fino al 1946: da noi, tutto ciò che è provvisorio, diviene eterno ed immutabile.

In tale condizione, al giovane Regno d’Italia si aprivano due strade, in conformità ai due modelli di monarchie parlamentari allora esistenti in Europa.

  1. L’esempio inglese, che si sintetizza nel motto: ”Il Re regna ma non governa”.
  2. L’esempio, prima prussiano, poi tedesco, in cui il monarca è il capo dell’esecutivo e guida di fatto la nazione.

Siccome nulla avviene per caso, entrambi i modelli si reggevano su determinate premesse.

Premessa indispensabile per il modello inglese è il sistema bipartitico, da sempre presente in Inghilterra (Whigs e Tories, conservatori e liberali, conservatori e laburisti). Due partiti, fortemente radicati nella società, espressioni di ceti ed istanze sociali diverse, si confrontano, si combattono, si alternano al potere, controllandosi a vicenda e costituendo così il perno di quel sistema di “checks and balances”, che è l’essenza della democrazia inglese.

Premessa necessaria, viceversa, per il modello tedesco era l’esistenza di un’aristocrazia, come quella degli Junker, legata da un vincolo di lealtà assoluta verso il sovrano, che potesse far funzionare con correttezza efficienza ed onestà la macchina dello stato, in particolare l’esercito e l’amministrazione pubblica.

Mancando le premesse ad entrambi i modelli (il bipartitismo non l’abbiamo neppure oggi, quanto all’ aristocrazia …, lasciamo perdere!), la politica italiana assunse un andamento ondivago, oscillando tra due estremi: quando al governo si trovano personalità forti, autorevoli (Cavour, Crispi, Giolitti o lo stesso Mussolini), la figura del monarca si ritrae, scompare quasi dalla scena politica, vista anche la riluttanza tipica dei Savoia ad assumersi compiti e responsabilità di qualche rilievo, se evitabili. Ma quando la classe politica è debole, nei momenti di crisi, il “privilegio reale”, previsto dalla Costituzione, assume un peso determinante, cambiando il corso della storia: questo è quanto accadde, in particolare, nel ’15, nel ’22, nel ’43.

La politica, però, non la fanno solo le leggi, la fanno anche e soprattutto i personaggi che si muovono entro quel quadro di riferimento; ci si fa obbligo, perciò, per comprendere le vicende che condussero l’Italia alla guerra, tracciare brevemente i lineamenti dei principali protagonisti della scena politica di inizio secolo, innanzitutto il Re.

Vittorio Emanuele III era salito al trono nel luglio del 1900, all’età di 30 anni, dopo la morte del padre, assassinato a Monza dall’anarchico Bresci; era l’unico figlio di Umberto e Margherita, cugini di primo grado. Il matrimonio era stato organizzato in gran fretta dopo che uno sciagurato incidente aveva tolto di mezzo la fidanzata ufficiale di Umberto, una principessa austriaca, e si era celebrato a seguito di una speciale dispensa papale: l’unione non si era rivelata felice, visti i numerosi tradimenti di Umberto e il legame che lo univa alla contessa Litta Arese; inoltre, come spesso o talora accade nelle unioni tra consanguinei, il prodotto dell’unione era risultato geneticamente infelice.

Vittorio Emanuele soffriva di rachitismo giovanile, cosa che lo obbligò a portare per molti anni un busto rigido e scarpe ortopediche: era basso di statura, appena 1,50 mt, cosa che lo esponeva a innumerevoli sberleffi: i giornali satirici lo chiamavano “ Re sciaboletta”, il cugino, l’Aosta, aveva coniato in occasione delle sue nozze con Elena di Montenegro, l’epiteto di ”Curtatone e Montanara” etc. Certamente la complessione fisica inadeguata per il ruolo di regnante (una figura imponente era allora simbolo di regalità) influirà, non poco, sul suo carattere ed i suoi comportamenti, Vittorio Emanuele soffrirà sempre di un complesso psicologico profondo per la sua statura.

Ad un fisico infelice, faceva però da contraltare una mente molto acuta: secondo il parere di numerosi storici, Vittorio Emanuele III è stato di gran lunga il più colto, il più intelligente, il più sagace di tutti i regnanti di casa Savoia: parlava quattro lingue, l’inglese alla perfezione, unico capo di stato italiano fluente in questa lingua (eviterei confronti impietosi!!).

Da giovane aveva viaggiato molto, accumulando conoscenze ed esperienze preziose; appassionato di storia e geografia aveva acquisito una conoscenza enciclopedica in materia geografica, al punto da essere consultato o chiamato a dirimere controversie internazionali: grande appassionato di numismatica a lui si deve il “Corpus nummorum italicorum” testo base della numismatica italiana.

A tante doti intellettuali facevano però riscontro lineamenti caratteriali quanto mai infelici ed inopportuni: era un misantropo, freddo, schivo, diffidente, privo di carisma e di empatia, assolutamente incapace di quegli slanci e di quelle aperture che fanno di uno statista un leader. Di lui disse un ambasciatore inglese:

“E’ una sfinge: si ritiene che abbia delle idee, ma l’unica cosa che non sembra dubbia in lui è l’ostinazione”.

Un cinismo viscerale gli impediva di concepire strategie di ampio respiro, di nutrire una visione globale della situazione e dei possibili sviluppi per il paese, di legare a sé gli uomini migliori; in politica era un opportunista, privo di scrupoli e principi morali. Proprio per i suoi limiti caratteriali, sbagliò talora in alcune scelte essenziali, mancò soprattutto di svolgere le funzioni minime intrinseche del suo ruolo, cioè collegare e raccordare le diverse componenti politiche del momento.

