Aggiornato al 03/12/2024

Non sono d’accordo con quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo

Voltaire

Eva Gonzales (Parigi, 1849 – 1883) – Le Réveil (1876)

 

Una difficile esperienza

di Marialuisa Bordoli Tittarelli

(seguito)

 

C’erano dei momenti di pausa che si presentavano all’improvviso e allora il tumulto di quello che stava vivendo si zittiva di colpo e lei si ritrovava diversa, quella di prima insomma, e guardava quella “lei” di adesso con sbigottimento.

Possibile che fossero trascorsi tutti quei mesi a una velocità anomala, in un mondo estraneo, con sensazioni sconosciute, con occupazioni, preoccupazioni inimmaginabili sette mesi prima.

Sette mesi. Da non credere.

La signora Persi si rigirò nel letto, aprì gli occhi e scoprì che era mattina, una bella mattina di sole che già inondava la stanza.

Si era svegliata con il pensiero del “prima” e per pochi attimi il dolore, l’ansia, la paura, l’incertezza, la pena erano scomparsi.

Era rimasta sospesa nel limbo dell’assenza di ogni cosa, ma era durato poco, pochissimo.

Al risveglio cominciava la fretta, la corsa, la tensione, il dolore fisico.

C’era il quotidiano appuntamento all’ospedale per la radioterapia, i tempi erano stretti, il luogo da raggiungere lontano, la preparazione lunga.

La terapia comportava coraggio, attesa, sofferenza.

Il tragitto in macchina serviva per cercare di convincere il cervello che tutto sarebbe andato bene, non sarebbe soffocata sotto la stretta, dura maschera che le avrebbero applicato incastrandola al lettino.

Gregory guidava calmo e silenzioso rispettando la sua concentrazione e la sua segreta preparazione.

Da parte sua viveva sbigottito questo “incidente” insospettato che era arrivato alla fine di un’estate radiosa, luminosa, serena.

Una mattina qualsiasi con ancora le piante verdi e l’aria mite, il profumo dell’ olea fragrans, ultimo fiore dell’estate, che riempiva l’aria, la parola cancro era arrivata tra di loro odiosa, invidiosa della loro felicità e bellezza.

Come la fata cattiva della Bella addormentata si era presentata senza invito e aveva scagliato la sua maledizione lasciando dietro di sé incredulità e sgomento.

La signora Persi aveva reagito in modo curioso a quella notizia.

Dopo il primo attimo di forte incredulità e rifiuto, la rabbia aveva avuto il sopravvento e aveva passato la sera camminando incessantemente per tutta la casa urlando il suo “No” forte chiaro e furioso.

Tempo dopo le era tornata in mente una scena del film di Bergman, Fanny e Alexander, dove la madre dei due bambini, rimasta vedova all’improvviso per l’infarto del marito, passa la notte camminando avanti e indietro per tutto il lungo soggiorno urlando il suo dolore senza ritegno.

Era molto giovane quando l’aveva visto e la scena di quel dolore urlato senza riserbo, ma in maniera primitiva e antica, l’aveva sconvolta e non l’aveva capita.

Ora era in grado di comprenderla benissimo e di vederne l’aspetto terapeutico.

Infatti, dopo tutto quel camminare protestando contro l’avverso destino, aveva buttato fuori la rabbia e la paura di qualcosa di minaccioso che stava aggredendola.

Si era ritrovata più calma, serena e ottimista.

Si era scoperta capace di affrontare la lunga serie di esami, prove, ricerche, visite, attese, incertezze, diagnosi, con una tranquillità che non sapeva di avere.

Si era avventurata in un altro mondo che aveva altre regole, percorsi tortuosi, a volte molto difficili, dove si parlava una lingua tutta diversa.

Un luogo dove si lottava non solo contro le insidie del male e del dolore fisico, ma anche contro il tentativo costante e subdolo di deprivare la persona della sua identità, relegandola a numero, a un essere inerme e inetto, manipolabile, rimpicciolito a “paziente”, un qualcosa che è un corpo imperfetto da trattare, operare, gestire, un corpo senza mente, che non può opporsi, pena la severa disapprovazione della schiera di addetti convinti di sapersene occupare con abilità e certezze indiscutibili.

Aveva scoperto che per motivi di privacy era diventata un numero a tutti gli effetti, un numero che le fu consegnato su un piccolo pezzo di carta, un pizzino insomma, da imparare a memoria perché da quel momento esso la rappresentava.

L’intenzione era buona certo, ma l’effetto sgradevole.

- Quasi, quasi me lo faccio tatuare sul braccio- aveva detto a Gregory una mattina che non aveva saputo rispondere all’appello perché ancora non si era abituata.

Poi la sua natura infantile aveva preso a giocarci su con quel numero per sdrammatizzarlo e annullarne la freddezza.

Nella sala d’attesa era difficile chiacchierare con i compagni di sventura, tutti numerati come lei, ma a causa di quei numeri giustamente asettici e impenetrabili.

C’era stato poi il problema degli addetti ai lavori.

