Allegory of Italy internal political assets, post 1861 and pre 1870 , Napoleon III, Pope Pius IX, Garibaldi as Cincinnatus, brigants, priest and Neapolitan noble as "pazzariello"
1915/18 - La guerra dell'Italia
1 - L’Italia prima della guerra
di Mauro Lanzi
Prologo
Il 2017 è un anno di grandi e significative ricorrenze, legate, in qualche misura, tutte alla Grande Guerra. Sono passati cento anni dallo sbarco in Francia dei primi soldati americani, a difesa dell’altrui libertà. Sono passati cento anni dalla dichiarazione di Lord Balfour, per una “homeland” ebrea in Palestina. Sono passati cento anni dalla caduta degli Zar e dalla nascita del comunismo in Russia. Sono passati cento anni dalla più grave disfatta militare italiana, Caporetto, 24 Ottobre 1917.
Ricordare Caporetto agli Italiani è sempre compito ingrato: sembra quasi che siamo rimasti prigionieri di un incomprensibile pudore, del timore di vedere infangato tutto il ricordo di una guerra vittoriosa, se solo si cerca di rileggere un episodio che mise in luce, da una parte, spietatamente, le nostre carenze, i nostri difetti, la viltà di molti e l’eroismo di pochi, le profonde divisioni del Paese, dall’altra, anche la sua incredibile capacità di reagire, la voglia di tornare a combattere con una determinazione di cui nessuno ci faceva credito.
Per questi motivi, pur tra tante ricorrenze, forse anche più importanti a livello mondiale, credo sia significativo per noi, in questo scorcio di anno, rievocare il disastro di Caporetto, inquadrandolo però, per comprenderne il vero senso, nel più vasto ambito della guerra combattuta dall’Italia e di quale Italia andò in guerra.
L’Italia prima della guerra.
“Italia non è che un’espressione geografica” - Clemens von Metternich.
“Il primo bisogno d'Italia è che si formino Italiani dotati d'alti e forti caratteri. E pure troppo si va ogni giorno più verso il polo opposto: pur troppo s'è fatta l'Italia, ma non si fanno gl'Italiani.” - Massimo D’Azeglio
L’Italia che andò in guerra nel 1915 era una nazione giovane, nata dagli ideali e dall’eroismo di pochi, dall’indifferenza dei più, da favorevoli circostanze internazionali (appoggio militare francese, simpatia e sostegno diplomatico inglese), dal collasso di sistemi politici antistorici, come gli Stati della Chiesa ed il Regno di Napoli.
Si entrò in guerra dopo nove mesi di dichiarata neutralità, con modalità, circostanze e motivazioni che hanno occupato a lungo gli studiosi di quel periodo.
Per comprendere come e perché si passò da una neutralità condivisa quasi da tutti ad un intervento contestato, foriero di lacerazioni politiche e sociali, dobbiamo delineare, sia pur brevemente, l’immagine dell’Italia post-risorgimentale, delle sue strutture politiche, dei suoi problemi, ed infine dei personaggi che furono protagonisti di quei fatidici anni 1914, 1915.
Il Regno d’Italia che nasce dalla proclamazione, a camere riunite, il 17 Marzo 1861, forse non meritava la tagliente definizione di Metternich, ma certo la tenuta del nuovo stato e le sue prospettive future, a confronto degli altri stati europei, non potevano non suscitare dubbi e perplessità.
Il problema del Risorgimento Italiano non fu tanto, come è stato asserito da più parti, la limitata partecipazione popolare ai fatti del Risorgimento stesso, nelle Rivoluzioni inglese e francese i numeri dei veri protagonisti non sono certo superiori: quanto ai numeri, si pensi solo al fatto che alla vigilia della II Guerra d’Indipendenza si presentarono a Torino, da tutta Italia, per arruolarsi, quasi 60.000 volontari, (i più furono esclusi dal reclutamento per esaurimento degli equipaggiamenti), quando un simile gesto poteva costare la galera o l’esilio.
Pochi quindi, ma non pochissimi, comunque animati da intenti generosi, libertà, indipendenza, identità nazionale: occorre riconoscere che il Risorgimento e l’Unità d’Italia, nata dal loro sacrificio, ebbero almeno il risultato di portare in tutte le regioni d’Italia, soprattutto a Roma e a sud di Roma, concetti che appaiono a noi ovvi ed irrinunciabili, ma sconosciuti allora a quelle popolazioni, quali l’eguaglianza di fronte alla legge, la libertà di parola e di stampa, i diritti elettorali attivi e passivi, l’istruzione, primaria almeno, laica , obbligatoria e gratuita, l’assimilazione del paese con le altre realtà europee; i nostalgici dei vari stati preunitari, neo borbonici o critici della repressione del brigantaggio (che esisteva ed era combattuto anche prima dell’unità), dovrebbero almeno riflettere su questi aspetti, senza i quali uno stato moderno semplicemente non potrebbe esistere.
Quanto a lineamenti e meriti dei regimi preunitari, vale la pena citare ancora una volta l’onnipresente Metternich, che nelle sue memorie ricorda un episodio della visita di Ferdinando II di Borbone a Vienna; le vedute politiche espresse dal Re avevano evidentemente impressionato anche il Cancelliere, che certo liberale non era:
“Il liberalismo, argomentava Ferdinando, non è che la libidine di potere di militari vanagloriosi, artieri arricchiti, paglietti e pennaruli senza arte né parte”.
