James Northcote (Plymouth, 1746 - Londra, 1831) – The Bill of Rights 1688 – Parlamentary Art Collection
L’Età delle Rivoluzioni - La Gloriosa rivoluzione I - Gli Stuart
di Mauro Lanzi
C’è stato un tempo nella storia recente del mondo occidentale in cui la gente, i popoli hanno avvertito la necessità di voltare pagina, di cambiare radicalmente le premesse su cui si era retta da secoli la vita delle nazioni: questo tempo è stato detto dagli storici “L’Età delle Rivoluzioni”. Il periodo così chiamato ha inizio nel 1688/89 con la cosiddetta “Glorious Revolution” in Inghilterra e si estende fino alla Rivoluzione Francese, esattamente un secolo dopo, nel 1789: cento anni quindi, una parentesi relativamente breve nella storia dell’umanità, ma dopo questi anni niente sarà più come prima. In questo periodo hanno avuto luogo le tre grandi rivoluzioni “politiche”, Rivoluzione Inglese, Rivoluzione Americana, Rivoluzione Francese, accompagnate da altre due rivoluzioni, che non hanno toccato la politica, ma sono state altrettanto significative ed importanti, la Rivoluzione Industriale e la Rivoluzione Militare.
La “Gloriosa Rivoluzione” o Rivoluzione inglese è il primo degli eventi che ci troviamo di fronte all’inizio di questo periodo ed è un po' la madre di tutte le rivoluzioni: essa infatti non si è limitata ad un cambio di regime, la cacciata degli Stuart, ma contiene ed afferma, con il pragmatismo tipico del popolo inglese, un principio divenuto poi irrinunciabile, la difesa delle prerogative del Parlamento nei confronti dell’esecutivo; inizia con essa l’epoca dei governi del Parlamento, il Re, secondo una formula che diverrà famosa, “regna ma non governa”. Come tutto ciò che ci viene dall’Inghilterra, la Rivoluzione Inglese presenta lineamenti e caratteristiche differenti da quelli delle altre rivoluzioni, per comprenderla bisogna ripercorrere un secolo di storia inglese, un periodo tra i più drammatici affascinanti della storia di questo paese.
La Gloriosa rivoluzione (o Seconda rivoluzione inglese), fu l'insieme degli eventi attorno al 1688-1689 che portarono alla deposizione di Giacomo II d'Inghilterra e alla sua sostituzione con Guglielmo III d’Orange e sua moglie Maria II Stuart.
Non si trattò, però, solo di una vicenda dinastica o di una lotta di successione, bensì fu l'inizio di una nuova epoca, l’epoca dei governi del Parlamento; con la Dichiarazione dei diritti (Bill of Rights - 1689), su cui il nuovo sovrano fu tenuto a giurare, vengono imposti limiti precisi all'autorità regia in favore del Parlamento, al re rimase sostanzialmente, per il momento, il potere esecutivo.
Sarebbe profondamente errato porre sullo stesso piano questo evento con le altre rivoluzioni che seguiranno, oppure paragonare il Bill of Rights alla Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo, votata dalla Costituente Francese, come tentò maldestramente di fare Margareth Thatcher nel 1989: mentre nella dichiarazione francese, come in parte in quella americana, si richiamano i diritti naturali di ogni essere umano, eredità questa del pensiero illuminista, il Bill of Rights si articola in negativo, dichiarando quello che il Re non può fare senza l’approvazione del Parlamento. I parlamentari inglesi non si rifanno ad una dottrina politica, John Locke, che pure fu il più grande pensatore politico dei suoi tempi, verrà anni dopo ad esporre le sue tesi liberali, i Bill of Rights sono il prodotto del pragmatismo inglese e della lotta del Parlamento contro l’assolutismo degli Stuart. Occorre anche spiegare che la denominazione “Gloriosa Rivoluzione” fu coniata dal partito “Whig” (precursore del partito liberale, che nasce in questi frangenti), perché si volle far credere che sia avvenuta in modo sostanzialmente pacifico senza nessuno spargimento di sangue; in realtà durante la rivoluzione si verificarono l'uccisione in massa di molti irlandesi cattolici e le condanne sommarie di molti lealisti.
