Aggiornato al 02/11/2024

Non sono d’accordo con quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo

Voltaire

Adolf Hitler (Braunau am Inn, Austria, 1889 - Berlino, 1945) - Hofbrauhaus di Monaco

 

Il Mein Kampf  curato da Free Ebrei: capire il Novecento (e anche la storia di oggi)

di Fabio Macaluso

 

L’uscita lo scorso aprile del Mein Kampf (“La mia battaglia”), il libro programma di Adolf Hitler nell’edizione critica italiana curata da Vincenzo Pinto per la casa editrice Free Ebrei, ha riaperto il dibattito su un testo che tuttora suscita interesse e crea discussione. La pubblicazione succede a quella tedesca del 2016, curata dall’Istituto di storia contemporanea di Monaco di Baviera, dopo 70 anni di bando in Germania. Vincenzo Pinto si dedica da decenni alla ricerca storiografica su antisemitismo e sionismo ed è uno dei pochi studiosi con la reputazione adatta a svolgere un’impresa così ardua, controversa e zeppa di motivi attuali. Questa sua intervista intende contribuire a orientare il pubblico che si proporrà la lettura del testo del dittatore nazista.

 

Professor Pinto, ci spiega a cosa serve la pubblicazione dell'edizione critica in italiano del Mein Kampf?

L’orizzonte d’aspettativa della pubblicazione dell’edizione critica in italiano è duplice: interpretare in maniera originale e innovativa la retorica hitleriana (come non hanno fatto i commentatori tedeschi); aiutare i giovani a conoscere l’umanità del male, cioè la sua incarnazione storica più nota in Occidente. L’edizione critica tedesca si è posta tre finalità: valutare l’attendibilità delle affermazione hitleriane, ricostruire la genesi intellettuale del testo, valutare il nesso tra il programma politico e la prassi nazista dopo il 1933. Noi abbiamo proposto, in aggiunta, un’interpretazione storiografica innovativa che parte del paradigma indiziario di Carlo Ginzburg e che, grazie al lavoro dello storico americano Ben Novak, presenta l’abduzione come forma logica atavica e moderna di leggere la realtà. Se poi pensiamo ai giovani, noi come “Free Ebrei” (in primis il sottoscritto e la mia defunta consorte e insegnante Alessandra Cambatzu, che ha curato la traduzione del testo) siamo convinti che educare alla vita i giovani significhi innanzitutto porli di fronte a un mondo reale, fatto di persone reali e di esperienze effettive. Questo significa anche affrontare il male e la “malattia”, che vanno visti come spazi di esperienze in grado di migliorare la persona e di farla maturare. Nascondere la testa sotto la sabbia come fa lo struzzo non eviterà che gli eventi storici si ripetano, seppur in forma “analogica” e mai identica a loro stessi.

 

Vivisezionare la cultura del nazionalsocialismo, come spiegato nell’introduzione del testo da lei curato, non è operazione semplice perché il testo di Hitler è prolisso e spesso contorto. Ritiene di aver avuto realizzato questo scopo?

La vivisezione è un metodo medico consistente nella dissezione degli animali vivi. In un certo senso, ciò che ho tentato di fare è proprio l’apertura del corpo di Hitler inteso come testo alla ricerca di quella “malattia” che ha colpito la Germania e, più in generale, la cultura europea di inizio Novecento. È sintomatico che Hitler abbia assunto invece le vesti del medico-detective, del “semeiota”, di colui che studia i sintomi soggettivi e i segni della malattia. Anche io ho cercato di entrare nella carne viva del nazismo e di non rimanere a livello puramente moralistico dei suoi interpreti libreschi: le cose vanno chiamate con i loro nomi, senza giri di parole. L’edizione tedesca, come ho detto poc’anzi, è prevalentemente filologica. Manca cioè di un’interpretazione storiografica forte. Questo, a mio avviso, non si deve solo alle doti degli interpreti, ma anche al timore inconscio di sconfinare in un terreno incognito, quel terreno rappresentato dalla “crisi della ragione” (come dice Ginzburg), cioè dal rapporto con l’inconscio e l’immaginario collettivo che tanto spaventa la ragione tedesca. Mestare in quest’enorme vaso di Pandora non è operazione semplice e politicamente corretta. Ci vogliono coraggio, determinazione e forza.

