Portrait of Queen Victoria at the time of her Golden Jubilee in 1887 - Litho - English School
Le civiltà d'Oriente - Storia dell'India - 14
di Mauro Lanzi
- Il Governo della Corona e l’Impero. La nascita del nazionalismo
La guerra del 1857 -58 cambiò per sempre il destino dell’India e mutò in forma radicale i rapporti tra i due popoli, le violenze e le stragi avevano scavato un solco profondo. Da parte inglese prevalsero la sfiducia, il timore o il disprezzo, il ricordo degli assassini perpetrati, dei corpi mutilati, dei fedeli sepoys che sgozzavano i loro ufficiali alimentò a lungo le loro fantasie. Costretti a convivere con la realtà indiana, per calcoli di convenienza e di potere, gli inglesi, che tornarono in massa dopo la normalizzazione, non si mischiavano più con gli indigeni, vivevano in quartieri separati e controllati, costruiti con larghe strade ed eleganti bungalows, dove gli indiani entravano solo come servitori; rimarchevole l’assoluta assenza di matrimoni misti, quando tutti gli altri invasori si erano comunque mescolati, prima o poi, con le popolazioni locali.
Da parte loro anche gli indiani erano ossessionati dal ricordo delle violenze subite, dei villaggi incendiati, delle stragi immotivate di civili; l’India aveva subito, lo abbiamo visto, molte altre invasioni, ma alla fine i capi degli invasori si erano stabiliti in loco, per opprimerli, ma anche per cercare un modus vivendi; i moghul, come narrato, sposavano spesso principesse indù per motivi politici, assumevano capi militari anche scelti tra i loro nemici, per non parlare di ministri e funzionari. Ora gli indiani soffrivano il potere lontano di una società a cui non potevano accedere, neanche quando cercavano di omologarsi ad essa.
Sotto il profilo politico, la rivolta dei sepoys costrinse il governo inglese ad intervenire in forma drastica; il 2 agosto 1858 tutti i diritti fino allora goduti dalla Compagnia in India furono trasferiti alla Corona, l’amministrazione e il viceré furono posti sotto il controllo di un segretario di stato che rispondeva al Primo Ministro; la Compagnia divenne il capro espiatorio di eventi, la cui responsabilità andava largamente condivisa, con tutto l’establishment inglese; sopravvisse un decennio e poi fu sciolta. Bahadur Shah, catturato insieme ai suoi figli, fu detronizzato ed incarcerato in Birmania; i figli erano stati fucilati immediatamente dopo la resa
Nel 1877 la regina Vittoria si proclamò Imperatrice d’India, indossando per la cerimonia il famoso diadema che incastonava il Koh-I-Nor ; nasceva l’Impero Britannico.
Nei confronti della società indiana furono prese misure suggerite dalle recenti esperienze; fu abbandonata la dottrina dell’estinzione, cessarono gli espropri, tutti i principi e regnanti locali furono confermati nei loro diritti, trasmissibili anche per adozione, purché giurassero fedeltà alla Corona; da un lato gli inglesi si assicurarono un argine contro insurrezioni e rivolte, dall’altro rinunciarono ad ogni pretesa di modernizzare ed integrare la società indiana; dopo l’indipendenza, nel 1947, il nuovo stato ereditò qualcosa come 560 enclaves amministrate in forma autocratica, da principi, raja e maharaja, di ogni tipo, di cui i nuovi governanti dopo l’indipendenza dovettero in qualche modo liberarsi; gli ultimi li sistemò Indira Ghandi, con metodi ancora più spicci degli inglesi.
Particolare attenzione fu dedicata dalla nuova amministrazione alla sensibilità religiosa degli indiani; fu raccomandato ai missionari di non esercitare il proselitismo in alcun modo (la religione cristiana è assolutamente minoritaria nell’India odierna), fu deciso di non legiferare più in nessuna forma in materia di riti e di usanze, il sistema delle caste verrà abolito nel 1955, in pratica si rinunciò a qualsiasi tipo di riforma civile. L’unica istituzione in cui si praticarono riforme incisive fu l’esercito; il rapporto tra indigeni ed europei fu ridotto fino uno a due, uno a tre, l’accesso ad alcuni settori critici, come l’artiglieria e le comunicazioni fu ristretto agli inglesi, la leva di truppe locali fu limitata ad alcune etnie e regioni ritenute più affidabili, come i sikh, i ghurka, alcune aree rajiput, esclusi bengalesi e maharatti.
