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La questione ebraica (11) – Conclusione
di Mauro Lanzi
Il fallimento degli accordi di Oslo fu un duro colpo per le speranze di pace in Palestina; dopo l’incontro tra Barak ed Arafat a Camp David ogni speranza di una composizione pacifica del conflitto appariva tramontata: Quasi a ribadire questo stato di fatto, scoppiava in quel mentre la Seconda Intifada; di cosa si si trattava e perché esplose.
Il 28 settembre 2000 un ministro del governo Barak, Ariel Sharon, cui erano state addebitate in passato pesanti responsabilità per i massacri compiuti in Libano nei campi palestinesi, decise di compiere una passeggiata, accompagnato da un codazzo di guardie del corpo, al Monte del Tempio detto anche Spianata delle Moschee, un luogo considerato sacro sia dagli ebrei che dai musulmani; gli ebrei vedono in quel luogo la sede del secondo Tempio, gli arabi il luogo da cui Maometto sarebbe asceso al cielo. Sharon con il suo gesto intendeva rivendicare la sovranità israeliana su quel posto, ma questo gesto diede fuoco a tutte le tensioni accumulate, provocando la rivolta anche degli arabi israeliani, seguita da una serie di sanguinosi attentati suicidi, orditi in massima parte da Hamas; la Seconda Intifada si protrasse fino al 2005, causando quasi 5000 morti, di cui almeno mille israeliani.
Chi ne trasse maggior beneficio fu proprio Sharon, che a capo del Likud vinse le successive elezioni, divenendo capo del governo fino al 2006. Arafat venne confinato dagli israeliani a Ramallah, in Cisgiordania, da cui uscì nel 2004 per andare a morire a Parigi; per inciso, con la sua morte scomparvero anche alcuni miliardi di dollari dal tesoro dell’OLP, dei quali si sono perse le tracce. La corruzione e l’arricchimento indebito degli alti gradi delle rappresentanze palestinesi è una costante che si estende ai giorni nostri, persino con Hamas.
Il premierato di Sharon comportò anche altri cambiamenti importanti; in primo luogo, con la scusa di impedire agli attentatori suicidi di infiltrarsi in Israele provenendo dalla Giordania, il governo israeliano annunciò nell’aprile 2002 la costruzione di una “recinzione di sicurezza”, una barriera lunga 750 km, fatta di un muro in cemento, trincee, filo spinato, barriere elettroniche; questa barriera non segue la “linea verde”, cioè la linea armistiziale che da oltre mezzo secolo costituisce il confine ufficioso di Israele, ma penetra in profondità nelle aree occupate, coprendo i blocchi di insediamenti ebraici in Cisgiordania. La costruzione di questa barriera comportò lo sradicamento di un gran numero di palestinesi, la confisca delle loro terre, la separazione di interi villaggi dalle loro coltivazioni, in qualche misura una vera e propria pulizia etnica. Ma la costruzione della barriera non fu l’unica iniziativa unilaterale del governo Sharon, che nel febbraio 2004 prese un’altra decisione di importanza capitale, come si vedrà in futuro, il ritiro da Gaza; l’idea veniva dibattuta da tempo in Israele, considerando che per difendere poche migliaia di coloni si tenevano impegnati oltre 50.000 soldati.
La città di Gaza conta con una storia antichissima; abitata almeno dal 1500 a.C., Gaza è stata dominata da diversi popoli e imperi nel corso della sua storia. I Filistei, gli acerrimi nemici degli ebrei secondo la Bibbia, ne fecero parte della loro Pentapoli, il loro asse strategico lungo la costa, dopo che gli Egizi la avevano governata per quasi 350 anni. In seguito, Gaza venne a far parte degli imperi che si sono succeduti nella regione, prima l’impero romano, poi quello arabo ed infine l’impero ottomano.
Alla fine della prima guerra mondiale, Gaza cadde sotto controllo delle forze britanniche, diventando parte della Palestina mandataria. A seguito della guerra arabo-israeliana del 1948 e dei successivi accordi armistiziali, il territorio della nuova striscia di Gaza cadde sotto l’amministrazione egiziana che attuò diversi miglioramenti alla città.
Gaza, in seguito, fu catturata da Israele nella guerra dei sei giorni nel 1967 e restò sotto occupazione fino al 1994 quando, per gli accordi di Oslo, fu trasferita, nominalmente, all'Autorità nazionale palestinese o ANP appena creata, anche se, come visto, le forze armate israeliane la sgomberarono solo nel 2004.