 

Hitler scrive più volte nella sua opera che gli uomini si conquistano non tanto con la parola scritta, ma con la parola parlata e che ogni grande movimento si afferma grazie ai grandi oratori. Quest’affermazione ridimensiona la funzione originaria del Mein Kampf?

Non la ridimensiona affatto. Hitler nella sua introduzione afferma il primato della parola parlata. Il Mein Kampf è scritto, ma, in realtà, è un libro da vedere e da sentire. Una specie di audiolibro ante litteram. Il suo pubblico iniziale era quello degli adepti, di coloro che non lo tradirono dopo il fallimento del 1923. Solo in un secondo momento il testo assunse un respiro commerciale e politico più ampio. Fu venduto, specie dopo il 1930, e fu letto. Non integralmente, ma indubbiamente circolò in quasi tutte le famiglie tedesche. La parola parlata è superiore alla parola scritta perché consente all’oratore di stabilire un contatto diretto con il proprio uditorio. Aggancia per così dire i sentimenti invisibili. L’oratore non è interessato alla coerenza o alla consistenza della sua teoria, semmai alla sua efficacia: quando si vede allo specchio, vede l’altro da sé, non il proprio sé. Una tesi può essere efficace solo se raccoglie il consenso del pubblico, specie quando non è pregiudizialmente dalla tua parte ed è socialmente e culturalmente eterogeneo. Hitler sapeva bene quanto i sentimenti fossero importanti e ben superiori ai valori-idee sbandierati ai sette venti. Gli anni al fronte furono, da questo punto di vista, decisivi. Non tanto per il coraggio che dimostrò o per la sua tesi della “pugnalata alla schiena”, quanto perché lì probabilmente visse le medesime esperienze che ci raccontano grandi romanzieri pacifisti come Remarque. Ma ne trasse conseguenze opposte. Lì capì che cosa significava la vicinanza umana e questo lo si desume indirettamente leggendo il Mein Kampf. L’uso che poi fece di tale vicinanza umana fu tutto politico e volto all’affermazione della tesi pangermanista, non certo del pacifismo.

 

E’ interessante la visione di Hitler sulla circolazione dei cittadini all’interno dell'impero asburgico. Con riferimento al suo stesso padre, Hitler afferma che “il trasferimento di un funzionario doganale austriaco si definiva a quel tempo migrazione” e, più in generale che gli emigranti sono persone sane e attive. Come vanno collocate storicamente queste affermazioni?

Hitler descrive la vita errabonda paterna e poi gli anni prebellici viennesi e monacensi. È come se abbia voluto dirci che la sua casa fu il fronte, furono quei camminamenti di fango condivisi con i suoi commilitoni del Reggimento List. Se la sua casa fu la trincea, la vita errabonda precedente fu il proprio personale periodo di apprendistato. Ora, dire che gli emigranti siano più sani dei locali può significare varie cose: che la vita è movimento, salute, volontà di potenza, mentre la morte è immobilità, malattia, impotenza. Può anche voler dire che solo le persone dotate di un certo animo sono capaci di creare, di essere benemerite per l’umanità. Nel corso del libro Hitler parla anche di giovani che si recano a Vienna in cerca di fortuna, ma che perdono lì la loro sanità e vengono corrotti e abbruttiti dalla grande metropoli. Più volte Hitler accenna anche al “sano” ceto contadino capace di colonizzare le terre orientali e, quindi, di dare il pane a tutto il popolo tedesco. Come vede, lo spostamento è sempre una metafora di vita.

