I libri della mia vita
Primo Conti (1900-1988) - Ritratto di Luigi Pirandello -1928
Pirandello: il fascino della follia.
L’adolescenza è una strana stagione, più o meno per tutti.
Un periodo confuso, emozionante, ricco di contrasti e incertezze. Bizzarre idee fanno capolino, progetti fantastici sembrano a portata di mano e sbalzi d’umore imprevedibili lasciano sgomenti e perplessi.
Quel passaggio obbligato dall’area infantile a quella degli adulti è faticoso e pieno di incognite: non si appartiene più al mondo infantile e quello degli adulti sembra ostile e oscuro.
Sicuramente poi ci sono anche adolescenti meno tormentati e pazzerelli, io però non ho fatto parte di quella categoria.
Ricordo quel tempo, il peggiore della mia vita forse, dove i pensieri mi guizzavano in testa come pesci sfuggenti e dove la mente, che voleva ferocemente capire tutto e spiegare ogni cosa, si ritrovava spesso ingarbugliata come un gomitolo tra le zampe di un gatto.
Per fortuna c’era Pirandello.
Eh sì, averlo incontrato è stata una salvezza.
Il libro galeotto fu “Uno nessuno e centomila”, una lettura che sbaragliò i confini del mio mondo e trasformò in fascino la paura della follia.
Mi sono identificata in Gengè, il protagonista, immediatamente e ho tirato un respiro di vero sollievo scoprendo che “le stranezze del pensiero” le “tortuosità” di certe domande erano condivise anche da adulti importanti e accreditati come il suo creatore.
La storia non sembrerebbe a lieto fine: il nostro antieroe, che parte da una situazione di vita agiata, tranquilla, assolutamente normale, dove ogni cosa è al suo posto e ha un nome ben preciso, giunge a una totale disgregazione e finisce in manicomio.
Detto così sembra una catastrofe, eppure io ricordo che anche alla mia prima lettura e, benché non mi fosse chiaro tutto ciò che compresi nelle mie riletture in altre età, quella discesa distruttiva fino all’alienazione, l’ho vissuta come vittoria e conquista di libertà assoluta.
Gengè comincia a mettere in discussione ogni cosa, iniziando da se stesso e cercando di capire chi è e com’è visto dall’altra parte di sé.
Partendo da un commento rivoltogli dalla moglie - sul naso che gli pende un po’ a destra - inizia a guardarsi fuori e poi dentro con i suoi occhi e con gli occhi degli altri fino a decidere che non esiste il Gengè in cui credeva, ma ne esistono centomila e infine nessuno.
Scopre che ogni “altro” crea nel guardarlo un Gengè a suo piacimento e giudizio, un Gengè che lui non conosce e che non appena tenta di distruggere, spiegandone gli equivoci, viene perentoriamente deriso.
Una storia pazzesca e magnifica.
Riga dopo riga, stregati dalle riflessioni del protagonista, lo seguiamo come il pifferaio magico; pensiero dopo pensiero, scoperta dopo scoperta, ogni certezza si sbriciola, ogni conclusione ha il suo contrario.
Durante questa lettura il mondo che fino allora avevo conosciuto diventava sempre più estraneo, lontano, poi piccolo, poi enorme fino a scoppiare come il panciotto di un uomo troppo grasso.
Capisco che oggi, nel 2016, queste impressioni appaiano ridicole.
Il nostro mondo è sparito da un pezzo, certezze non ce ne sono più e…… Dio è morto, Marx è morto, Freud è morto…. e così via.
In quegli anni invece, ancora non avevo raggiunto questa fluttuabilità dell’essere e, pur in grande disagio per la confusione e le pressanti domande che mi rivolgevo, continuavo a dibattermi tra i dogmi familiari e la dolorosa confutazione degli stessi.
Quando il destino mi fece incontrare Pirandello trovai ben più di una zattera di salvataggio.
Le incertezze adolescenziali sulla propria identità, quella paralizzante sensazione di inadeguatezza, le difficoltà di relazionarsi, lo scoprire come gli altri colgano atteggiamenti e impressioni su di noi e a noi sconosciute….. di tutto questo mi pareva, sebbene in forma diversa, che il libro scoperto ne raccontasse.
Queste infinite versioni dell’io, e infine di ogni cosa, portavano alla conclusione che la certezza è una parola bandita, una mera illusione e un inutile sforzo la sua affannosa ricerca.
