Aggiornato al 27/04/2024

Non sono d’accordo con quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo

Voltaire

Magdalena Frohnsdorff  (Born in Poland - living in Riyadh, Saudi Arabia) - Tabuk, Saudi Arabia (2019)

 

ARABIA FELIX (1/3)

di Gian Paolo Lozej

1.

Mokhtar, puro beduino, accucciato contro la ruota della mia Range Rover, scruta l’orizzonte. La luce obliqua del pomeriggio intaglia lo spazio che ci circonda e dà finalmente rilievo al paesaggio. Per me, geologo mercenario ancora insensibile ai messaggi sottili del deserto, lo scenario di questo squarcio d’Arabia sembra piuttosto scontato.

Dalla posizione di vantaggio della collina su cui siamo saliti, la strada sottostante è un nastro nero sottile nella sabbia ocracea della piana di Tabuk. I rari convogli di camion aggiungono una dimensione di lentissimo movimento a un panorama inesorabilmente statico: punti sparsi sul tratto qui visibile dell’unico viadotto moderno del nordovest dell’Arabia, la strada che si snoda per circa 800 chilometri tra Medina e il confine giordano.

Mokhtar osserva fisso verso il sudovest, dove l’asfalto segna una curva ampia che pare sfiorare il margine delle catene montuose all’orizzonte. “La fascia tettonica che separa lo scudo arabo da quello africano, la culla del Mar Rosso … “.

Mokhtar si alza. Il vento scolpisce la sua figura di principe antico: la tunica bianca, i lembi del ghutra avvolto alla testa, il profilo tagliente accentuato dalla grigia barba appuntita, il gesto solenne del braccio teso verso una direzione definitiva.

 

2.

Mokthar è la mia guida, il mio autista, il mio dio protettore nel deserto. Abbiamo viaggiato insieme per mesi ormai, coperto insieme vaste regioni d’Arabia, dormito accanto notti afose e gelide. Vantiamo circa cinquanta parole in comune: una ventina in arabo (mie) e una trentina in inglese (sue) sono gli ingredienti della nostra rara conversazione. Ma la nostra comunicazione è suprema: Mokthar capisce sempre cosa intendo fare, dove voglio andare; io accetto sempre i suoi itinerari, rispetto sempre le sue decisioni.

Askaria … mahattat turki” sono le parole che accompagnano il gesto di Mokthar. Binocolo e mappa mi aiutano a capire e, come sempre, confermano le sue informazioni: nella direzione indicata ai piedi delle montagne, un posto di blocco di una zona militare off-limits e, poco lontano, i resti di una stazione dell’antica ferrovia dell’Hejaz, la gloria del tardo impero ottomano.

Lo sguardo attento del beduino segue il mio dito che traccia sulla carta il percorso di un tratto ferroviario nella zona proibita, tra le montagne a sud della piana desertica di Tabuk. “L’ultimo spezzone rimasto della linea imperiale che agli inizi del secolo collegava Damasco e Istanbul alla città sacra di Medina …”.

Mokhtar stacca sillabe gutturali … “Al-Dih-sad … Ad-Dhar-al-Hamrah…”, con cadenza solenne recita nomi di stazioni abbandonate lungo il tracciato di quasi 300 chilometri: “Madah-in-Sahlin                           … Death City”, mormora misterioso alla fine, il termine della ferrovia sulla mappa.

Memorie di Lawrence d’Arabia, richiamo delle arenarie cambriane.

Of course, we’ve to go thru ...”.

Decisione presa, piano concepito in silenzio: immediato ritorno a Tabuk, per cibo, acqua e carburante; poi, attesa della notte per aggirare il posto di blocco. E via.

 

3.

È quasi buio ormai. Protetti nel greto del wadi, a sud della curva della camionale da cui diverge l’accesso alla zona militare, ci prepariamo come ogni altra sera a mangiare in silenzio.

Mokhtar stende il panno per terra. Da un lato, il fornellino scalda l’acqua del chai. Mokthar disfa i nodi del suo canovaccio che contiene cartocci di datteri, cacio duro e olive. Io ho già estratto dal contenitore nel retro della Range Rover qualche scatoletta. Il cibo è disposto sul panno, per terra.

Ci dividiamo il pane piatto e rotondo, sottile senza mollica, comprato a Tabuk, ancora profumato di forno. Pilucchiamo qua e là, rispettando i rituali di offrire e assaggiare cortesemente, concentrandoci comunque sui cibi rispettivamente familiari. Seduto per terra con le gambe incrociate, mi sento sempre goffo e a disagio, e invidio l’elegante compostezza naturale di Mokhtar.

La luce della lampada a gas materializza lo spazio che ci contiene. Rari camion passano lontani. Il bicchiere di chai è un elisir di diffusa tranquillità. La Range Rover provvede riparo dalla solita brezza che si alza al limite della notte. “Il respiro della notte …”.