 

Hitler dà a un certo punto una visione quasi romantica dei propri intenti. Egli dice “io posso lottare solo per ciò che amo, amare ciò di cui ho rispetto e rispettare quel che conosco”. E’ un argomento molto seducente. Può provocare un effetto di trascinamento solo per soggetti già ideologizzati o anche per un pubblico più vasto?

Questa domanda è importante perché mi permette di chiarire un punto molto rilevante. Esiste in ambito retorico una fallacia chiamata “ad hominem”: si discredita la tesi dell’avversario in base alla sua mera persona. Questa ha dato vita alla nota “reductio ad Hitlertum”: in altre parole, se una persona afferma qualcosa detta da Hitler, è immediatamente screditato. Dico questo perché il Mein Kampf dimostra esattamente che non tutte le espressioni uscite dalla bocca di Hitler sono universalmente ritenute vaneggiamenti di un folle, sproloqui di un esaltato, manipolazioni di uno psicopatico. In realtà, bisogna sempre guardare l’espressione nel suo contesto, criticarla, se necessario, ma non fermarsi all’autore. Mi sembra normale che l’espressione da lei riportata sia generalmente condivisibile. Certo, bisogna definire più attentamente espressioni come amore, rispetto e conoscenza e calarli nella realtà concreta. Quanti di noi non hanno lottato nella loro vita per ciò che amano, hanno amato ciò che rispettano e rispettano ciò che conoscono? Ma si può amare qualcosa di terribile, così come conoscere qualcosa di superfluo o rispettare una persona indegna.

 

Il dittatore nazista fornisce anche spunti civici ai suoi lettori. Egli spiega il suo interesse per la politica in quanto dovere di ogni persona in grado di pensare. Non è sorprendente?

Ogni capitolo del Mein Kampf va letto a se stante. Cercare una coerenza fra le affermazioni contenute qua e là, come hanno fatto gli studiosi tedeschi, è forse rassicurante per certi versi (dimostra che l’autore non era coerente, mentiva sapendo di farlo, era confuso), ma è inutile ai fini conoscitivi. L’affermazione che lei richiama è rivolta a se stesso: quindi è naturale che Hitler, ritenendosi una persona qualunque ma in grado di pensare (e questo grazie all’osservazione prebellica), si reputi degno e anzi meritorio di fare politica. Ma come novello tribuno della plebe egli è anche convinto che i mezzi di comunicazione di massa, l’ampliamento del suffragio universale e l’esperienza bellica abbiano dimostrato ampiamente l’esigenza di una politica populistica. Difatti Hitler comprese bene che l’uomo-massa ha bisogno di essere guidato e di essere deresponsabilizzato, di fuggire dalla faticosa libertà in direzione di qualcuno che rimetta i suoi peccati e che lo salvi da se stesso.

 

Il tema della cultura nazionalpopolare è la chiave forse più importante della lettura del Mein Kampf, senza la cui interpretazione è impossibile comprendere il successo del nazionalsocialismo. Nella parte didattica si afferma che la cultura nazionalpopolare "non è affatto una parentesi storicamente limitata, determinata o esaurita". Può approfondire questo punto e contestualizzarlo a oggi?

Il termine nazionalpopolare è stato spesso sottovalutato oppure associato ai peggiori pregiudizi e stereotipi della cultura popolare. Invece, come i movimenti populisti dimostrano ancora oggi, è lì che va cercato il consenso, è lì che è possibile coinvolgere e agganciare le masse, mobilitarle in vista di un programma politico costruttivo. Certo, oggi si parla spesso di disinnamoramento verso la politica, di cittadini più o meno consumatori, di scarsa fiducia nelle istituzioni. Ma è proprio in questi anfratti che si annida il ritorno del nazionalpopolare. L’espressione designa, per farla breve, quell’apparato simbolico e mitico che accomuna una determinata comunità. Hitler dedica pagine importanti alla decifrazione del termine, sostenendo che solo lui e il suo partito hanno saputo tradurre un perenne anelito in qualcosa di “solido”. Quindi il nazionalsocialismo è l’incarnazione storica del sentimento nazionalpopolare. Nella nostra traduzione abbiamo deciso di rendere il termine “voelkisch” con nazionalpopolare, perché la parola esprime sia il nesso universale (popolo come massa che sta in basso), sia quello più particolare (la nazione è questa e non quell’altra). Pertanto nazionalpopolare significa appartenere a un determinato gruppo secondo determinate inclinazioni emotive.