Sotto il profilo dell’economia, gli inglesi considerarono sempre l’India come un mercato per i loro prodotti industriali; in loco veniva favorito l’incremento delle produzioni agricole, anche per compensare le carenze inglesi in materia di prodotti alimentari, come il frumento, e di prodotti grezzi: venivano richiesti cotone (soprattutto dopo il declino delle forniture americane), la juta, il caffè e, soprattutto il tè, di cui era iniziata la produzione in scala industriale per soppiantare l’importazione dalla Cina; le piantagioni di tè iniziate nell’Assam e nel Panjab si estesero sia a sud nel Mysore che a nord nella regione del Darjeling, che da tuttora il nome ad una pregiata qualità di tè indiano. Il programma ferroviario ideato da Dahlhousie fu portato avanti con molto impegno, grazie all’intervento di capitali privati, coprendo per fine secolo i principali collegamenti del paese; le ferrovie servivano a tutti, all’esercito, come ai privati per il trasporto merci e furono accettate con entusiasmo anche dal popolo, che affollava i treni viaggiatori. Le ferrovie sono state uno dei maggiori doni inglesi all’India (a destra la rete ferroviaria nel 1909), anche se tutto il materiale venne importato dall’Inghilterra, in loco si faceva a malapena la manutenzione. Questo era il punto: non era prevista alcuna attività industriale in India, anche le manifatture tessili, che erano una tradizione ed un vanto del subcontinente, furono cancellate da una vergognosa politica daziaria in favore del prodotto inglese.
La reazione si evidenziò a fine secolo, quando il motto ”svadesi” (del nostro paese) divenne il grido di battaglia del nazionalismo indiano, stoffe e tessuti importati venivano bruciati, mentre si sviluppavano impetuose le nuove manifatture tessili indiane; Ghandi si vede spesso raffigurato con un cappellino bianco in testa, tessuto in casa da donne indiane, a simboleggiare questa protesta.
Il movimento di boicottaggio si consoliderà e si estenderà anche ad altri settori all’inizio del novecento, ma per il momento il potere imperiale era ben saldo, grazie soprattutto alla rinnovata fedeltà dell’esercito, che consentì ai diversi viceré di condurre anche operazioni militari oltre i confini indiani; di rilievo è la seconda guerra angloafgana 1878-1880, che si concluse con un grande dispendio di risorse materiali ed umane e con risultati modesti: gli inglesi furono costretti ancora una volta a ritirarsi, dopo aver subito gravi perdite, ma i capi afgani firmarono un trattato che riconosceva all’Impero la guida della politica estera, sottraendo così il paese all’influenza russa (che era quanto gli inglesi paventavano). Migliore successo ebbero la definitiva conquista della Birmania, del Nepal e del Tibet: l’India era divenuta il pilastro dell’Impero britannico.
- Nascita del nazionalismo
L’emergere di una coscienza nazionale indiana al finire del XIX secolo fu il prodotto, in termini sia positivi che negativi, del consolidarsi del potere britannico. Caduti tutti o quasi gli schermi offerti dai governi fantoccio, il contatto diretto con i dominatori rese edotti tutti gli indiani, di ogni classe, casta, o religione, del carattere straniero del potere esercitato dai sahib bianchi e cristiani. Anche l‘apertura agli indiani di numerose scuole di stampo inglese, l’incremento dei commerci e della mobilità, l’impronta nettamente britannica che prese l’amministrazione del paese nel processo di modernizzazione, resero evidenti le distanze che separavano le due società e le due culture.
