René Magritte (Lessines, B, 1898 – Bruxelles, 1967) – La Page Blanche
La pagina bianca, l’inizio dell’avventura
di Giorgio Cortese & Cesare Verlucca
Cari amici,
vi abbiamo recentemente scritto la nostra solita lettera, a nome di Cesare, perché spiegasse come qualmente il nostro scrivere a due come se fossimo uno, è cosa difficile assai, per cui stavolta scrivo io stesso, Giorgio Domenico Cortese, et pour cause.
La colpa, infatti, è di quell’incredibile vulcano casalingo il quale, tanto per studiare del nuovo, mi ha detto che invece di andare a cercare gli argomenti più svariatamente inutili, meglio sarebbe che io provassi a dedicarmi alla scrittura seria, e cioè magari a inventare un libro giallo che potremmo anche scrivere insieme. E, a giustificare la richiesta, mi ha detto che lui, di libri gialli fatti con un amico, ne ha scritti dieci, cinque con uno e cinque con un altro amico, éditi poi, non da una delle case editrici in cui da una vita è coinvolto ai vertici, ma cercando e trovando due diversi editori.
Facile quindi, per uno che sa scrivere, addirittura senza dover pensare, perché lui sostiene, e non so come faccia a crederci lui stesso, che gli basta prendere in mano una biro, o sedersi di fronte a una macchina per scrivere o a un computer, e non deve pensare a niente, perchè le mani viaggiano per conto proprio, e lui prenderà atto a posteriore del testo stilato, correggendo gli eventuali refusi.
Cosa potevo fare per uscire dell’impasse: se non stilare una pagina bianca come inizio dell’avventura?
Se avete tempo, leggete anche voi, insieme a lui.
Caro Cesare,
cos’è per te una pagina bianca? Probabilmente un semplice foglio intonso che aspetta di essere riempito con parole che trasmettano le emozioni e cioè, da sempre, un’iniziale contemplazione della purezza che nello stesso istante innesca il desiderio di profanarla, per lasciare traccia del nostro passaggio in questa valle di lacrime.
Questo dipende da noi nel disporre dei simboli, le nostre parole per trasmettere cosa si voglia far leggere agli altri, poi se non lo facciamo immediatamente, o se non riusciremo mai a farlo, non è paura nello scrivere, ma mettere nero su bianco i nostri pensieri, sia su un foglio di carta che sullo schermo di un computer, per iniziare l’avventura come un qualsiasi signor Bonaventura.
Iniziare a scrivere significa proprio oltrepassare la soglia del foglio bianco, incidere sulla carta, perché scrivere deriva dal latino scribere, che etimologicamente vuole dire incidere; lasciare impressi i segni. Possiamo quindi immaginare l’atto dello scrivere come un atto scultoreo: il legno, la roccia, il marmo, rendono meglio la fatica di questa scrittura iniziale e, di conseguenza, l’attenta valutazione di cosa incidere.
Noi scriviamo su un foglio bianco. Il bianco è un colore superiore perché assomma tutti i colori, mentre noi, che scriviamo (almeno io, che scribacchio solo…), siamo soltanto una macchia di simboli che infrangono il colore immacolato.
Poi, se lo scritto non piace, appallottoliamo la carta per lanciarla nel cestino che accoglie i refusi, o spegniamo lo schermo del computer (dove avremmo anche potuto correggere e riscrivere sopra gli errori eventuali), e l’incanto svanisce, facendo sparire quel brivido di adrenalina che abbiamo avvertito prima di scrivere e poi l’insoddisfazione che tutto sia finito.
Ma dopo essere riusciti a macchiare il foglio, la sua inarrestabile scomparsa provoca un dispiacere, sempre, ogni volta. Del resto, le storie che leggiamo allietano e conquistano proprio perché leggendole troviamo sentimenti ed emozioni che ci mettono in sintonia con lo scritto.
Le parole che scriviamo si susseguiranno sulla pagina, una dietro l’altra, formando una catena via via più lunga e stringente, tutto diventerà progressivamente legame, passando per le strettoie dei congiuntivi. Poco per volta, come abili tessitori, daremo una trama al racconto, con l’ordito delle parole e le pagine che si accumuleranno tracciando un solco vergato di lemmi.
Vergato, ho detto, con il significato di tracciare linee parallele come nello scrivere a mano una volta nelle pergamene, parola che deriva da virga, verga, bastone. Una volta lo scriba tracciava impalpabili linee, prima di intingere il pennino e disegnare le lettere, in modo che le sue righe fossero perfettamente dritte, come i quaderni di scuola con le righe prestampate.
Il gesto del segnare queste linee, il vergare, è sempre stato talmente caratteristico dello scrivere a mano che il suo nome è passato a intendere lo scrivere a mano stesso, non senza una certa solennità.
Mi immagino lo scrivere come tracciare di continuo dei solchi, dritti a ogni riga dove io, come un mulo, trascino l’aratro condotto da Cesare che guida il giogo con la semina delle parole.
Alt, caro Giorgio, ferma la mula!
Il tuo testo continua per alcune altre righe, ma il tuo chiaro richiamo nei miei confronti mi obbliga a esprimerti un giudizio convinto: il tuo testo non solo è leggibile, ma è anche suggestivo e i pochissimi colpi d’unghia che gli ho inserito, sono soltanto stilati nel nome dell’amicizia.
Questo mi porta a insistere su quanto richiestoti: tu scrivere sai più di quanto continui a negar di sapere: cercare qualche argomento narrativo da fare insieme, se io l’ho fatto tante volte nel passato, non vedo perché non farlo con te almeno una volta nel futuro.
Cesare