E non importa se alla fine c’è la solitudine e la follia.
Una volta imboccato quel cammino non si può tornare indietro non si può più “far finta che”.
Pirandello la follia la conosceva bene: per anni visse accanto alla moglie Antonietta, affetta da una pesante forma di nevrosi che anno dopo anno si aggravò sempre di più rendendogli la vita un inferno.
L’osservazione quotidiana dello sconcertante comportamento della moglie che spesso si esplicava in una forma ossessiva di gelosia, la fatica di un lavoro che non amava (in seguito a rovesci di fortuna insegnò per anni, mentre avrebbe voluto ritirarsi in campagna a scrivere) lo portarono a riflessioni e considerazioni che il suo genio trasformò in capolavori artistici ancora oggi molto attuali.
Il mio entusiasmo per il linguaggio, le idee, le incalzanti domande dell’autore mi spinsero a leggere tutto quello che mi era possibile acquistare a quel tempo.
Furono soprattutto le sue opere teatrali a incantarmi, tutte senza eccezione.
Il coesistere di infinite realtà che generano infinite situazioni frantumando la visione di un’unica fine, un unico significato, un unico io, temi cari all’autore, sono presenti e amplificati nella recitazione.
Così è se vi pare, La signora Morli uno e due, Il berretto a sonagli, Sei personaggi in cerca d’autore, Stasera si recita a soggetto, Enrico IV……in tutte l’identità non è mai certa e definitiva, sempre gli esseri si trasformano, moltiplicano, cambiano secondo gli occhi che li guardano, gli orecchi che li ascoltano, oppure scelgono la follia come rifugio a un’insostenibile realtà.
In tutto il suo teatro, che spesso ha preso il via dalle novelle trasformate per il palcoscenico, le emozioni, le sensazioni, le visioni, si spezzano, si ricompongono e sempre seguendo il filo tenace delle parole dell’autore.
Il discorso è come una corda fortissima alla quale la nostra mente si attacca e tanto più la narrazione si complica, tanto più ci attacchiamo a quella corda, sicuri che solo abbandonandosi a lei non ne perderemo il messaggio. Inizialmente il teatro di Pirandello non fu compreso e scandalizzò, e non è difficile capirne il perché.
Rompeva con vigore, non solo con le precedenti modalità di recitazione, ma con inarrestabile logica, attaccava i luoghi comuni, le idee dei “benpensanti”, l’ipocrisia del falso onore, le convenzioni, le apparenze….
Come per tutti gli autori che ho molto amato e ai quali devo moltissimo, anche con Pirandello stabilii un rapporto strettissimo fino a farlo diventare una persona di famiglia e, in quegli anni lontani, un maestro al quale ricorrevo per chiarirmi ogni volta che mi sentivo smarrire nell’incertezza del tutto.
Potevo stabilire questo rapporto immergendomi nei suoi scritti, imparandone la musica, respirandone l’atmosfera e il tempo.
Fu così che sebbene acerba e giovanissima compresi per osmosi il suo pensiero e la sua ricerca, il suo tormento dell’insensatezza del vivere e il vedere nella follia una possibile fuga in una terra inespugnabile per chi non la vive.
Ammiravo la sua intelligenza raffinata e rigorosa e condividevo e comprendevo la sua profonda tristezza. Il suo “umorismo” ben disseminato nei suoi scritti, veste la sua tristezza di un leggero sorriso mai di una risata.
Le parole che seguono, che lui scrisse per una brevissima autobiografia, richiestagli da Filippo Sùrico direttore del periodico Le lettere e pubblicata nel numero del 15 ottobre 1924, spiegano chiaramente il suo pensiero sulla vita e sulla sua arte.
“Io penso che la vita è una molto triste buffoneria, poiché abbiamo in noi, senza poter sapere né come né perché né da chi, la necessità di ingannare di continuo noi stessi con la spontanea creazione di una realtà (una per ciascuno e non mai la stessa per tutti) la quale di tratto in tratto si scopre vana e illusoria.
Chi ha capito il giuoco, non riesce più a ingannarsi; ma chi non riesce più a ingannarsi non può più prendere né gusto né piacere alla vita. Così è.
La mia arte è piena di compassione amara per tutti quelli che si ingannano; ma questa compassione non può non essere seguita dalla feroce irrisione del destino, che condanna l'uomo all'inganno.
Questa, in succinto, la ragione dell'amarezza della mia arte."