Aggiornato al 27/04/2024

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Voltaire

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La Rivoluzione Americana (3) - Le migrazioni religiose e i Lord Proprietari

di Mauro Lanzi

 

Il successo dei puritani in Inghilterra con l’insediamento di Cromwell ridusse considerevolmente il flusso di migranti di questa fede; poi con la Restaurazione (Carlo II Stuart), nuove ondate di coloni seguirono, sempre sulla spinta di motivazioni religiose, confermandosi così la propensione dei governi inglesi (ed anche europei) a liberarsi dei dissidenti religiosi, consentendo loro di rifugiarsi nelle colonie; le modalità con cui si crearono questi nuovi insediamenti coloniali furono però differenti da quanto visto in precedenza con le “Compagnie”.

I primi a muoversi furono i cattolici, altra fascia di perseguitati, detestati dal potere politico ancora più dei puritani, sia con gli Stuart che con Cromwell; così nel 1632 il giovane Lord Baltimore, la cui famiglia si era di recente convertita al cattolicesimo, ottenne da Re Carlo I una “Carta” che gli assegnava in concessione una vasta zona, nel Chesapeake, a nord del fiume Potomac fino ai monti Appalachi, che Baltimore avrebbe potuto organizzare e governare secondo i suoi criteri; il Lord era il “Proprietario “ dei territori assegnati, primo di una serie di personaggi di simile investitura.

Baltimore si servì dei suoi poteri e della discrezionalità riconosciutagli per reclutare un numero crescente di coloni di religione cattolica, quindi a lui legati da vincoli religiosi, con i quali popolò la colonia secondo i suoi criteri; alla colonia fu dato il nome di Maryland, in onore della moglie del Re, Maria Enrichetta, guarda caso anche lei di religione cattolica; anche la prima capitale fu denominata St Mary’s City; oggi la città principale dello stato, in onore del fondatore, si chiama Baltimora.

In pochi anni affluirono 8000 coloni, che i Baltimore (al primo Lord seguì il fratello) seppero insediare in modo efficiente, organizzando una comunità politica di stampo feudale; il governatore, un Baltimore per definizione, assegnava gli appezzamenti più cospicui, detti proprietary manor, ai parenti di sangue e via via i feudi minori ad altri nobili a lui vicini: ogni signore feudale aveva giurisdizione sulla terra e sul personale che vi lavorava. 

La coltivazione che si affermò, dopo le iniziali colture di sussistenza, fu la coltivazione del tabacco che, come il Virginia, assicurò alla colonia un’economia florida, che richiedeva però un’abbondante manodopera; i Baltimore quindi realisticamente conclusero che l’immigrazione non poteva essere limitata ai cattolici, ma si doveva aprire anche ad anglicani e dissidenti; non solo, ma con un incredibile sfoggio di lungimiranza, consentirono con l'Atto di Tolleranza del Maryland del 1649, che il Maryland  fosse uno dei primi paesi (o il primo paese) al mondo a permettere in maniera esplicita la libertà religiosa, sebbene limitata unicamente alle varie confessioni cristiane che riconoscessero la Trinità; addirittura, quando la Virginia impose il credo anglicano, molti puritani di quella regione si trasferirono in Maryland, insediandosi nei pressi di una località in seguito denominata Annapolis (oggi è la capitale), in onore  della regina Anna.  

Evidentemente l’originaria impostazione feudale non poteva reggere; i nuovi arrivati, molti dei quali divenuti piccoli proprietari, esigevano di avere voce in capitolo ed il governatore dovette infine concedere loro la partecipazione ad un’assemblea di freeman, che era chiamata a validare le leggi; il Consiglio del governatore, costituito da cattolici, grandi proprietari terrieri, restò a formare la Camera Alta, mentre la maggioranza protestante controllava la Camera Bassa; in questa camera e fuori di essa il grosso della popolazione continuò a battersi per decenni per abolire i privilegi delle classi dominanti, lo sviluppo politico del Maryland fu uno dei più travagliati e convulsi di tutte le colonie americane, anche se alla fine si impose lo struttura amministrativa delle altre colonie.

La conquista della Nuova Olanda, di cui si è parlato in precedenza non fu che il prologo alla spinta colonizzatrice impressa dall’Inghilterra dopo la restaurazione degli Stuart nel 1660 con Carlo II, che venne a riempire il vuoto politico creato dalla morte di Cromwell e dall’incapacità del figlio a sostituirlo, malgrado il pomposo titolo di “Lord Protettore”.

In quell’epoca la popolazione delle colonie americane aveva raggiunto le 50000 anime, distribuite tra Virginia, Nuova Inghilterra e Chesapeake o Maryland, ma nessuno aveva pensato a reclamare i territori adiacenti a questi primi insediamenti, cioè la regione compresa tra la Nuova Olanda ed il Maryland a nord, e la Virginia e la stazione spagnola di St Augustine in Florida a sud.