Con tutti questi limiti, la “Gloriosa Rivoluzione” rimane un evento di importanza fondamentale; a differenza della Rivoluzione Francese, non si trattò di uno sviluppo di fatti racchiuso in pochi anni, fu piuttosto il punto di arrivo di quasi un secolo di lotte contro l’assolutismo e contro la religione di stato, una straordinaria miscela di rivendicazioni politiche e religiose, ma anche il punto di partenza di un nuovo ordinamento politico, sociale ed economico, che aprirà la strada alla Rivoluzione industriale e condurrà l’Inghilterra ai vertici del potere mondiale; è quindi in questa prospettiva che cercheremo di ricostruire i fatti che precedettero questo evento, il suo svolgimento e le sue conseguenze, ripercorrendo quasi un secolo di storia d’Inghilterra, uno dei periodi più densi e pregnanti nelle vicende di questo Paese.
- La parabola della dinastia Stuart.
Gli Stuart sono stati una dinastia straniera insediata sul trono inglese; il fatto di per sé non è unico od eccezionale, basti ricordare i Plantageneti che erano di origini francesi, o, anche, l’attuale dinastia che ha origini tedesche; gli Stuart erano scozzesi di antico lignaggio, il nome sembra derivi da “Steward”, maggiordomo, posizione di spicco alla corte dei nobili scozzesi. La posizione della famiglia cambiò di colpo quando Walter Stewart sposò Marjorie, figlia di Robert Bruce (a sinistra), il vincitore della battaglia di Bannockburn (!314) contro gli inglesi e primo Re di Scozia; di Roberto Bruce si ricorda anche la sua amicizia con William Wallace, cui è ispirato il film “Braveheart”. La dinastia Bruce si estinse nel 1371 ed al trono di Scozia salì il figlio di Walter e Marjorie, Roberto II Stuart. Gli Stuart regnarono ininterrottamente sulla Scozia per più di trecento anni, tra alterne vicende, sia per le ricorrenti rivolte della nobiltà scozzese, che per i violenti scontri militari con la corona inglese. Proprio per migliorare i rapporti tra i due paesi Giacomo IV Stuart sposò nel 1513 la figlia di Enrico VII Tudor, Margherita; il matrimonio doveva rivelarsi gravido di sviluppi inattesi, ma non portò alla pace auspicata tra i due paesi: l’adesione di Giacomo alla Lega di Cambrai filofrancese portò ad una nuova guerra e Giacomo fu sconfitto ed ucciso dall’esercito di Enrico VIII nella battaglia di Flodden Field, 1513. Sorte analoga per il figlio, Giacomo V (a sinistra); uscito dalla minorità, Giacomo riuscì in un primo tempo a dominare un’aristocrazia ribelle; poi, alleatosi con la Francia, per resistere alle provocazioni inglesi, sancì l’alleanza con la Francia con il matrimonio con una principessa francese, Eleonora di Guisa. Questa mossa lo portò inevitabilmente ad un nuovo scontro armato con lo zio Enrico VIII: sconfitto nella battaglia di Solway Moss, per il tradimento dei nobili scozzesi, Giacomo morì poco tempo dopo a causa delle ferite riportate (1542); due giorni prima della sua morte gli era nata una figlia, Mary, destinata ad una vita fulgida e drammatica, che segnerà in forma indelebile la storia di due nazioni, Scozia ed Inghilterra.
Per sottrarla ai pericoli di una situazione travagliata ed incerta, la madre, Eleonora di Guisa, la inviò ancora infante alla corte di Francia, dove fu allevata come conviene ad una principessa di sangue reale; all’età di 16 anni fu destinata in sposa al Delfino, Francesco II, ed al suo fianco salì al trono di Francia dopo la tragica morte del padre, Enrico II (1559). Rimasta vedova dopo soli due anni, per la tisi che divorava Francesco, Maria decise allora di rientrare in Scozia, dove la morte della madre, che fungeva da reggente in sua assenza, aveva lasciato vacante il trono. Il periodo che seguì fu, per Maria, denso di eventi drammatici; un marito (Lord Darnley), un figlio, poi l’assassinio del suo segretario personale (David Rizzio), ordito dal marito ed infine la morte violenta del marito stesso, Lord Darnley (a sinistra). Maria, accusata di essere la mandante dell’assassinio di Darnley, deve fronteggiare l’insurrezione di nobili e popolo ed è infine costretta a fuggire. Anziché rifugiarsi in Francia, come sarebbe stato più logico e naturale, decise di chiedere ospitalità in Inghilterra, alla cugina Elisabetta, che prima la fece imprigionare e la tenne prigioniera per ben 16 anni e poi la fece mettere a morte per la presunta partecipazione ad un complotto cattolico (1586). La vicenda degli Stuart sembrava destinata a concludersi lì: paradossalmente, invece, il fanciullo che Maria aveva dovuto abbandonare in Scozia, Giacomo, sarà chiamato a succedere, nel 1603, alla Regina, Elisabetta, che aveva mandato a morte la madre.