D’altro canto proprio l’esempio degli inglesi, della loro capacità di porre avanti agli interessi personali l’interesse della nazione, di riconoscere la propria identità nel rispetto delle leggi, di promuovere lo sviluppo tecnologico senza abdicare ai diritti fondamentali dell’individuo, tutto ciò valse a risvegliare un sentimento nazionale nuovo nella storia del paese. Attraverso lo studio della lingua, la partecipazione all’amministrazione, la frequenza a scuole ed università inglesi, l’esperienza di giudici e avvocati nei tribunali (che non potevano giudicare i bianchi, ma applicavano leggi di stampo inglese) gli indiani impararono a conoscere il sistema giuridico inglese e a servirsene per la causa del nascente nazionalismo; in pratica fecero la guerra agli inglesi con le loro stesse armi, la legalità e le leggi. Non è un caso se l’elite che avviò il primo movimento nazionalista era costituita da giovani che avevano studiato in scuole o università inglesi, avevano praticato giornalismo, insegnamento o avvocatura in ambienti inglesi, avevano, a volte, raggiunto anche posizioni di rilievo, qualcuno entrò persino nel Parlamento inglese o nel Council che decideva della politica indiana; dovunque arrivassero, però, dovevano comunque rilevare che ruoli, opportunità, valutazioni non erano le stesse per bianchi ed indigeni e questo li riportava fatalmente alla ricerca di una propria identità nazionale.
Nel 1885 si tenne a Bombay la prima riunione dell’Indian National Congress, fondato su ispirazione di un ornitologo inglese, Allan Hume, un idealista, un generoso visionario. Alla prima riunione parteciparono in tutto 73 rappresentanti di varie regioni del paese; il Congresso non aveva nessun crisma di ufficialità, non poteva dirsi neppure un organismo rappresentativo, era un club dove l’upper class indiana poteva riunirsi per discutere di questioni riguardanti gli interessi generali del paese; era aperto a chiunque, contro una modesta quota di iscrizione, presenziavano anche esponenti del liberalismo inglese, ma i musulmani rimasero quasi del tutto assenti, anche quando la partecipazione si ampliò ed il Congresso cominciò a ad approvare mozioni di grande rilevanza, come la richiesta di riduzione delle spese militari che assorbivano quasi il 50% del bilancio indiano, o modifiche al sistema giudiziario.
Molto spesso ignorate dal viceré e dal suo governo, queste mozioni rappresentarono comunque una palestra di confronto di idee in cui si formarono gli esponenti del nascente nazionalismo indiano; partito da posizioni moderate, la prima leadership cercava una leale emulazione con gli organi costituiti del governo, il Congresso si mosse progressivamente verso atteggiamenti sempre più critici nei confronti degli occupanti inglesi, approvando delibere che nel primo ‘900 assunsero un carattere sempre più rivoluzionario, per approdare dopo il 1920 a posizioni estreme di non cooperazione. Dopo l’indipendenza, il Partito del Congresso, feudo dei Gandhi, ha governato l’India per più di cinquant’anni.
Il limite del Congresso era e sarà anche in futuro il suo orientamento alla maggioranza indù, mentre i musulmani, che comunque contavano per un quarto della popolazione, si organizzavano separatamente in proprie rappresentanze, come la All Indian Muslim League o il Kaliphat. Chi cercò, sia pure con alterne fortune, di superare queste barriere, fu il personaggio di maggior spicco di quest’epoca in India, Mohandas Gandhi, (1869-1948), più tardi detto Mahatma (Grande Anima). Il padre, di origini modeste (Gandhi significa droghiere), era riuscito a divenire divan cioè ministro delle finanze, di uno dei tanti raja superstiti; si era potuto quindi permettere di far studiare il figlio, che si laureò in giurisprudenza in Inghilterra. Rientrato in patria, Gandhi non riuscì però ad avviare una sua attività e dovette infine accettare la proposta di un importante imprenditore indiano del Natal, attuale Sudafrica, dove si era creata una importante colonia indiana; i poverissimi tamil del sud venivano importati come “coolies”, dovevano lavorare gratis per cinque anni, in sostituzione della manodopera negra, poi potevano scegliere se fermarsi o tornare in patria. Tutti sceglievano di restare in una terra molto più fertile e ricca, così il numero degli immigrati crebbe fino a rappresentare una minaccia per i bianchi, che cominciarono prima a bloccare l’immigrazione, poi ad angariare quelli che si erano stabiliti lì, per convincerli ad andarsene. Il giovane avvocato Gandhi dovette quindi confrontarsi per la prima volta con l’arroganza razziale bianca e difendere la sua gente da misure punitive, come l’esclusione dal voto o l’imposizione di un testatico; è in queste circostanze che Gandhi fece il suo tirocinio, mise a punto la tecnica del satyagraha (letteralmente “aggrapparsi alla verità), metodo di non cooperazione non violento, che si proverà comunque assai efficace.
