Aggiornato al 27/04/2024

Non sono d’accordo con quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo

Voltaire

Vladimir Josif (Yosl) Bergner (Vienna, 1920 – Australia, 2017) – Franz Kafka, The Vulture

 

Tanto per cambiare: un racconto di F. Kafka

di Vincenzo Rampolla

 

Perché cambiare? Cambiare cosa?

Scrivo di criptovalute e di AI, di tassi di interesse e di Europa, di malaria e di miniere cinesi di terre rare, di anoressia e bulimia. Interessa? Piace, serve? E i commenti? Pochi, rari, sempre gli stessi. Che devo scrivere, di che vuoi che parli affinché io sia letto e sappia di esserlo? Essere gradito, mi basterebbe. Per esistere, non per distinguermi. Non ti agitare. Calma. Va bene così. Varia un poco, sposta il tiro. Qual’é il tuo filone? Dici di saper scrivere. Facci vedere, a che pro svolazzare qua e là. Datti da fare. Sta bene. Ci provo. Odio le abitudini, il conformismo. Voglio tenere sveglia la gente. Mi piace graffiare, dar fastidio, solleticare. Vediamo che sai fare. Ci piace leggere, l’hai capito. Vogliamo leggere, non annoiarci. Tu non sei del paese, tu non sei nulla. Eppure anche tu sei qualcosa, sventuratamente, sei uno straniero, uno che è sempre di troppo e sempre tra i piedi. Parole di Kafka, su misura. Mai sentito? Conosci l’uomo? Sì, uno fissato, un po' triste. Che hai letto di lui? La metamorfosi. E tu? Anch’io. Io pure. Malato, tormentato. Neppure Leopardi era così cupo. Roba stantia. Un solo racconto e di lui sai tutto? Giudicato e bocciato. Vedo in Kafka un maestro, l’ho studiato a fondo. Amo il suo scrivere, diverso, forte, ambiguo. Vela la storia. Ti invita a cercarla. È per lui una forma di preghiera. Leggo un suo racconto? Dire una cosa è troppo poco, le cose bisogna viverle – è già alle costole per dire la sua - Lascia dormire il futuro come si merita. Se lo si sveglia prima del tempo, si ottiene un presente assonnato. Amo la sua follia:

Bisognerebbe leggere, credo, soltanto le cose che mordono e pungono. Se ciò che leggiamo non ci sveglia con un pugno sul cranio, a che serve leggerlo? Affinché ci renda felici, come scrivi tu? Dio mio, felici saremmo anche se non avessimo libri, e i libri che ci rendono felici eventualmente potremmo scriverli noi. Ma noi abbiamo bisogno di libri che agiscano su di noi come una disgrazia che ci fa molto male, come la morte di uno che ci era più caro di noi stessi, come se fuggissimo nei boschi, via da tutti gli uomini, come un suicidio, un libro dev’essere la scure per il mare gelato dentro di noi. Questo credo.

Ti va la lettura ebraica di un racconto di Kafka? Spiegati. È scrittore complesso e profondo, non lo cogli al primo colpo. Di lui devi cercare il pensiero, insabbiato da qualche parte. C’è e non lo vedi. Una ad una, devi scrutare le parole, come si fa con un testo sacro, non puoi fermarti al primo significato, quello letterario, devi continuare e scoprire l’allegoria e poi scavare a fondo, togliere il velo. Franz è ebreo di origine ceca, parla il tedesco con l’accento di Praga e la cosa lo disturba. Impara tardi l’ebraico e l’yiddish da autodidatta e con i figli del rabbino. Vive come ospite della lingua tedesca. Si sente straniero. Kavka è il nome boemo di famiglia, in ceco uccellaccio nero simile al corvo e nulla cambia la pronuncia con una f al posto della v, diviene Kafka, ma resta il corvo, che il padre ficca nell’insegna del laboratorio: doppio cazzotto, entrata e uscita. Da venditore ambulante di cappelli si è fatto ricco, ha sposato la danarosa figlia di un birraio ed è entrato nella cerchia borghese degli ebrei protetti, quelli che evitano il destino del ghetto. Della madre dice: Ieri mi è balzato in testa che mai sono riuscito ad amare mia madre come avrebbe meritato e come ne sarei stato capace. Sacrilego per lui affibbiare il mutter tedesco a una madre ebrea per chiamarla mamma, per sentirla mamma. Ridicolo, sguaiato. Nel freddo mutter, dov’è il sentimento materno?