Giacomo I
Giacomo Stuart era nato il 19 Giugno 1566 ad Edimburgo ed era stato battezzato secondo il rito cattolico, vista la religione di entrambi i genitori: sette mesi dopo la sua nascita il padre venne assassinato, in una congiura in cui molti vollero vedere la mano della stessa Maria; la rivolta che ne seguì costrinse Maria, prima ad abdicare in favore del figlio, poi a fuggire in Inghilterra; Giacomo fu educato alla religione presbiteriana e fu ufficialmente incoronato re col titolo di Giacomo VI nel 1567, divenendo, dopo l’esecuzione della madre, il primo in linea di successione ad Elisabetta, essendo nipote di quella figlia di Enrico VII, Margherita che era andata in sposa al Re di Scozia.
In teoria, il testamento di Enrico VIII lo escludeva da ogni diritto dinastico, ma già prima della morte di Elisabetta i principali consiglieri della Regina avevano preso accordi con lo Scozzese che appariva l’unico candidato credibile alla successione; Giacomo, peraltro aveva dato prova di una certa abilità nel governo di un paese difficile e riottoso come la Scozia, era stato educato secondo la religione presbiteriana, non sussistevano quindi problemi di simpatie papiste. Per tutti questi motivi, un consiglio di successione nominò Giacomo Re d’Inghilterra e d’Irlanda solo poche ore dopo la morte di Elisabetta; incoronato Re col nome di Giacomo I, lo Stuart mantenne anche la corona scozzese: i due paesi rimanevano indipendenti, legati solo in unione dinastica; la fusione tra le due nazioni avvenne solo nel 1707 e dette origine al Regno di Gran Bretagna.
Giacomo I era stato accolto con favore a Londra, aveva anche avuto l’accortezza di mantenere al loro posto i principali consiglieri di Elisabetta, Robert Cecil, figlio di William, che col titolo di Lord Burghley era stato per molti anni il primo ministro della grande regina, e Francis Bacon, il grande filosofo, la mente più acuta dei suoi tempi. In tanti altri aspetti della gestione del Regno, Giacomo non dimostrò uguale buonsenso: caparbio ed ostinato in forma persino puerile, incline a spese stravaganti che misero in reali difficoltà le finanze del regno, fu spesso dominato dai suoi favoriti, primo fra tutti quel George Villiers, duca di Buckingam, che si dice fosse legato al Re da una relazione omosessuale.
Il primo problema con cui ebbe a confrontarsi (come tutti gli Stuart) fu la questione religiosa; lo scisma voluto da Enrico VIII aveva aperto le porte ad un vero marasma in campo religioso; mentre permaneva una forte minoranza cattolica, che giungeva al punto di rifiutare obbedienza alla Chiesa Anglicana ed ai suoi riti (i cosiddetti ”ricusanti”) si erano progressivamente diffuse altre frange religiose, tutte originate dal calvinismo, prima fra tutte i puritani; il puritano vedeva come fine ultimo dell’uomo il volere di Dio, il suo spirito era spinto ad una incessante attività, perché il tempo è un dono divino e non lo si può sprecare con l’ozio, accumulava guadagni, in assoluta onestà di comportamenti, ma non per spendere, perché Dio non permette i vani piaceri della carne. Il puritano anelava alla libertà dello spirito, non voleva preti tra sé e Dio, tra sé ed i Vangeli, aspirava a “purificare” (da qui il loro nome) la chiesa anglicana dai residui di papismo, primo fra tutti la gerarchia ecclesiastica; questo evidentemente collideva con l’ordinamento della Chiesa Anglicana e con gli interessi del suo capo, il Re; “No Bishop, no King” è il detto più famoso di Giacomo I, che esprime compiutamente l’importanza che la gerarchia ecclesiale rivestiva per il potere monarchico.