L’ANP è una filiazione dell’OLP, guidata da Abu Mazen, nata per amministrare i territori progressivamente sgomberati dall’esercito israeliano sia in Cisgiordania che a Gaza. Sembrava l’embrione di una sistemazione definitiva, ma così non fu; gli accordi di Oslo subirono parecchi arresti ed infine sono caduti nel dimenticatoio, per responsabilità di entrambe le parti, gli attacchi suicidi e poi i ripetuti lanci di razzi da parte palestinese, gli insediamenti ed il muro di sicurezza da parte israeliana.
Il peggio doveva arrivare; nel 2006 si tennero elezioni nei territori palestinesi, elezioni che a Gaza videro prevalere Hamas; di conseguenza, nei mesi successivi alle elezioni scoppiò un conflitto armato tra le fazioni politiche palestinesi di Fatah ed Hamas, conflitto che portò Hamas al potere.
Siamo così giunti ai giorni nostri; riassumendo, in Palestina si confrontano tre attori:
- L’ANP, autorità nazionale palestinese, guidata da Abu Mazen, con capitale a Ramallah, che rivendica la sovranità sulla Cisgiordania, territorio abitato da 2,9 milioni di palestinesi; l’ANP è l’interlocutore riconosciuto e appoggiato dalla UE e dispone di un seggio alle Nazioni Unite come osservatore.
- Hamas organizzazione islamica fondata nel 1987 con il proposito dichiarato di distruggere lo stato d’Israele; fino ai fatti del 7 ottobre 2023 Hamas controllava pienamente la striscia di Gaza, abitata ufficialmente da 500.000 persone, in realtà contando i profughi si arriva a due milioni. Hamas è pienamente supportata dall’Iran, che la riconosce come unico interlocutore in Palestina.
- Stato d’ Israele, nazione abitata da 9,6 milioni di abitanti, di cui un 30% arabi; il territorio della stato d’Israele, secondo l’ONU, è quello delimitato dai confini armistiziali fissati nel 1948, cioè la famosa “linea verde”. Dopo la guerra dei sei giorni, il governo israeliano ha incamerato nel territorio nazionale la città di Gerusalemme, che è divenuta la capitale della nazione e le alture del Golan, mentre il Sinai è stato restituito all’Egitto e Gaza all’ANP. La Cisgiordania è stato l’oggetto principale degli accordi di Oslo, ma recentemente il governo israeliano ha iniziato a ipotizzare anche una sorta di sovranità sulla Cisgiordania, di cui alcune zone sarebbero solo sotto “amministrazione” palestinese. La situazione attuale della Cisgiordania viene spiegata dai numeri che seguono.
|
Area |
Controllo |
Amministrazione |
% di territorio |
% di Palestinesi |
|
A |
Palestinese |
Palestinese |
17% |
55% |
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B |
Israeliano |
Palestinese |
24% |
41% |
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C |
Israeliano |
Israeliana |
59% |
4% |
Questa la situazione di fatto; i recenti drammatici eventi hanno sconvolto l’intera regione ed hanno spinto, Europa e Stati Uniti, a cercare una via d’uscita; ora, a parte alcune fantasiose uscite di Trump, la soluzione proposta da più parti è ancora e sempre quella dei due stati; questa proposta di sistemazione, però, l’abbiamo vista più volte nel nostro percorso, è stata oggetto negli anni di vari tentativi, seguiti da grandi dibattiti, senza mai giungere ad accordi concreti per l’ostilità dell’una o dell’altra parte.
Il primo tentativo risale addirittura a prima della proclamazione dello Stato d’Israele; si trattò della risoluzione ONU nr 181, approvata il 29 Novembre 1947 dall’Assemblea Generale, che prevedeva la divisione della Palestina in due stati, uno palestinese con il 44% del territorio ed uno ebraico con il 55%, raccomandando per la città di Gerusalemme uno status internazionale. La risoluzione, accettata dagli ebrei, fu rigettata da tutti gli stati arabi.