L’occupazione di questi territori fu dovuta alla spinta impressa da Carlo II e seguì il canovaccio già sperimentato nel Maryland, cioè il modello coloniale dei “Lord Proprietari”, che venivano scelti tra i cortigiani più vicini al Re. Nell’atmosfera di ottimismo e di frenesia competitiva che seguì l’insediamento dello Stuart, i suoi sostenitori si diedero a raccogliere le risorse necessarie a nuove iniziative, incoraggiati in ciò dal favore regale.

Il primo a muoversi fu lord Colleton che era proprietario di una vasta piantagione alle Barbados, fino allora la più redditizia delle colonie inglesi per la coltura della canna da zucchero e per l’impiego su vasta scala di schiavi come manodopera; proprio questi due aspetti avevano consentito ad isole originariamente popolate da criminali deportati di svilupparsi rapidamente. Colleton intuì che a sud della Virginia esistevano condizioni favorevoli alla creazione di vasti latifondi, sul modello delle Barbados e riuscì a convincere altri sette eminenti personaggi a partecipare in una compagnia cui fu concessa nel 1663 una “Carta” (poi detta Carta della Carolina), che garantiva ai “Proprietari” il possesso di tutti i territori che si estendevano dalla Virginia fino ai possedimenti spagnoli, insieme con il pieno diritto di governo: a questa nuova colonia fu imposto il nome di Carolina, dal nome del Re.

Evidentemente i Proprietari non avevano alcuna intenzione di dedicarsi ad amministrare queste terre lontane; contavano di lucrare rapidi profitti dal commercio di pellicce ed altri beni oltre che dall’assegnazione e la vendita di terreni. I Proprietari si riservarono i diritti di assegnazione delle terre, conservando vaste zone di loro diretta proprietà, e mantenendo il diritto di veto su ogni disposizione o legge locale. Queste regole non erano certamente atte ad attirare nuovi coloni, si inimicarono i pochi già presenti, il commercio non decollò mai, mentre tribù di indiani ostili rendevano la vita precaria ai pochi residenti; già nel 1669 l’impresa sembrava sull’orlo del fallimento, quando uno degli iniziatori, lord Ashley, tra l’altro uno dei maggiori politici del tempo, decise di impegnarsi di prima persona nell’iniziativa, assistito dal suo segretario particolare, John Locke, uno dei più grandi pensatori politici di quei tempi.

Ashley stabilì una nuova regola, gli sponsor dell’impresa dovessero essere anche i suoi finanziatori; con i capitali raccolti armò tre navi che imbarcarono alcuni coloni dall’Inghilterra, altri dalle Barbados e stabilì poi una nuova località come centro degli insediamenti, Oyster Bay, poi denominata Charles Town, oggi Charleston; la scelta si dimostrò più felice delle precedenti, la baia era aperta alla navigazione atlantica, era al centro di terre fertili e di una rete di fiumi navigabili.

Ashley e Locke si preoccuparono anche di dare alla colonia un assetto costituzionale, descritto in un documento detto Fundamental Constitution of Carolina; si immaginava in questo testo che l’amministrazione della colonia fosse in mano ad una nobiltà terriera, organizzata su tre livelli, come nei feudi, la quale doveva gestire anche la giustizia sulla base della legislazione inglese; questo utopico ordinamento non trovò mai attuazione, la colonia si organizzò più o meno come le altre, le sole clausole che trovarono attuazione furono quelle riguardanti la tolleranza religiosa e la rapida naturalizzazione degli immigrati.

Queste disposizioni favorirono l’afflusso di ogni tipo di dissidenti, dai presbiteriani, ai battisti, agli ugonotti francesi, già nel 1685 la colonia contava con 7000 abitanti, ma la spinta maggiore allo sviluppo dell’economia la dettero gli immigrati dalle Barbados, parecchie migliaia di duri e stagionati contadini di frontiera, rovinati in patria dall’estensione dei latifondi per la coltivazione della canna da zucchero, che si trasferirono in Carolina attratti dall’abbondanza di terre fertili.

I coloni provenienti dalle Antille erano esperti in coltivazioni subtropicali, sapevano come rendere redditizio il lavoro nelle piantagioni anche in tempi brevi; grazie a loro la colonia si salvò dagli “anni della fame”, che avevano caratterizzato gli inizi di altre colonie, ma ciò fu anche e soprattutto dovuto all’impiego di schiavi, che in parte i coloni avevano portato con sé dalle Barbados, in parte furono acquisiti localmente riducendo in schiavitù gli indios o importando manodopera negra dall’Africa. Si diffusero inoltre negli ultimi anni del secolo nuove coltivazioni, come il riso e l’indaco, particolarmente redditizie, ma richiedenti abbondanza di manodopera, che ancora una volta fu procurata importando schiavi dall’Africa.