 

L’antisemitismo è ovviamente tema centrale del Mein Kampf. Per Hitler l’ebreo è addirittura "la metafora per indicare l’influenza nefasta dell’età moderna”. Si può quindi affermare che il popolo ebraico sia stato sacrificato in nome di una visione universalistica della storia che imponeva il massacro?

L’antisemitismo è lo strumento per salvare l’umanità dallo sradicamento e dalla morte. Tutto ciò che perde le radici, come una pianta, muore. Nulla sta in cielo in termini produttivi. Hitler esprime qui un sentimento che potremmo definire quasi femminino: un bisogno cioè di ritornare allo spazio ctonio, al grembo materno, superando l’ansia mascolina dello sradicamento, della libertà cosmica dello spirito. Letto in questi termini, il popolo ebraico è tutto ciò che di peggio ci possa essere nell’eterno mascolino: assenza di radicamento, cinismo, immoralità, mortalità, sfruttamento. Il popolo ebraico andava così distrutto per fermare il tempo, per riportare l’uomo al grembo materno e per sconfiggere in qualche modo la morte, il dolore e la finitudine.

 

Sempre sull’antisemitismo, Hitler afferma che i “nove decimi di immondizia letteraria, di kitsch artistico e di sciocchezze teatrali fossero prodotti del popolo ebraico, che ammontava a un centesimo della popolazione”. Si può sostenere l’idea di un antisemitismo estetico nelle teorie di Hitler?

Questa domanda si ricollega alle affermazioni precedenti. Hitler sta parlando di pulizia, di moralità, di bellezza, tutte idee astratte che lui vede incarnate nei valori popolari e contadini, in particolar modo. L’esplosione delle pulsioni moderne è fonte di disapprovazione non solo dei religiosi, ma anche di una parte consistenza della vecchia borghesia. L’antisemitismo di Hitler è estetico e morale in pari misura: da un lato lui ha in mente la bellezza come supremo valore dell’umanità, dall’altro anche la bontà. Se poi ci aggiungiamo il vero, ecco il principio greco e platonico della kalokagathia, l'ideale di perfezione fisica e morale dell'uomo. Ora, Hitler ritiene che la mente sana riposi in un corpo sano, che cioè non si possa essere sani nell’una senza esserlo anche nell’altro. Questo significa che, a suo avviso, tutti coloro che disprezzano il corpo oppure favoriscono un pensiero del tutto disancorato dalla realtà (che lui vede incarnata nei valori contadini), sono i nemici della kalokagathia. L’ebreo che avvinghia a tenaglia il popolo - con il capitalismo e col marxismo - è tutto ciò che di peggio ci potrebbe essere: diffonde il peggior materialismo e il peggior idealismo.

 

Dice Hitler che la "maggioranza non può mai sostituire il vero uomo”, lanciando l’idea della necessità inevitabile di un capo che singolarmente deve rispondere al popolo delle sue decisioni. Un argomento suggestivo, tuttora ripreso spesso. E’ stata una sorta di profezia?