Il secondo tentativo, dopo uno stallo durato 20 anni, fu effettuato dopo la guerra dei sei giorni ; la formula “terra in cambio di pace” era alla base della risoluzione nr 242 dell’ONU, votata il 22 novembre 1967; con essa si prevedeva il ritiro delle forze israeliane da (o dai?) territori occupati, ma anche il rispetto ed il riconoscimento della sovranità e dell’integrità territoriale di tutti gli stati dell’area; la risoluzione inizialmente fu accettata sia dagli stati arabi che dagli ebrei, ma fu rigettata dall’OLP, perché non prevedeva il diritto all’autodeterminazione dei palestinesi. In seguito anche gli altri attori fecero marcia indietro, gli arabi, Egitto in prima linea, perché cercavano una rivincita su Israele, gli ebrei perché cominciavano a considerare più conveniente tenersi almeno parte dei territori conquistati.
Gli stessi concetti furono ribaditi dalla risoluzione 338, emessa dopo la guerra dello Yom Kippur, con esito analogo.
Il tentativo più serio per un accordo basato sulla ripartizione del territorio fu quello concepito con gli accordi di Oslo, che videro per la prima volta una trattativa diretta tra ebrei e palestinesi, sotto l’egida degli Stati Uniti; l’intesa, siglata da Rabin ed Arafat prevedeva una road map che rifletteva il ritiro progressivo delle forze armate israeliane ed il passaggio delle zone liberate sotto un’autorità nazionale palestinese. Anche l’attuazione di questo piano appena avviata fu sabotata da entrambe le parti, da parte araba con un’ondata di attentati suicidi, orditi da Hamas, che Arafat non seppe o non volle arginare, non si è mai capito quanto ne fosse corresponsabile; da parte israeliana con una serie di insediamenti in Cisgiordania, sempre condannati dall’ONU, senza esito e poi con la costruzione del famoso muro. Oggi poi potrebbe accadere di peggio con il progetto di un gigantesco insediamento di coloni ebrei in Cisgiordania; se questo accade, dove si farebbe la seconda nazione?
Recentemente alle difficoltà già viste si sono aggiunti due aspetti, che molti commentatori sembra abbiano trascurato. In primo luogo, il confronto tra le parti ha cambiato forma e sostanza; in tutti gli anni trascorsi finora si sono affrontati, anche in forma violenta, poteri laici; persino Arafat, che può essere giudicato come si vuole, anche un brigante, era un laico, che badava a fatti concreti, così come laici sono stati tutti i governi israeliani che si sono succeduti nel tempo finora.
Oggi la situazione è cambiata; alla ribalta è salita Hamas, un’organizzazione dichiaratamente islamica, che, fin dal suo nome, che letteralmente significa “Movimento di resistenza islamico”, vincola e subordina la riscossa nazionale palestinese a un progetto religioso. Santifica la lotta armata come strumento di allargamento dell’influenza mondiale dell’islam addirittura si propone, dopo aver distrutto Israele di far prevalere l’islamismo anche nel resto del mondo.
L’altro protagonista, rimasto finora nell’ombra, ma gettato in primo piano dalla questione dell’arma atomica, è l’Iran, per definizione una teocrazia, non credo servano commenti. La vera sorpresa tuttavia viene proprio da Israele, dove il governo Netanyahu è stato ed è connotato dal sostegno irrinunciabile degli estremisti religiosi, che ne fanno parte e a cui si devono alcune delle più criticate recenti iniziative.
Di conseguenza, il confronto laico si è trasformato anche in un confronto religioso e non è una buona notizia!! Infatti se il tuo Dio, attraverso i suoi preti, ti ordina di buttare a mare il tuo vicino (non è quanto doveva accadere a Gaza?), hai due alternative: o cambi vicino o cambi Dio, non c’è posto per mediazioni. La firma degli accordi di pace ha cambiato qualcosa? Lo vedremo presto.
L’altro aspetto che merita commentare è la nuova posiziona assunta da Israele; dopo gli innegabili successi riportati contro Hamas, contro Hezbollah ed infine contro lo stesso Iran, che ha visto il suo territorio devastato senza riuscire ad abbozzare una reazione credibile, Israele appare sempre più come la nazione egemone, almeno da un punto di vista militare, della regione. La storia insegna però che le potenze egemoni sopravvivono tanto più a lungo, quanto più sono inclusive, cioè capaci di associare al proprio benessere quello dei popoli dominati. Saprà Israele percorrere questa strada? Non ci sembra, per ora.