E che dire del gelido vater per il padre? Il tedesco è obbligatorio, è la lingua del potere e il suo nome diviene Franz, in onore di Francesco Giuseppe, l’imperatore aperto all’emancipazione dei giudei. Studia legge e entra impiegato in una società di assicurazioni, lo deve alle buone parole di un amico, là dentro gli ebrei sono visti di traverso. Quel lavoro gli dà il tempo per la scrittura, la sua ragione di vivere. In casa soffre il rapporto con il padre, distratto dal lavoro e tacciato per avere dimenticato la Legge della Torah nell’educazione e mal sopporta la madre, le sorelle e i fratelli. Troppi. Molto sensibile ai rumori, doloroso per lui trovare in casa momenti di pace per la Legge che lui ha fatto sua, la Legge della scrittura. Lui svela la menzogna dell’esistenza meglio di chiunque altro e non mente mai: fa parte della cerchia di scrittori incapaci di barare, che con la sofferenza pagano il loro candore. Nelle parole c’è la responsabilità – scrive nel diario - perché sono ciò che abbiamo e dobbiamo prenderne massima cura, lavorare sugli oggetti, le persone e gli eventi, nel vivo del reale e non sulle impressioni. Smembrare il testo, dare vita alla parola, negare la metafora, demolirla. Questo il lavoro. Tanto per cambiare, ecco L’Avvoltoio, un raccontino del 1920.

C’era un avvoltoio che menava colpi di becco contro i miei piedi. Aveva lacerato stivali e calze e ora già beccava i piedi. Continuava a menare colpi, poi volò più volte irrequieto intorno a me e riprese il lavoro. Passò un signore che stette a guardare e dopo un poco domandò perché tolleravo quell’avvoltoio.

Sono inerme, risposi. È venuto e ha cominciato a beccare, naturalmente volevo cacciarlo via, tentai persino di strozzarlo ma un animale così ha molta forza e poiché stava già per saltarmi in viso ho preferito sacrificare i piedi. Ora sono quasi straziati. Come si fa a lasciarsi torturare così? disse quello. Uno sparo e l’avvoltoio è spacciato. Davvero? esclamai, E ci vuole pensare lei? Volentieri, rispose. Devo soltanto andare a casa a prendere il fucile. Può aspettare ancora mezz’ora?

           Non lo so, dissi e stetti come irrigidito dal dolore. Poi soggiunsi: Per favore, tenti in ogni caso. Sta bene, disse lui, cercherò di fare presto.

Durante questo colloquio l’avvoltoio aveva ascoltato tranquillo, guardando ora me,ora lui. Ora vidi che aveva capito tutto, si sollevò, piegò la testa all’indietro per prendere lo slancio e come un lanciatore di giavellotto affondò il becco attraverso la mia bocca, dentro di me. Cadendo all’indietro, mi sentii liberato, che nel mio sangue straripante, di cui erano piene tutte le cavità, l’avvoltoio affogava irrimediabilmente.