Il tema della responsabilità diretta dell’uomo politico si ricollega a una società tradizionale basata sull’onore. Se è vero che solo la democrazia ateniese poteva essere diretta, lo è altrettanto che l’onore non può essere la virtù di una moderna democrazia parlamentare per varie ragioni: le dimensioni, le mediazioni, la rete di interessi, l’elettorato. La suggestione della responsabilità individuale risveglia atavici sentimenti di giustizia e di controllo da parte dei cittadini delusi dai propri politici. È un fatto che la responsabilità personale non può esistere in una moderna democrazia parlamentare, dove semmai può essere solo di natura politica, ed è giusto sia così. Ora, tutti coloro che hanno tentato e tentano di introdurre la responsabilità personale del parlamentare lo fanno per l’esigenza di avere un colpevole di turno: se qualcosa va male, è colpa sua. Storicamente parlando, questa visione moralistica della politica è stata utilizzata dai demagoghi per spazzar via i parlamenti, per autoproclamarsi portatori della volontà popolare e per instaurare le dittature in nome del popolo. Quindi, dove c’è la “morale” c’è spesso anche la dittatura.

 

Proprio Hitler sostiene che un grande capopopolo debba avere la capacità di non disperdere l’attenzione del popolo, concentrandolo su un unico nemico. Non è un tema ricorrente?

Hitler parla nel suo libro ai suoi adepti e anche ai suoi avversari politici. Qui dimostra di aver capito assai bene i meccanismi della moderna democrazia di massa e della pubblicità: individuare un capro espiatorio, polarizzare il dibattito e valorizzare incondizionatamente il proprio prodotto. Non è un caso che lui critichi spesso la borghesia “oggettiva” e le “mezze misure”. Con queste parole lui intende riferirsi a una visione scettica e moderata dell’agire politico: chi è oggettivo conosce le cose, non può credervi per semplice atto di fede, ma è anche portato a muoversi con prudenza. Nei momenti di crisi, la virtù trapassa nel vizio e quindi la ragione lascia spazio al sentimento. Questo Hitler l’ha capito molto bene e sa anche che i sentimenti umani atavici non conoscono sfumature di grigio, ma solo il bianco e il nero. La sua abilità è stata quella di aver offerto un discorso efficace antisemita e non averlo ammantato di inutili orpelli – giavellotti o abiti d’epoca -  come richiedeva la frangia esoterica di Dinter e Ludendorff.

 

Ritiene che il vostro lavoro possa essere utile anche ad aprire il dibattito sul regime fascista, tenuto conto che nel nostro paese, a differenza di Germania e Austria, non si sono veramente fatti i conti col periodo più buio della storia italiana?

Per fare i conti col regime fascista in Italia bisognerebbe ripensare la costituzione repubblicana, e quindi radicalmente il sistema parlamentare. Questo significherebbe dare cittadinanza formale al leaderismo e non ritenerlo necessariamente l’anticamera del fascismo (in base alla tesi del sottosviluppo atavico degli italiani). Io non credo che tutto ciò sarà mai realizzato, perché la classe dirigente italiana si riproduce per cooptazione e il simile non tollera il “divergente”. Non è pensabile che una classe politica abbia la forza di storicizzare il fascismo e l’antifascismo e faccia un solenne passo in avanti, pena la sua distruzione. Inoltre, il sistema parlamentare all’italiana fa comodo un po’ a tutti: alle destre antieuropeiste e ai populisti, che difendono la costituzione solo quando lo ritengono un baluardo contro le invasioni burocratiche di Bruxelles, senza dimenticare i parlamentaristi d’antan che conservano il proprio vecchio elettorato di riferimento. Quindi credo che una resa dei conti sostanziale col fascismo sia più fattibile se e solo se il processo di integrazione europea riuscirà a proseguire in vista di una federazione di Stati e se si deciderà di assumere un sistema  semi o presidenzialistico su scala continentale. Stando così le cose in questo momento, resto piuttosto scettico al riguardo.

 

Questo articolo è stato pubblicato il 31 maggio 2017 sul blog dell’autore www.improntedigitali.blogautore.espresso.repubblica.it

Inserito il:05/06/2017 10:57:32
Ultimo aggiornamento:05/06/2017 11:04:08
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