Aggiornato al 03/11/2024

Non sono d’accordo con quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo

Voltaire

Dmitrij Zuj (Vilnius, Lithuania – Contemporaneo) – Tramonto indaco a Lerici

 

L’indaco, tra l’azzurro e il viola

di Cesare Verlucca & Giorgio Cortese

 

Cari amici,

lasciateci fare una premessa, che non vuole essere una promessa, ma un fatto è certo, viviamo in terra da sempre tra i colori: talora ci soffermiamo a esaminarli e ne traiamo sensazioni; tal altra rimangono dove sono senza sollecitare pensieri particolari, per il semplice fatto che sono lì, e noi non potremmo modificarli ad arte.

Abbiamo cominciato a prendere in considerazione il Rosso, siamo passati al Blu, poi al Verde, e successivamente al Giallo e abbiamo in programma d’arrivare al Bianco, sia come il Monte che come il colore che sembra quantitativamente di prevalere sugli altri colori; ma per intanto ci occupiamo dell’Indaco, che è una particolare tonalità a metà tra l'azzurro e il viola, oltre a essere simbolo di spiritualità e di risveglio interiore.

Isaac Newton aveva definito l’indaco come sesto colore dell'arcobaleno: una tinta difficile da definire che è possibile ammirare quando si formano i suggestivi archi colorati in cielo.

Si tratta di una tinta antichissima, usata per tingere corpo e vestiti e fortemente connessa alla spiritualità. Grazie alle sue proprietà calmanti è anche molto apprezzata nell'arredamento, essendo in grado di comunicare una sensazione di pace e rilassamento.

L’indaco è stato usato in Asia fin da quattromila anni fa, quando le popolazioni dell'India notarono che dalla pianta di indigofera tinctoria si poteva ricavare un pigmento di origine naturale che riusciva a tingere le stoffe. Il procedimento dal quale si ricava l'indaco consiste nel macerare le foglie dell'indigofera e farle fermentare a contatto con una base (come ad esempio la soda,) e l’ossigeno; la sostanza che si ottiene assume il colore indaco, ed è infatti probabile che il nome derivi proprio dalla zona di crescita di questa pianta.

L'estratto è stato usato anche dai Romani, dagli Egizi e dai Persiani, i quali apprezzavano questa tinta a cavallo tra il blu e il viola. L'indaco è entrato poi a far parte delle tradizioni funerarie e di sepoltura di molte culture in giro per il mondo: dal Perù all'Indonesia, dal Mali alla Palestina. Gli antichi tintori egizi iniziarono, attorno al 2400 a.C., a intessere fili di stoffa blu nei sudari delle mummie; un paramento reale ritrovato nell'amplissimo guardaroba funerario di Tutankhamon, che regnò attorno al 1333-1323 a.C., era quasi completamente indaco.

È sicuro che, nel I° secolo a.C., il romano Plinio nella sua Storia naturale menzioni esplicitamente l'indaco, che descrive come un pigmento o una tintura nera che viene dall'India, e stemperato produce una mirabile mistura di purpurea e ceruleo. Alla fine del XIII secolo, Marco Polo aveva visto con i propri occhi (o almeno sentito raccontare) la preparazione della tintura, «qual fanno d'herbe, alle quali levateli le radici, pongono in mastelli grandi pieni d'acqua, dove le lassano star finché non si putrefanno, et poi di quelle esprimono fuor il sugo, qual post'al sole bolle tanto, che si dissecca, e fassi come una pasta, qual poi si taglia in pezzi, al modo che si vede che viene condotta a noi».

L'indaco fu introdotto in Europa verso il sec. XVI. Fino alla fine del sec. XIX esso fu esclusivamente estratto dalle piante del genere Indigofera, la cui coltivazione era fiorente in India, a Giava, nell'America centrale e in Cina. Questa tinta occupa un ruolo importante nella cultura di molti popoli.

Il tagelmust, o in grafia alternativa taguelmoust e in francese chèche, è il formale simbolo dell’identità Tuareg, e cioè un velo tinto con l’indaco e lungo fino a sette/otto metri, d'aspetto lucido e cangiante, che riluce di metallico, e viene arrotolato attorno alla testa fino a coprire il volto. Non ha tanto funzioni estetiche quanto pratiche, poiché serve per riparare dal vento, dal sole e dalla sabbia del deserto. I veli sono avvolti in tanti modi, mai casuali e rispondono a precise esigenze estetiche e di riconoscimento. Il velo oltre a proteggere dalla polvere e dal sole, copre la bocca proteggendola dagli spiriti negativi, portatori del malocchio.

Durante le feste l'uomo, più è importante, si coprirà il volto lasciando intravedere solo gli occhi. Il curioso effetto è dovuto dal fatto che il colore viene battuto direttamente sul tessuto, invece di essere immerso, a causa di scarsità d'acqua. Pian piano il colore va impregnando la pelle, lasciando sul volto di chi l’indossa il caratteristico colore che è valso ai Tuaregh il soprannome di uomini blu.

In Africa il colore per antonomasia è il blu indaco del cielo. Recita a tal proposito un proverbio del Ghana: “Un tessuto senza blu è come l'Africa senza palme da cocco”. La sua valenza, oltre che meramente estetica, è spirituale, magica. In Togo, i tessuti color indaco, vengono acquistati come doni famigliari in occasione delle feste, mentre in Benin sono indossati durante le danze cerimoniali vudù. In letteratura, infine, viene citato nel “Trionfo della morte” del 1894, quarto romanzo di Gabriele D’Annunzio.

Sempre riferendosi al costo ancora troppo elevato del prodotto naturale, nell’Ottocento molti chimici cercarono di sintetizzare l’indaco, benché non si conoscesse ancora la sua struttura chimica. Questa venne attribuita nel 1883 ad Adolf von Baeyer, dopo aver provveduto alla sua sintesi nel 1880 a partire dal toluene, un idrocarburo che verrà poi utilizzato come solvente in sostituzione del più tossico benzene, al quale somiglia sotto molti aspetti. Il problema tuttavia permaneva, dal momento che il toluene era comunque un prodotto molto difficile da ottenere. Qualche anno prima, il chimico Otto Unverdorben aveva ottenuto un composto aromatico per idrolisi di indaco naturale in soda caustica che chiamò anil, in riferimento al nome sanscrito dell’indaco, nili.

Gli Arabi presero a prestito il termine e lo riadattarono in al-nil, ovvero blu. Gli Spagnoli terminarono l’opera derivando ulteriormente il nome in anil per indicare l’indaco. Il prodotto ottenuto dalla decomposizione era dunque l’anilina, il capostipite dei moderni coloranti sintetici. Bayer trovò una procedura sintetica che partiva proprio dall’anilina e che ancora oggi viene utilizzata industrialmente.

Nel 1897 si ha la prima commercializzazione dell'indaco sintetico da parte della BASF (azienda tedesca), che mise a disposizione circa venti milioni di marchi d'oro per quell'impresa.

L'indaco è sempre stato un caposaldo del commercio globale, ed anche oggi l'industria globale del denim, dominata dal blu indaco più classico, valeva ben 54 miliardi di dollari nel 2011. L’indaco è un colore che si è scelto il nome più bello ed è fiero perché è situato in prima fila nell’arcobaleno, ma se lo osserviamo con attenzione ci rilassa con le sue sfumature che vanno dal blu al viola.

Evviva l’indaco, il “Dipinto di blu”, che ispira sempre positività.

Sic transit gloria mundi.

 

Inserito il:15/01/2023 17:15:31
Ultimo aggiornamento:15/01/2023 17:21:26
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