Aggiornato al 11/10/2024

Non sono d’accordo con quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo

Voltaire

Maurice Brazil Prendergast (St. John’s, Canada,1858 – New York, 1924) - Children at the Beach

 

L’alterità Olivetti

di Giuseppe Silmo

 

La morte di Adriano Olivetti è stata sicuramente salutata come la fine dall’alterità della Olivetti nel panorama industriale e sociale italiano e il suo auspicato rientro nell’ambito del tradizionale mondo economico e confindustriale italiano.

Solo così si spiega l’assordante silenzio che seguì alla sua morte e nei quarant’anni a seguire.

Alterità che, come scrive Valerio Occhetto, è talmente accentuata da essere fonte di boicottaggio dei prodotti dell’Azienda da parte della Confindustria di Angelo Costa.  La Confindustria, infatti, a seguito di un articolo di Adriano Olivetti sulla rivista «Comunità», in cui critica la gestione dei fondi del piano Marshall da parte della classe dirigente italiana, che ha perso, secondo Adriano, l’occasione di attuare un’autentica rivoluzione sociale, “reagisce con una circolare riservata alle varie unioni industriali dove mette in guardia contro le pecore nere che non stanno nei ranghi. Di certo la Montecatini, a seguito della polemica, bloccò una grossa ordinazione alla Olivetti”.[1]

La conferma del sabotaggio dei prodotti Olivetti arriva anche da Tommaso Russo, che ritiene che a suggerirlo a Costa sia stata l’ambasciatrice americana Claire Booth Luce, che riteneva Adriano Olivetti un comunista. Russo scrive infatti: “Su pressioni della signora, Angelo Costa, allora capo di Confindustria, inviò una lettera a tutti gli associati in cui consigliava di non acquistare macchine per scrivere Olivetti. Un nome fra quanti ubbidirono: Montecatini.”[2]

Giuseppe Berta ben delinea le ragioni del contrasto con Confindustria, scrivendo che Adriano Olivetti: “Invece di assumere i valori quantitativi che testimoniavano della rapida espansione dell’azienda a metro del successo del proprio disegno, Olivetti – i quegli anni del boom che sembravano sigillare nell’intensità del processo di crescita economica l’intera immagine dell’imprenditorialità italiani - non esitava a scegliere come criterio di giudizio in base a cui valutare i termini della sua iniziativa il principio della responsabilità sociale dell’impresa, la sua capacità di tradurre in progresso civile i risultati dello sviluppo industriale. Così egli esplicitava definitivamente le ragioni del suo rifiuto di riconoscersi nelle scelte sociali e politiche del ceto imprenditoriale di allora, per proporre il proprio progetto sociale, che solo rendeva adeguato a caratterizzare la strategia della Olivetti, come alternativa globale alla strategia del capitalismo italiano.”[3]

Erano gli anni, afferma Bruno Lamborghini[4] in un’intervista a Bruno Perini del 15 ottobre 2021 per «Senza Filtro», in cui si affrontavano il capitalismo fordista degli Agnelli (che avevano in Vittorio Valletta e nella Confindustria di Costa la sua più eloquente rappresentazione, con l’idea dell’operaio massa, la fabbrica caserma e la verticalità del potere decisionale) e il capitalismo di Adriano Olivetti, che guardava alla catena del valore prima che al profitto, visto sempre come mezzo e mai come fine; dunque l’operaio come essere umano che partecipa e contribuisce a creare valore per sé e per il territorio in cui vive, dentro e fuori la fabbrica. Una concezione nella quale il sapere, e quindi la formazione e la conoscenza, facevano parte della catena del valore”.[5]

Questa alterità e ben delineata dal discorso ai Lavoratori di Pozzuoli di Adriano Olivetti, il 23 aprile 1955, per l’inaugurazione del nuovo stabilimento progettato dall’architetto Luigi Cosenza, che Adriano descrivere con questa pennellata poetica: “Così, di fronte al golfo più singolare del mondo, questa fabbrica si è elevata, nell’dea dell’architetto, in rispetto della bellezza dei luoghi e affinché la bellezza fosse di conforto nel lavoro di ogni giorno.”

Di quel discorso tre frasi in particolare marcano tutta la differenza con il mondo confindustriale di allora e perché no anche dell’attuale.

La prima, un interrogativo:

“Può l'industria darsi dei fini? Si trovano questi semplicemente nell'indice dei profitti?

Non c'è al di là del ritmo apparente qualcosa di più affascinante, una destinazione, una vocazio­ne anche nella vita di una fabbrica?”

La seconda, l’enunciazione del programma sociale, cui Adriano tende a creare nelle sue fabbriche:

 “Il tentativo sociale della fabbrica di Ivrea, tentativo che non esito a dire ancora del tutto incompiuto, risponde a una semplice idea: creare un’impresa di tipo nuovo al di là del socialismo e del capitalismo”.

La terza, il pensiero portante di tutta la sua costruzione:

“La nostra Società crede perciò nei valori spirituali, nei valori della scienza, crede nei valori dell’arte, crede nei valori della cultura, crede, infine, che gli ideali di giustizia non possano essere estraniati dalle contese ancora ineliminate tra capitale e lavoro. Crede soprattutto nell’uomo, nella sua fiamma divina, nelle sue possibilità di elevazione e riscatto.