Giacomo tentò un compromesso, accettando alcune modifiche dottrinarie al Prayer Book (testo canonico dell’anglicanesimo), ma quando comprese che si andava delineando una deriva “presbiteriana”, cioè la versione scozzese del dettato calvinista, con cui si era scontrato proprio in Scozia, andò su tutte le furie ed iniziò una campagna di repressione del puritanesimo. Non meno difficili erano i rapporti con la minoranza cattolica, che si era rinvigorita nell’ultimo periodo elisabettiano; Giacomo, per una volta d’accordo con il Parlamento, impose una più stretta applicazione delle leggi penali contro preti, gesuiti e ricusanti. Questa mossa, ed in particolar modo le condanne capitali inflitte a preti ed esponenti più in vista, condussero le frange più accese dei cattolici ad una reazione estrema, la cosiddetta “Congiura delle Polveri”; attraverso un tunnel furono introdotti e stipati sotto l’edificio del Parlamento 36 barilotti di polvere da sparo, che esplodendo avrebbero dovuto annientare i nemici più accaniti del cattolicesimo, parlamentari e Re. La congiura fu scoperta casualmente per uno scambio imprudente di corrispondenza; le autorità, con una serie di sopralluoghi, scopersero la cantina piena di barilotti e colsero sul fatto quello che doveva essere l’autore materiale dell’attentato, un nobile cattolico, Guy Fawkes, (5 novembre 1605). Arrestato e sottoposto a tortura, Fawkes rivelò i nomi dei congiurati, pur senza rinnegare mai i motivi ideali del suo gesto, anche di fronte al patibolo.
Per anni il 5 novembre fu festeggiato in Inghilterra con falò simbolici in cui venivano bruciate le immagini di Fawkes e del Papa. Poi ci fu un’inversione di tendenza, nell’800 Fawkes divenne il protagonista di una serie di romanzi popolari; il suo comportamento coraggioso determinò una rivalutazione del personaggio, che fu infine idealizzato come simbolo di resistenza ad un regime oppressivo: i tratti stilizzati del suo volto hanno dato origine ad una maschera, apparsa nel film “V come vendetta”, divenuta poi immagine consueta in molte manifestazioni di protesta.
Ma più ancora che dai conflitti di origine religiosa, il regno di Giacomo I fu travagliato dallo scontro strisciante o, a volte, palese con il Parlamento; anche questa una costante di tutti gli Stuart.
Il Parlamento inglese è un’istituzione antichissima, specifica della realtà politica di quel Paese, non esisteva qualcosa di simile in nessun altro stato europeo: il Parlamento si fa risalire, almeno nelle sue premesse, alla “Magna Charta” il documento che Giovanni Senza Terra era stato costretto a firmare nel 1215; in realtà, la Magna Charta non fu che il prodotto di una congiura nobiliare, intesa a limitare i poteri discrezionali del monarca; il Re venne affiancato da quel momento da un Consiglio della Corona, costituito dai principali feudatari e titolato a decidere in materia di imposte; lentamente e solo in epoche successive, questo organismo si ampliò includendo rappresentanti delle varie contee e “boroughs”(circoscrizioni amministrative): ad esempio, nella composizione del “Model Parliament” convocato nel 1295 da Edoardo I, ogni contea designava due cavalieri, ogni borough due borghesi, ogni città due aldermanni; pochi anni dopo, con il regno di Edoardo III, il parlamento fu diviso in due camere separate, una camera alta che includeva nobiltà ed alto clero, ed una “House of Commons” che includeva cavalieri, borghesi e cittadini. Quest’ultima non era un organo propriamente democratico, almeno secondo i nostri criteri, ogni entità sceglieva i propri rappresentanti secondo regole proprie, spesso la scelta dei delegati veniva imposta dal feudatario o dai possidenti locali per meglio controllare l’assemblea, ma era comunque uno strumento importante attraverso cui si poteva esprimere la nazione.
La convocazione del Parlamento era a discrezione dei sovrani, che potevano tranquillamente governare in assenza e ricorrevano al Parlamento solo quando si presentava la necessità di levare nuove tasse, oltre a quelle già concesse, spesso a vita, in genere per fronteggiare le esigenze di guerre o operazioni militari; i parlamentari vedevano però le cose in modo differente, interpretavano l’assemblea come l’occasione di rappresentare all’esecutivo tutte le lamentele (“grievanches”) del Paese e di ottenere soddisfazione. In genere si giungeva ad un compromesso, un do ut des, le imposte venivano votate a fronte dell’accoglimento di un certo numero di rimostranze. Quando l’accordo non si poteva raggiungere, il Re scioglieva il Parlamento, cosa che gli Stuart fecero spesso e volentieri.