Per chi non avesse familiarità con il gergo ferdinandesco i “paglietti” erano gli avvocati (forse per il copricapo usato), i “pennaruli” gli uomini di pensiero e di lettere. Si può ben capire quale società prediligesse questo Re, una società che, emarginando tanto la nascente borghesia imprenditoriale come le élites culturali, non poteva che sfociare in quella “piramide di birri e di preti” di cui parlerà Settembrini.
Dove il Risorgimento fallì, invece, fu il cambiamento sociale: le Rivoluzioni francese ed inglese avevano portato a significativi rivolgimenti nelle società di quelle nazioni. In Francia, ad esempio, la confisca e la vendita in piccoli lotti delle terre sequestrate a clero, nobiltà e monarchia avevano fatto emergere (anche a costo di orrori e di sangue, la ghigliottina non era un arredo delle piazze) un ceto di piccoli possidenti terrieri, che diverranno necessariamente i più accesi sostenitori del nuovo ordinamento e che sono, ancor oggi, lo zoccolo duro della nazione. Era nata, insieme ai principi della rivoluzione, una nuova classe sociale, che si riconosceva in quei principi, essendo ad essi indissolubilmente legata.
Niente di tutto ciò, in Italia l’unificazione del Paese avvenne con il consenso o la connivenza delle classi dirigenti, che aderirono al nuovo ordine soprattutto per vedere garantito il loro status sociale e patrimoniale.
“Tutto deve cambiare perché tutto rimanga com’è.”
Così la borghesia liberale che prese le redini del paese nel 1861 si trovò a dover governare masse ignare, inerti od anche ostili, popolazioni che non avevano in comune né leggi, né costumi od usanze, né interessi economici, neppure la lingua, l’italiano era un’astrazione letteraria, non era usato neppure nelle Corti. La religione, cattolica per tutti, non era neanch’essa fattore unificante, vista l’ottusa ostilità delle gerarchie ecclesiastiche nei confronti del nuovo Stato liberale e dei suoi principi.
Il divario esistente allora tra i poli estremi del Paese è così efficacemente descritto da uno dei maggiori storici contemporanei, scomparso quest’anno, Denis Mack Smith :
«La differenza fra Nord e Sud era radicale. Per molti anni dopo il 1860 un contadino della Calabria aveva ben poco in comune con un contadino piemontese, mentre Torino e Milano erano infinitamente più simili a Parigi e Londra che a Napoli e Palermo (e oggi?!); e ciò in quanto queste due metà del paese si trovavano a due livelli diversi di civiltà. I poeti potevano pure scrivere del Sud come del giardino del mondo, la terra di Sibari e di Capri, ma di fatto la maggior parte dei meridionali viveva nello squallore, perseguitata dalla siccità, dalla malaria e dai terremoti. I Borboni, che avevano governato Napoli e la Sicilia prima del 1860, erano stati tenaci sostenitori di un sistema feudale colorito superficialmente dallo sfarzo di una società cortigiana e corrotta. Avevano terrore della diffusione delle idee ed avevano cercato di mantenere i loro sudditi al di fuori delle rivoluzioni agricola e industriale dell'Europa settentrionale. Le strade erano poche o non esistevano addirittura ed era necessario il passaporto anche per viaggi entro i confini dello Stato.. »
Parole dure, che dipingono efficacemente ed autorevolmente la vera situazione del Paese a quei tempi, ma che ci ricordano anche quanto questo divario sia ancora reale e presente.
Mancò, ai governi che si succedettero dopo la proclamazione dell’Unità d’Italia, la percezione della gravità dei problemi. Si commisero errori sostanziali: si ritenne che una buona amministrazione potesse risolvere, da sola, le conseguenze di secoli di malgoverno, si applicarono ai più deboli le regole dei più forti, si privilegiò la repressione rispetto alla comprensione dei problemi, si aggravarono in taluni casi situazioni già drammatiche, ma dobbiamo anche chiederci, alla luce degli sforzi profusi e dei risultati non conseguiti negli ultimi sessant’anni, quale forza umana avrebbe potuto sanare piaghe così antiche e incancrenite e in che modo.
Non è certo possibile approfondire in questa sede tutti mali dell’Italia post-risorgimentale, basti accennare che malgrado gli innegabili progressi fatti dal Paese nel cinquantennio che precedette la guerra, l’Italia appariva ancora al principio del XX secolo come un paese socialmente ed economicamente arretrato; più del 50% della popolazione era impiegata nei campi e l’analfabetismo pareggiava questa cifra, gli interessi sul debito assorbivano il 40% del bilancio dello stato, mentre un altro 40% andava in spese militari ( con quali risultati, c’è da chiedersi!); soprattutto, però, mancava largamente quella coesione nazionale che esisteva ed esiste ancora negli altri stati europei e che a noi, forse, ancora manca.
Inevitabilmente, tutti gli aspetti sopra accennati emergeranno nel corso della guerra, e ne daremo conto nei passi seguenti.
Il primo punto da affrontare, però, è come si giunse alla decisione per l’intervento.