La paura, anzi, il terrore che provava entrando nella stanza della radioterapia, di sdraiarsi su quel lettino duro, di farsi seppellire sotto una maschera/armatura che la fissava con otto ganci laterali costringendola ad una immobilità assoluta, occhi chiusi, bocca chiusa, uno spazio aperto per il naso – doveva pur respirare – spalle costrette dentro l’armatura le avrebbe provocato una crisi di panico tremenda se non avesse avuto la fortuna di essere assistita da un angelo in carne ed ossa che per tutto il tempo le aveva parlato chiamandola per nome e non per numero, e invitandola alla calma, che tutto sarebbe andato bene, che il tempo sarebbe passato in fretta che avrebbe respirato tranquilla, che anche se l’avessero lasciata sola l’avrebbero vista da una telecamera.

Così anche abbandonata al buio di una stanza estranea, legata e in un certo qual modo imbavagliata, la voce che arrivava forte e chiara con parole incoraggianti e sensibili, aveva reso quell’esperienza pesante un momento di orgogliosa vittoria sulla paura e il panico.

Purtroppo però il giorno successivo l’angelo venne sostituito, eliminato dalle rigide procedure che privilegiano la rotazione del personale anziché il rapporto confortevole per il paziente.

Niente parole di incoraggiamento, silenzio assoluto.

In quegli attimi di isolamento aveva cominciato a contare per distrarre il cervello e convincerlo che tutto andava bene, che doveva restare calma e respirare tranquilla. Fra un attimo la voce degli operatori si sarebbe fatta sentire e la sensazione di isolamento e abbandono sarebbe scomparsa.

Ma ahimè nessuna voce umana venne in suo soccorso. Il microfono era rotto.

Un’angoscia terribile aveva cominciato ad alterare il respiro. Se avesse potuto avrebbe gridato, ma la bocca sotto la maschera emetteva solo mugolii. Cominciò a battere i piedi e a muovere le mani in modo convulso. Finalmente arrivarono i soccorsi a liberarla.

Le ci volle tempo per riprendere a respirare in modo normale e per rassegnarsi nuovamente al trattamento.

Ogni mattina il rito si ripeteva spiacevole e inesorabile e lei si domandava se tutta quell’ansia che provava non l’avrebbe fatta ammalare di più anziché guarirla.

C’erano poi tutti gli effetti collaterali che giorno dopo giorno aumentavano la sua sofferenza.

Ogni giorno si domandava se ne valeva la pena.

Pagare un prezzo così alto in dolore fisico per allungare di quanto la sua vita?

Certo vivere le piaceva ancora. C’erano cose così belle da guardare, emozioni da provare, affetti da condividere.

C’era però anche la pena di vedere soffrire le persone che l’amavano e questo la straziava.

Gregory che diventava sempre più taciturno e triste, che la guardava di nascosto, che non riusciva a nascondere la sua preoccupazione.

C’era l’ansia di sua figlia che arrivava ogni venerdì sera in aereo, trafelata, pallida, tenerissima e incapace di celare la pena.

Tutto questo dolore delle persone che amava era il prezzo più alto da pagare.

Era davanti a queste riflessioni che si chiedeva se non sarebbe stato meglio mollare tutto e finire in fretta, abbandonarsi alla malattia e tanti saluti.

Poi si riscuoteva da queste trovate apparentemente coraggiose e si sgridava seccata per aver drammatizzato.

D’accordo, aveva un cancro, stava faticosamente lottando, ma il mondo era pieno di gente che aveva il cancro e faticosamente lottava e spesso vinceva.

- Forza, tirati su e vai alla tua fatica quotidiana - disse ad alta voce, mentre scendeva dal letto e decisa iniziava la lunga preparazione per la quotidiana terapia in ospedale.

La fretta, le mille cose da fare cancellarono di colpo pensieri mesti e depressogeni.

- Finché non è finita non è finita - si ripeté mentre chiudeva la porta di casa.

Questa volta in auto si concentrò sui compagni di avventura, immagini ormai familiari e verso le quali provava simpatia e perfino affetto.

Era confortante condividere apprensioni, timori, paure. Sentirsi insomma parte di un gruppo, quello dei malati d’accordo ma non dei reietti.

Per ora transitava in questa nuova terra con altre regole e altro sentire.

Il mondo dei sani era così duro, ostile, forte; ti faceva sentire sbagliato, imperfetto, debole, non efficiente.

Nel nuovo gruppo erano i sani invece ad essere sbagliati, così aggressivi, duri, sospettosi, interessatissimi soprattutto a scoprire come ci si accorgeva di cadere preda di un male.

Domande che si capiva benissimo erano fatte con le dita incrociate dietro la schiena a mo’ di scongiuro.

Erano così stancanti i sani, eccezion fatta si capisce per gli amici veri, quelli che senti profondamente affezionati e che timidamente si informano con apprensione malcelata dietro a voci che vorrebbero essere sdrammatizzanti.

La realtà era un’ovvietà.

La malattia cambia il modo di sentire, di essere, rende più delicati, fragili, vulnerabili.

I malati sono preoccupanti, ricordano la fallibilità umana, l’imprevedibilità della malattia, il rapido e improvviso giro della fortuna.

Come non comprendere che in fondo era al solito la paura che rendeva i due mondi così distanti?

(continua)

Inserito il:27/03/2019 20:49:36
Ultimo aggiornamento:12/04/2019 20:02:39
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