Tutti i sovrani di questa dinastia sono passati alla storia come despoti o fautori del più bieco assolutismo: in realtà i veri despoti erano stati i Tudor, che avevano governato l’Inghilterra a proprio piacimento, ma attraverso il Parlamento, che sapevano manipolare per i loro scopi, non contro il Parlamento come cercheranno di fare gli Stuart. Giacomo I non era animato da cattive intenzioni, ma era convinto di poter regnare per diritto divino, non si rendeva conto di essere uno straniero, mentre i Tudor erano regnanti inglesi, soprattutto mancava a lui come ai suoi successori la capacità di cogliere gli umori della gente, che è la prima qualità di un buon politico. Giacomo I era un uomo molto colto, forse è stato il più colto dei Re inglesi; protesse Shakespeare nell’ultima fase della sua vita, promosse la traduzione in inglese della Bibbia (la “Bibbia di Giacomo”), aiutò artisti e letterati: purtroppo la sua cultura, lungi dall’aiutarlo a capire la gente, lo induceva ad una petulante contestazione degli avversari, a ricorrere alla teoria anziché ad un confronto su fatti concreti. Giacomo convocò quattro volte il Parlamento, sempre per chiedere nuove imposte, destinate a coprire i buchi di bilancio aperti dalla sua eccessiva prodigalità, ma tutte le volte lo sciolse rapidamente per non accettare il confronto sulle grievanches; in assenza del Parlamento, si governava con mezzucci, piccole imposte sui beni di lusso, vendita delle cariche o dei monopoli, tutte misure di poco rilievo, ma che non potevano che far infuriare i parlamentari alla sessione successiva.
Questo mediocre tran tran venne interrotto dalla grande politica internazionale: nel 1618, dopo la defenestrazione di Praga, scoppia la Guerra dei Trent’anni. La Boemia, in rivolta contro gli Asburgo, offrì la corona del Regno a Federico V del Palatinato (a sinistra), capo dell’Unione Evangelica Tedesca; Federico resistette pochi mesi sul trono di Boemia (“Re di un inverno”), poi, sconfitto dagli eserciti della lega cattolica alla Montagna Bianca (20 Novembre 1620) fu costretto alla fuga. La vicenda non poteva lasciare indifferente Giacomo, poiché Federico era anche suo genero, avendo sposato la figlia dello Stuart, Elisabetta; così Giacomo fu costretto a convocare il Parlamento, dopo sette anni di chiusura, per richiedere i fondi necessari ad affrontare la nuova situazione internazionale. Il Parlamento votò immediatamente un primo sussidio, ma poi pretese di intervenire sulla questione dei monopoli come anche sulle trattative condotte dal Buckingham con la Spagna, in merito alle nozze dell’erede al trono, Carlo, con una principessa spagnola. Giacomo, infuriato, replicò che l’assemblea non poteva intervenire nel merito e sciolse il Parlamento.
La situazione in Germania precipitava; il 6 settembre 1622 la capitale del Palatinato, Heidelberg, cadeva nelle mani degli imperiali e Federico V fu costretto a fuggire in Olanda; non rivedrà mai più i suoi possessi ereditari. Giacomo riponeva ogni speranza nell’aiuto o quanto meno nella mediazione della Spagna, una volta concluse le trattative matrimoniali; la maldestra condotta politica di Buckingham (immagine a destra) fu all’origine del fallimento del tentativo inglese e Giacomo, isolato politicamente in campo internazionale, dovette rivolgersi alla Francia concludendo frettolosamente le trattative per le nozze di Carlo con Enrichetta Maria, ultima figlia rimasta nubile di Enrico IV. Al tempo stesso, fu costretto dalle ristrettezze finanziarie a riconvocare il Parlamento: fu l’ultimo atto del regno di Giacomo, che morì l’anno seguente (1625), lasciando al figlio una pesante eredità: un virtuale isolamento in campo internazionale, un favorito, il Buckingham, di cui Carlo subiva supinamente l’influsso, osteggiato pesantemente dai Comuni, il difficile confronto con la crescente marea puritana, ma soprattutto un conflitto aperto con un Parlamento agguerrito e deciso a far sentire il suo peso nella conduzione politica dello stato.