Evidentemente non tutto del suo lungo regno è da giudicare negativamente, da elogiare, ad esempio, fu il suo atteggiamento nelle circostanze in cui salì al trono dopo l’assassinio del padre; scartò con decisione la proposta di leggi speciali, ridusse drasticamente le spese della Corte (era anche un po' taccagno), la sua vita privata fu sempre inappuntabile. Soprattutto ribadì allora con fermezza la sua considerazione per il Parlamento e scelse un primo ministro, Giolitti, capace di pacificare un paese dilaniato dai conflitti sociali.

Purtroppo, si trovò a regnare nel periodo forse più convulso e difficile della nostra storia recente; con il passare degli anni, il disincanto per la politica e la crescente sfiducia nei confronti di democrazia e Parlamento fecero emergere i lati meno positivi del suo carattere, l’ostinazione, la doppiezza, un inguaribile cinismo. In tarda età, nell’esilio di Alessandria, confiderà ad un interlocutore che il capo di governo con cui si era trovato maggiormente in sintonia, a proprio agio, era stato, pensate un po', Mussolini (che peraltro aveva fatto arrestare, senza batter ciglio, all’uscita da Villa Torlonia, dove lui stesso l’aveva invitato per un incontro!).

Non è qui possibile illustrare tutte o almeno le principali figure politiche di quei tempi, ma su una almeno dobbiamo soffermarci, Giovanni Giolitti, con cui il Re ebbe rapporti complessi, se ne servì per lungo tempo, senza fidarsi di lui, come, peraltro, di nessuno.

Giolitti era nato in Piemonte, a Mondovì (ma è noto come lo statista di Dronero, dove aveva il suo seggio elettorale) nel 1842, ed aveva percorso tutti i gradini della carriera, prima burocratica, nel Ministero del Tesoro, poi politica, come parlamentare e ministro di numerosi governi.

Giolitti non solo è stato il politico italiano più lungimirante dei suoi tempi, soprattutto in campo sociale, ma è stato anche quello che, più di ogni altro, dopo Cavour, ha creduto nel Parlamento, di cui comprendeva potenziale e valore, sapendo anche come utilizzarlo per i suoi scopi.

Giolitti era allarmato per le pericolose e crescenti diseguaglianze sociali: vedeva come negli anni trascorsi le classi dirigenti avessero speso somme ingenti a proprio beneficio, mentre i poveri diventavano più poveri; era convinto che se i Governi avessero continuato a schierarsi a favore di imprenditori e classi abbienti, per il paese non c’era futuro.

Fu il primo uomo di stato italiano a comprendere che bisognava mutare atteggiamento nei confronti delle agitazioni sociali; divenuto presidente del Consiglio, mutò radicalmente tattica rispetto alle tragiche repressioni dei governi precedenti e mise in pratica i concetti che da anni andava spiegando in Aula e durante le manifestazioni elettorali: i sindacati erano i benvenuti in quanto un'organizzazione garantisce sempre e comunque maggior ordine rispetto ad un movimento spontaneo e senza guida; inoltre, gli scioperi avevano alla base motivazioni economiche e non politiche e pertanto la dialettica tra le parti sociali, non coartata dall'intervento della pubblica sicurezza, avrebbe risolto le cose da sé.

Non si può non sottolineare la modernità di queste idee, soprattutto nei confronti dei precedenti governi, che, ravvisando nelle agitazioni operaie un intento sovversivo, avevano commesso il tragico errore della cieca repressione.

Non è qui il caso di illustrare per intero l’azione riformatrice di Giolitti, che contemplò anche l’introduzione del suffragio universale ed i primi aiuti concreti al meridione; certo non era un idealista, del suo “pragmatismo” disincantato fanno fede le parole citate in apertura, tanto diverse da quelle di Cavour!! Soprattutto era abituato a manipolare con ogni mezzo le consultazioni elettorali, tanto che venne definito, da più parti, il “ministro della malavita”.

Era comunque un sincero democratico, convinto assertore della preminenza del Parlamento su ogni altro istituto, in particolare la Monarchia, che certamente servì e rispettò, ma nel più ampio contesto del bene generale del Paese. Era anche un uomo prudente, portato per sua natura alla negoziazione ed agli accordi, anche ai compromessi (sa il Cielo quanto necessari in politica!!). Mentre in materia di politica interna gli fu lasciata, sostanzialmente, mano libera, in materia di politica estera dovette fare i conti con le ingerenze del Re, che considerava gli esteri e l’esercito campi di sua competenza: sceglieva personalmente i rispettivi ministri, ne seguiva e controllava le iniziative, quando non le ispirava lui stesso.

Ad aggravare la situazione nei frangenti che ci accingiamo a trattare, ci fu anche una peculiarità del “metodo” politico giolittiano: assentarsi, rinunciare alla carica di primo ministro quando si evidenziavano difficoltà nel Parlamento, certo che sia il Re che i suoi avversari lo avrebbero richiamato ben presto al suo posto, perché non sapevano come fare altrimenti.

Purtroppo, una di queste sue ”vacanze” coincise con la crisi del ’14, privando così l’Italia della guida più esperta, lasciando, in momenti critici, la direzione del Paese nelle mani dell’ultraconservatore Salandra, di un avventato ed inesperto Sidney Sonnino e, soprattutto, del Re.

      (continua)

Inserito il:10/09/2017 20:03:19
Ultimo aggiornamento:17/09/2017 20:05:21
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