A questo punto, vale la pena fermarsi un momento e vedere di riassumere i termini del problema, cioè del conflitto tra arabi ed ebrei, che è all’origine della strage del 7 ottobre e della seguente vendetta di Israele; il conflitto israelo-palestinese dipende da un fatto molto semplice, due popoli che reclamano il possesso della stessa terra, basandosi anche su antecedenti storici: per gli ebrei il regno davidico sopravvissuto per secoli, fino allo scontro con Roma, e ancora di più la designazione divina di terra promessa. Ma anche i palestinesi possono vantare una presenza addirittura anteriore al regno ebraico di genti cananee cacciate o assoggettate dagli ebrei; alcuni fanno risalire il termine biblico Filistei alla parola “palestinoi”.
Non si sa bene che valore o che senso si possano dare ad antecedenti storici così lontani; di fatto, se ci vogliamo riferire alla realtà più recente, in Palestina erano convissute per secoli, pacificamente, sotto il dominio ottomano, tre religioni, islamica, ebrea e cristiana; per quanto ebrei e cristiani fossero cittadini di serie B, privi di diritti politici, potevano comunque sopravvivere, mantenendo la propria religione; quindi, non è vero che le tre religioni siano inconciliabili, l’origine dell’ostilità è da ricercarsi altrove, in epoca contemporanea. La causa prima va ricercata in un evento traumatico; improvvisamente, nel 1948, sorge in questa regione una nuova realtà, lo stato d’Israele, costituito, in grande maggioranza, non da ebrei autoctoni, ma da immigrati europei, portatori quindi di un’altra mentalità, un’altra cultura, una società totalmente diversa.
Ora, è accaduto più volte nella storia che la contiguità con una civiltà più evoluta abbia recato beneficio anche a società vicine più arretrate, per osmosi di cognizioni e di valori ed è quanto gli inglesi speravano avvenisse in Palestina ai tempi della dichiarazione di Balfour; ne abbiamo un esempio vicino a noi, nel Nord Italia, dove la prossimità di Svizzera e Germania ha favorito, fin dall’inizio del’900, lo sviluppo di industria commercio e finanza, a volte anche per effetto di investimenti provenienti dall’estero; ancora oggi, il nord, soprattutto Lombardia, Veneto ed Emilia è equiparato ad una estensione della Baviera. Niente di tutto ciò accadde in Palestina, lo scontro tra Palestinesi ed ebrei iniziò già ai tempi del mandato britannico, e divenne insanabile con la creazione dello stato d’Israele, quando si aggiunse anche il problema dei palestinesi esodati; problema grave, certo, ma in ottant’anni, con le centinaia o migliaia di miliardi di aiuti internazionali gettati in un pozzo senza fondo, una soluzione si sarebbe anche potuta trovare; invece, anche i palestinesi che si recavano sempre più numerosi a lavorare in Israele, non portavano indietro neppure una scintilla di quanto avevano visto e appreso, cognizioni tecniche o ideali democratici, Israele è sempre rimasto un corpo estraneo, impiantato a forza in Medio Oriente e le distanze tra le due società sono cresciute con il tempo, con il progresso tecnico, industriale e scientifico d’Israele sono divenute abissali, incolmabili; gli arabi, guardando Israele, vedono quello che loro non sono e non saranno mai e perciò lo odiano e vorrebbero distruggerlo.
Vero purtroppo; per gli arabi, anche moderati, stabiliti in Giordania o Libano la parola Israele non esiste neppure, al di là del confine è Palestina; eppure, ormai, tutti dovrebbero accettare il fatto che Israele esiste, quali che siano state le ragioni della sua creazione e della sua crescita; quindi è una realtà con cui bisogna fare i conti, cercando pragmaticamente degli accordi o delle mediazioni che possano ridurre le distanze.
Poi anche Israele ci ha messo del suo; nel luglio 2018 venne modificata la Costituzione dello stato di Israele: un intervento che modificò il profilo che una nazione vuole dare di sé stessa”. In quell’occasione, per la prima volta, “Israele viene formalmente definito casa nazionale del popolo ebraico, tra le cui finalità compare lo sviluppo degli insediamenti ebraici come valore nazionale. Uno sviluppo degli insediamenti ebraici, si badi bene, valorizzato senza alcuna delimitazione territoriale riguardo ai futuri confini dello Stato stesso.