Una grande spinta al movimento nazionalista indiano la diede la prima guerra mondiale; vi furono coinvolti quasi un milione di indiani, che combatterono in Francia come in Mesopotamia; nacque da questa partecipazione una nuova consapevolezza del ruolo che l’India aveva giocato per la sopravvivenza dell’Impero e delle possibilità che essa avrebbe potuto avere liberandosi dai vincoli imperiali; inoltre, le necessità belliche avevano favorito, oltre alla spinta dello svadesi”, lo sviluppo di una industria nazionale, di cui le acciaierie Tata furono l’esempio più significativo.
In questa nuova situazione Gandhi poté mettere alla prova le tecniche di resistenza passiva sperimentate nel Natal; le occasioni non mancavano, dai coltivatori oppressi nelle campagne, ai lavoratori sfruttati dell’industria tessile, al rifiuto del pagamento di imposte troppo onerose.
Viaggiando per tutto il paese in treno, sempre in terza classe, vestito come il più povero dei poveri, Gandhi raccoglieva intorno a sé gente ed attenzione in ogni località che toccava, parlava alle masse indiane come nessun politico prima di lui aveva saputo fare, accogliendo su di sé le sofferenze di tutto un paese. Predicava il regno di Dio in terra, da raggiungere attraverso la sofferenza e la non violenza, emanava il carisma di un guru, aveva la forza trascinante che solo la religione poteva avere in India; la meta che prospettava a tutti era lo svaraj, l’autodeterminazione, unica forma per giungere ad una società più giusta. Parlava anche agli “intoccabili”, i paria, cinquanta milioni di persone in India, che erano fra tutti i più disperati, in alcune località erano costretti a girare con una campana al collo, perché le caste più elevate si sentivano contaminate anche se solo sfiorate dalla loro ombra. Non ci poteva essere “svaraj” sosteneva Gandhi, se il flagello dell’intoccabilità avesse continuato a stravolgere l’induismo e su questo argomento non si arrese mai.
La reazione del governo imperiale ebbe due aspetti; da un lato, il nuovo viceré Lord Montagu, tentò la via di una riforma costituzionale in India, che aprisse, almeno a livello locale, i posti chiave dell’amministrazione agli indiani; anche al centro, il consiglio legislativo imperiale avrebbe dovuto accogliere dei rappresentanti indiani. D’altro canto, a fronte dell’estendersi del movimento di protesta, il potere giudiziario esigeva ed ottenne norme repressive più severe ed una più rigida censura sulla stampa. Gandhi lanciò una campagna nazionale contro queste misure e promosse per la prima settimana di aprile manifestazioni di rifiuto e non collaborazione. Nella città di Amritsar, città sacra per i sikh, i capi del movimento furono allora arrestati e deportati senza processo, i conseguenti disordini repressi con durezza. L’esercito inviò rinforzi, proibendo ogni assembramento: il giorno 13 Aprile 1919 una moltitudine proveniente anche dalle campagne si era riunita in un bagh (giardino) per celebrare una festività indù: il generale comandante ordinò ai suoi uomini, gurkha e baluchi, di aprire il fuoco sulla folla, trasformando il giardino in un cimitero nazionale; si contarono più di 300 morti e migliaia di feriti. Il massacro del Jallianwala Bagh, o di Amritsar, come viene ricordato, e le ulteriori vessazioni che seguirono ebbero risonanza nazionale, trasformando migliaia di indiani moderati, da sostenitori dell’Impero in accesi nazionalisti: pochi giorni dopo entrarono in vigore le riforme propugnate da Montagu, troppo tardi, l’età della collaborazione era definitivamente tramontata.