Gli ultimi due concetti vengono ulteriormente ripresi e sviluppati in uno scritto del 1958, Appunti per la storia di una fabbrica, dove, riallacciandosi idealmente ai ragionamenti precedenti, Adriano affronta così il problema del lavoro in fabbrica:

“Rendere ‘umano’ il lavoro può apparire un’espressione retorica se letta o ripetuta distrattamente nel corso di un elzeviro o di un conferenza: lo è molto meno, e si colma invece di una palpitante, severa verità, per coloro ai quali sia toccato il destino di poter intervenire a modificare il destino di migliaia di altre persone, ognuna con una sua dignità, una sua luce, una sua vocazione. Noi abbiamo cercato allora strumenti creativi di mediazione che nel mondo dell’uomo che lavora portassero oltre gli schemi inoperanti della lotta di classe (che agisce contro la carità) e di un generico solidarismo (che mutila la giustizia): e li abbiamo trovati nella cultura e nella comunità. Attraverso il rigoroso rispetto della cultura a tutti i livelli della vita di fabbrica noi abbiamo favorito il risplendere dei valori spirituali, la testimonianza della bellezza, il calore della tolleranza, la limpida supremazia della scienza”.

Il divario non potrebbe essere più profondo, un abisso incolmabile.

Da qui la profonda contrarietà e la distanza, alle volte per ragioni completamente opposte, per il modello proposto e attuato da Adriano Olivetti, non solo del mondo confindustriale, ma di molte altre forze: il Partito Comunista, la Democrazia Cristiana, i Sindacati, divenuti cinghie di trasmissione dei partiti, e localmente la Chiesa di Ivrea.

La Chiesa di Ivrea, dopo quasi cinquant’anni, nel 2008, con il suo Vescovo Arrigo Miglio, promuove l’iniziativa “Olivetti è ancora una sfida”, articolata in più momenti, nell’ultimo di chiusura il Vescovo riconosce che la Chiesa eporediese “allora non era pronta ad accogliere la modernità” di Adriano Olivetti, rivalutandone la sua figura e il suo impegno verso l’uomo e il territorio

La differenza culturale tra il modello Olivetti e gli altri modelli la percepiamo anche noi bambini in Colonia con l’Olivetti a Marina di Massa.

La colonia è immersa nel verde della pineta di Marina di Massa, a poche centinaia di metri dal mare, è stata progettata da Annibale Fiocchi è connotata da un linguaggio architettonico di chiara derivazione razionalista a prevalente sviluppo orizzontale, con ampie vetrate su tutti i lati. Il tutto infonde un senso di grande libertà.

Quando noi bambini usciamo dalla colonia, per andare in spiaggia, non possiamo non notare la Colonia della Fiat, affacciata sul lungomare a poche centinaia di metri: un torre bianca bucata da tante piccole finestrelle quadrate. Sulla parete sono ancora visibili i colpi di mitraglia della guerra. Il confronto non potrebbe essere più marcato, tra lo spazio libero e nel verde della nostra colonia e quelle finestrelle che danno il senso, almeno a noi, di soffocamento, di mancanza di libertà. Idea che ci viene ancora maggiormente sottolineata quando vediamo passare i bambini della Colonia Fiat, tutti vestiti uguali, rigidamente inquadrati da algide signorine con il loro grembiule bianco, più guardiane che monitrici. Bè questa è la nostra percezione di bambini. Anche qui il confronto non può essere più marcato: noi andiamo per strada senza sentirci inquadrati, come tanti soldatini, indossiamo camicette di diversi colori, con le nostre monitrici gioiose nei loro vestiti anche loro colorati e diversi. Non possiamo non notare la differenza e guardare a quei bimbi con un senso di superiorità, siamo ancora troppo piccoli per provare altri sentimenti.

La Colonia di Marina di Massa

L’Attrice Laura Curino, molti anni dopo questi miei ricordi di bambino, recita la sua famosa pièce teatrale CAMILLO OLIVETTI alle radici di un sogno, a Ivrea, in una notte agostana, sul tetto a scalinate della Mensa Gardella, al centro del mondo Olivetti, con un effetto scenico straordinario. Gli spettatori, tutti olivettiani, che conoscono bene la Colonia di Marina di Massa per esserci stati dabambini, sono improvvisamente riportati indietro nel tempo dalla recitazione della Curino, che simula un paradossale chiacchiericcio tra due bambini: Marino, il cui zio lavora alla Olivetti e una bambina, il cui papà lavora alla Fiat. La voce della Curino, che si diffonde e avvolge agli stabilimenti Olivetti, racconta nella parte di Marino: “in quella città [Ivrea] tutti i bambini andavano a scuola e all’asilo volentieri, quando andavano in colonia, si divertivano. E volevano tornarci l’anno dopo […]. Proprio così, cara mia…Non è come alle colonie Fiat, che arrivi ed è come un tuffo nel Medioevo, ti schiaffano addosso delle divise che pungono come cilici, […]. Alle colonie Fiat ti sbattono nelle segrete di una torre, […] e fuori dalla cella montano di guardia le Signorine”. Così ci siamo ritrovati, decenni indietro su quel lungomare, con i nostri ricordi ed emozioni di bimbi.

L’anomalia olivettiana, con il venir meno di Adriano Olivetti, deve rientrare e appena se ne presenta l’occasione “i poteri forti” entrano in gioco a metà degli anni ’60, per “salvare” la Olivetti.

 


[1] V. Occhetto, Adriano Olivetti. La Biografia, Roma/Ivrea 2013, pp. 215-216.

[3] G. Berta, Le idee al potere, Roma/Ivrea 2015 p.29.

[4] Primo presidente dell’Archivio Storico Olivetti ed ex dirigente Olivetti.

Inserito il:20/08/2022 12:55:07
Ultimo aggiornamento:20/08/2022 13:09:20
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