Anche peggio dall’altra parte, dove la posizione di Hamas si scontra in modo antitetico con quella di Israele. Hamas vincola e subordina la riscossa nazionale palestinese ad un progetto religioso. Non a caso, all’indomani del 7 ottobre, dopo aver realizzato una vera e propria strage degli innocenti, il primo messaggio indirizzato alla popolazione di Gaza dalla direzione politica di Hamas, insediata in Qatar, era l’invito a far propria la virtù del sacrificio: ci serve il vostro sangue fu detto. Quasi una giustificazione preventiva delle stragi che Israele avrebbe scatenato sulla popolazione di Gaza, una vendetta senza precedenti. Eppure Hamas, malgrado il disastro ed i morti causati, ha ancora oggi un seguito importante tra i palestinesi, perché incarna la voglia di rivalsa nei confronti di Israele, ai loro occhi è l’unica organizzazione che ha saputo infliggere un colpo significativo allo stato ebraico.
Vedete bene, siamo di fronte a due strade che divergono, portando ad un conflitto insanabile. Per quanto perpetrato il 7 ottobre, non c’è dubbio che Hamas meriterebbe di essere cancellata dalla faccia della terra, ma, sia pure per combattere Hamas, non sono accettabili le sofferenze inflitte al popolo di Gaza dagli attacchi israeliani; sorprende che i leader israeliani non si rendano conto che con la loro politica stavano distruggendo (ed in parte hanno già distrutto) il bene più prezioso posseduto nel dopoguerra dalla comunità ebraica, cioè quel patrimonio di simpatie e consensi, frutto delle persecuzioni subite, che ha sempre accompagnato finora gli ebrei e lo stato d’Israele; ne vale la pena? La riprovazione, la condanna, l’antisemitismo risorgente, fino all’aperta ostilità da parte di frange importanti nel mondo occidentale non è un prezzo troppo alto da pagare, per un obiettivo, peraltro, incerto, anche prima dei fatti recenti?
In un orizzonte così oscuro è apparso come una luce inattesa il piano di pace varato da Trump e sottoscritto, obtorto collo, da Netanyahu; la novità in principio è che il piano è stato accettato dalla maggioranza degli stati arabi, Turchia inclusa. Infine lo ha accettato anche Hamas, quindi la firma ufficiale dell’accordo dovrebbe mettere la parola fine agli scontri armati; in realtà, secondo molti osservatori, restano da definire molti ”dettagli” e, come ben sappiamo, è nei dettagli che si nasconde il diavolo.
Non si può negare che la firma dell’accordo ed il rilascio degli ostaggi siano eventi storici, di cui va riconosciuta l’importanza; esistono però, oltre ai “dettagli”, altri aspetti che non inducono all’ottimismo; Netanyahu si è dovuto piegare al diktat di Trump, ma quasi certamente non ha rinunziato alle sue mire, aspetta solo un’opportunità per realizzarle; dall’altra parte sembra improbabile che un’organizzazione come Hamas accetti di disarmare, di scomparire in toto dalla scena palestinese; quindi non è escluso che questa opportunità a Netanyahu la offra, prima o poi, proprio Hamas!
Vale infine la pena osservare, pure nell’atmosfera di generale entusiasmo, che l’accordo raggiunto non ha la portata degli accordi di Oslo, riguarda solo Gaza, una porzione minima della Palestina; restano aperte le questioni essenziali del confronto tra Israele e Palestinesi, che abbiamo più volte commentato; definizione di due stati, rientro degli esodati, status di Gerusalemme. Riguardo il problema dei due stati, Trump ha candidamente ammesso di non avere delle idee; sarà il caso che se le faccia venire in fretta, altrimenti una vera pace rimarrà per sempre un sogno o un’illusione.
Pertanto, visto tutto quanto ci siamo detti, visti i problemi di fondo, non contemplati dagli accordi, dobbiamo ammettere un’amara verità, non è impossibile che israeliani e palestinesi tornino a combattere e a contare i loro morti. Poi, però, si troveranno davanti sempre al medesimo dato di fatto: nessuno dei due popoli che abitano in quel fazzoletto di terra ha un altro posto in cui andare. Dovranno in qualche modo conviverci e non basteranno Bibbia e Corano a regolamentare l’inevitabile convivenza. Requisiti indispensabili per convivere in pace sarebbero, non i trattati, né la tradizione, ma l’accettazione dei valori fondanti della democrazia, libertà di pensiero, pluralismo, Stato di diritto, parità di genere, uguali diritti ed uguale dignità per tutti, tutti principi che non erano concepibili e non potevano essere inscritti né nei Dieci Comandamenti biblici né nella sharia coranica, ma dovranno necessariamente essere recepiti da entrambe le parti, se vorranno sopravvivere; accadrà prima o poi? Nessuno può dirlo.