E' opinione comune che Kafka si trasfiguri in Prometeo per assistere alla propria morte. Che ha a che fare Kafka col mito greco? Prometeo è condannato da Zeus a vedersi il fegato rinato e divorato in eterno da un’aquila, incatenato a una roccia e impotente. Accade che Eracle uccida l’aquila con una delle sue frecce avvelenate e Zeus conceda la libertà a Prometeo purché in cambio gli sveli un antichissimo oracolo di cui è vate e detiene il segreto. Zeus obbliga poi Prometeo a farsi un anello con il ferro delle catene e a incastonarvi un frammento di roccia , a ricordo del suo tradimento: avere rubato agli dei il fuoco e averlo donato agli uomini. E il mito prende una nuova piega nella mischia contro i Centauri, quando Eracle avvelena per caso con una freccia il saggio Chirone, Centauro della stessa stirpe di Zeus. Pur se immortale è condannato all’eterna pena del veleno e per potersi curare Zeus è teste del baratto della sua immortalità con Prometeo. La complessità del mito esula dalla natura di Kafka, aggredito e torturato dall’avvoltoio, di certo non per punizione. Quale colpa terrena gli è imputata? Entra in scena uno spettatore curioso, attratto dall’opera del rapace, in un dialogo assurdo e di macabra ironia. Inerte, rassegnato Kafka si abbandona al sacrificio. Più la sua animalità trabocca di umanità, più essa avvia un inesorabile processo di distruzione, la cui fine non può che essere la morte. L’avvoltoio è l’incarnazione dello stesso Kafka: è l’altra faccia di se stesso, l’intruso, lo straniero. L’altro. Kafka rinuncia alla sua storia e rinnega le proprie radici, deve espellere e liberarsi di quell’io che lo becca e lo rovina, deve sbarazzarsi di se stesso, abdicare all’esperienza e alla vita. È l’ingresso nella follia, rivendicata da Kafka come germe privilegiato. Come difendersi dall’attacco? Senza armi, è preda facile e innocente. A nulla servirà il fucile dello spettatore, troppo tardi quando entrerà in scena. La bestia tutto ha capito ed è pronta ad agire. E l’avvoltoio, che ruolo ha? Ammettere la propria sconfitta e il biasimo derivato? Proiettare il macabro corvo che l’opprime dalla nascita marchiando il suo nome? Per l’ebreo il nome è vita, non solo strumento che designa, è energia del linguaggio e della parola, è legame vitale tra il nome del Creatore e la materia. Mosè in ebraico è un termine costituito di due lettere che formano la parola nome, si chiama perciò nome, senza vita. Ha difficoltà a parlare, il suo linguaggio è sterile, non parla alla roccia per fare scaturire l’acqua nel deserto, la tocca incapace di iscrivere con la parola il nome del Signore nel reale della roccia, non ha la circoncisione alle labbra e al corpo (mila, parola e circoncisione). Per questo è punito e non entrerà in Israele. Non riesce a circoncidere il figlio e lo farà la moglie Tsipora (tsipor, uccello, che purifica con il canto, da tsour roccia e bocca, la bocca nella roccia, il linguaggio nel reale), per marchiare la parola nel corpo, rituale per costruire la via del dialogo tra il giovane e il Signore e con una pietra circonciderà anche il marito. Qual’è allora il messaggio nascosto? Il messaggio nascosto è la morte. Morte liberatrice, abdicazione nella pace, rinuncia totale, abbandono mistico. La beatitudine della morte è il prezzo dell’arte, il fine ultimo e la ragione dello scrivere: l’accesso alla parola. Ogni gesto del rapace è una parola, ogni parola dell’uomo è un codice, un messaggio che l’uccello-Kafka percepisce. Lui lo capisce e risponde e accetta il dolore. Non si chiede perché, quanto ancora durerà, dove vuole andare a finire, dov’è l’obiettivo: c’è una ragione, se mi vuole beccare. Che valore ha l’immortalità, oggetto di commercio profano nel mito greco, quando è bello morire serenamente, dolcemente, in pace? Ecco il fine dello scrivere. Kafka costruisce la sua Legge della scrittura, la tesse come principio che regola il terremoto dell’instabilità delle parole, della violenza sul loro significato moltiplicato senza pudore dalla lingua ebraica, con giochi irriverenti che impediscono di gustarne il succo, la saggezza, la profondità, la verità. L’ebreo compone le lettere di una parola per dare luogo ad altre parole, dà forma a una nuova visione del mondo. Libera il linguaggio dalle contaminazioni e perversioni, dalla violenza e dalla corruzione. Scopre la potenza del linguaggio. Dice la critica: sono prodotti di disintegrazione. Sì, le particelle della lingua attraversano la materia, la sfiorano, sono neutroni che sfidano la natura. Lasciata intatta, la mutano in ombra. Si mette all’ascolto del linguaggio, per vivere un’esperienza di profeta, non di visionario. Si dissocia. Toglie la magia dei suoni e dei brusii del mondo, senza evadere, mette alla prova la verità delle sue storie ben protette dal velo delle sue parabole. Come può il linguaggio essere messo in una posizione di ascolto? Secondo la tradizione ebraica, di antico conio a Babilonia e a Ninive, l’invito al racconto nasce da un evento che prima è stato ascoltato, portato dalla tradizione orale. Senza ascolto non c’è narrazione. Per questo nella Scrittura chi narra sprona ad ascoltare e Davide lo fa con il suo re Saul, leggendogli i Salmi al suono della cetra, lo accompagna, lo invita, come se dovesse vivere non solo di fatti raccontati ma anche di quelli ascoltati fin dai tempi dei tempi. in questa dimensione ebraica dell’ascolto che sta il segreto della verità, della ragione profonda dello scrivere di Kafka. Egli vive in un mondo complementare, esattamente come Klee, la cui opera si trova isolata nella pittura come quella di Kafka nella letteratura. Kafka pre-vede il complemento, senza scorgere cosa ci sia intorno. guidato dalla visione di ciò che ancora manca e sta per arrivare. Sereno e aperto a ricevere, porge orecchio alla tradizione. L'ascolto lo porta alla divinazione, a cogliere solo le frequenze più remote, afferra al volo le cose che non sono intese da nessun altro orecchio. Quindi, c'è una quantità infinita di speranza, ma non per noi. Parole oscure che contengono la speranza di Kafka, la fonte della sua radiosa gioia, le tessere del mosaico della sua follia: verità, dolore del sapere, gioia del saper vivere, del lottare con coraggio e determinazione, del respingere la morte nella preghiera a ogni risveglio, giorno dopo giorno, con letizia, non rassegnazione. La follia che attraversa le storie di Kafka è intrisa di misticismo ebraico. l'evento in cui l'uomo si risveglia consapevole della propria esistenza, muto e cosciente del proprio sé, apre la bocca e emette la parola, L'uomo è perso nell'uomo, come è perso nel mondo. Incontra e si scontra con la sua stessa animalità, la sua follia e si lascia travolgere da essa. Nelle narrazioni di Kafka, il mondo dipende da questa follia, questa perdita di sé che è un modo di lottare contro i poteri superiori del Fato (il dio del Destino, dal latino fari, ciò che è detto, parola della divinità) indossando la maschera dell'infanzia, dell'ebbrezza, del sogno, del trionfo della perdita di memoria: La paura della follia, quella di ogni sentimento, che si sforza di procedere imperterrita e dimentica tutto il resto. Ma allora, cos'è la non-follia (Nicht-Nachheit)? La non-follia è stare come un mendicante davanti all’ingresso, lontano dalla porta e marcire e sprofondare, senza mai entrare.

 

Inserito il:05/07/2019 17:13:28
Ultimo aggiornamento:05/07/2019 17:21:08
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