Ma Mokhtar mi indica un angolo del cielo, appena macchiato da una vaga balugine. “Hilal …”, uno spicchio di luna sta per sorgere: è già l’ora di muoverci.

 

4.

Mokhtar prende il comando delle operazioni, io divento un accessorio di viaggio. Mokhtar possiede l’istinto della direzione, una sensazione tattile del terreno su cui ci muoviamo, il presentimento di ciò che ci circonda.

Risaliamo il wadi lentissimamente, marce ridotte, fari spenti. Di tanto in tanto, inaspettatamente, Mokhtar spegne il motore; talvolta esce dalla Range Rover, sparisce furtivo, ritorna senza preavviso.

Il tempo perde dimensione, lo spazio è solo rumore. Quello basso di fondo del motore è diffuso come il vento, scontato come il respiro: i tonfi delle pietre smossi dalle ruote sono colpi pesanti nel cuore; i richiami di animali lontani, nel silenzio dell’attesa di Mokhtar, suonano come echi di incubi dimenticati.

 

5.

Mi pare di cogliere il sorriso nel profilo del beduino. Mokhtar mormora qualcosa: dal wadi principale, lungo il quale procediamo lentamente verso ponente, tagliamo improvvisamente al sud, in un tributario dentro una gola rocciosa.

Il motore sembra cantare, adesso. Un procedere irregolare, ma libero, attorno a sipari intagliati nei rilievi in cui ci addentriamo. La luna gioca a teatro. Il vento irrompe aggressivo dai finestrini, diventa un compagno di viaggio.

Ma il terreno si fa difficile, il fondo eccessivamente pietroso. Sballottato inesorabilmente, mi sento come protagonista di un viaggio irreale, in un abitacolo spinto in traiettorie indecifrabili.

Non ricordo di essermi finalmente addormentato.

 

6.

Ancora rincantucciato tra sedile e portiera, il freddo del mattino mi sveglia da un sonno nero, privo di sogni. “Mokhtar non c’è, già fuori in ricognizione …”.

Mi stiro intirizzito, indolenzito. Il mio veicolo bianco riposa inclinato tra pareti rosa di arenaria, tagliate sopra dal cielo color perla del primo mattino. Scendo a prendere atto della situazione.

Uno pneumatico a terra, l’acqua del chai già su a bollire. Mokhtar, sopra un cucuzzolo a distanza, sembra una capretta bianca. “Un altro giorno di lavoro …”.

 

7.

Dove siamo? Fissare la nostra posizione sulla mappa è la mia priorità operativa. Ma non facile: la regione è una vasta cuesta incisa in un reticolato di canyon.

Dal punto di osservazione di Mokhtar, le lave basaltiche nere sopra le arenarie provvedono un riferimento generale al sudovest. Occorre però ritrovare la ferrovia, e seguirla fino a che non sia in grado di localizzarmi con precisione.

Mokhtar intuisce il problema, anche se il motivo gli è oscuro. Per lui, la mia relazione con carte e strumenti è misteriosa, come per me è magico il suo rapporto con lo spazio che lo circonda. La bussola che sto usando, per esempio. Mokhtar la riguarda con curiosità e ammirazione, ma non capisce perché mi sia così indispensabile.

Mafi askaria …”, non ci sono soldati né istallazioni militari, Mokhtar mi informa. Poi, prima che io apra la bocca, mi segnala dove ci dirigeremo per incontrare l’antica strada ferrata.

8.

Mokhtar non viaggia mai tra due punti lungo una traiettoria razionalmente definibile. I suoi percorsi sono dettati da punti di riferimento strettamente personali, in genere dei particolari del terreno per me del tutto insignificanti: un meandro del wadi, un angolo nel profilo del pendio, …. Sono questi dei segni speciali che spesso ricattura dal ricordo di un viaggio nella zona, magari di quando era ancora bambino; o segni che misteriosamente sceglie tra mille, per rimanere impressi per sempre nella sua straordinaria memoria visiva. Il percorso di ogni suo tragitto, comunque, rimane per me sempre incomprensibile.

Così, anche adesso, lascio a Mokhtar guida e navigazione, e mi concentro soltanto sullo svolgersi dello scenario geologico: il susseguirsi di formazioni di arenarie, il ripetersi di strutture e laminazioni, il sovrapporsi di lagune, littorali marini e vaste distese alluvionali---storie troppo remote (cinquecentocinquanta milioni di anni fa?) sigillate nelle rocce, prive di dimensioni.

Improvvisamente però, la lingua di basalto sopra le stratificazioni cambriane---cristallizzazione nera di fuoco e di vapori bollenti---è per me il richiamo di un passato vicino, il presagio geologico di sibili, sbuffi e lento snodarsi dei treni ottomani tra queste montagne.

La strada ferrata dell’Hejaz …”. 

(Continua)

 

Inserito il:30/01/2021 19:19:42
Ultimo aggiornamento:01/02/2021 23:34:38
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