Già agli inizi del 1700 la popolazione negra superava i bianchi e da allora fu applicato il brutale ed inumano Black Code copiato dalle Barbados 

Il risultato dell’iniziativa dei cortigiani di Carlo II, cui nel 1663 era stata donata la Carolina, fu quindi il nascere di una economia prospera, ma anche di una spietata società razzista, in cui l’emergere di grandi fortune, basate sui latifondi e sullo sfruttamento della schiavitù contrastava in misura stridente con le condizioni di vita dei piccoli proprietari e, soprattutto, della maggioranza nera della popolazione; esito ben distante dall’utopia  sognata da Ashley e Locke nel loro progetto di costituzione.             

L’origine del Jersey, East e West Jersey, poi confluiti nel New Jersey, fu simile a quella della Carolina; in questo caso fu il duca di York che concesse a due cortigiani, John Berkeley e John Carteret la proprietà di un territorio non molto esteso, compreso tra i fiumi Delaware e Hudson, di cui era divenuto titolare dopo la conquista della Nuova Olanda.

Il nome Jersey deriva proprio dal fatto che uno, Carteret, era nato sull’isola di Jersey; come sempre, i due proprietari non dimostrarono alcun interesse nell’organizzare o gestire la nuova colonia, che fu presto divisa in due parti e divennero oggetto di una disordinata speculazione fondiaria, condotta da personaggi senza scrupoli che miravano solo a lucrare sul valore dei terreni; si insediarono quindi in questa colonia comunità soprattutto religiose di ogni tipo, prima  quaccheri, che migreranno più tardi, non tutti, in Pennsylvania, poi  presbiteriani, il cui insediamento fu finanziato da imprenditori scozzesi, poi battisti, ugonotti, membri delle Chiese riformate di Olanda e Germania, infine anche cattolici irlandesi e coloni delle Indie Occidentali. Gestire un simile aggregato di etnie non sarebbe stato facile per nessuno, soprattutto per dei proprietari assenti e disinteressati, per cui alla fine la corona riassunse il controllo e riunì le due porzioni nella colonia regia del New Jersey, assegnandole un governatore di propria nomina.

Una delle colonie maggiormente legate, almeno nelle origini, alla matrice religiosa fu la Pennsylvania, che porta ancora il nome del suo fondatore, William Penn. La fondazione della Pennsylvania è legata ad una delle sette religiose più radicali ed intransigenti del XVII secolo, i quaccheri; il nome deriva dall’inglese “to quake”, oscillare, e fa riferimento al modo di procedere ondeggiante delle comunità, quando intonavano i loro canti religiosi.

I quaccheri erano seguaci di una dottrina che predicava la ricerca della luce interiore racchiusa in ogni anima, il pacifismo ed il libero arbitrio, il tutto, ovviamente, senza chiesa, clero e liturgie; erano gente mite, ma anche orgogliosa ed inflessibile nel difendere i propri principi, al punto da rifiutare il giuramento di obbedienza alle istituzioni, che pure altri dissidenti accettavano. Furono perciò oggetto delle dure persecuzioni religiose scatenate in Inghilterra dopo gli anni ’70 del XVI secolo, per reprimere le agitazioni confessionali, soprattutto cattoliche.

Emerge allora in queste circostanze un rampollo della nobiltà inglese, convertitosi al quaccherismo, William Penn, il quale, grazie anche alla sua familiarità con gli ambienti di corte, ottenne nel 1681 dal re Carlo II l’assegnazione dell’ultima porzione di costa nordamericana non ancora concessa, compresa tra New York, Maryland e New Jersey, circa 29 milioni di acri, un territorio immenso, pari quasi a tutta l’Inghilterra. Che cosa abbia indotto il Re ad una donazione così generosa è difficile dirsi, se le benemerenze della famiglia di Penn, oppure il desiderio di liberarsi di una setta assai fastidiosa, non si sa; fatto sta che Penn divenne l’unico “Proprietario” di queste terre, essendo dotato anche dell’autorità di formare un governo, nominare funzionari pubblici, emanare leggi, soggette solo al veto della corona.

Penn approfittò subito di queste deleghe per emanare un documento detto “Frame of Government”, che era un qualcosa a metà tra un dettato costituzionale ed un codice di doveri morali; venivano ad esempio sancite l’assoluta libertà di coscienza o di culto, ma si stabilivano i principi di un’amministrazione, ispirata agli ideali dei quaccheri, ma per niente democratica: il governo era affidato ad un governatore, designato dal proprietario, affiancato da un consiglio, che riuniva iniziativa legislativa e potere esecutivo; un’assemblea eletta dai soli proprietari terrieri poteva unicamente accettare o respingere le leggi; in questo disegno ispirato ad un benevolo paternalismo, Penn non pensava a se stesso o ai proprietari terrieri quali espressioni di una gerarchia feudale, come nel Maryland, ma come capi o punto di riferimento di una comunità basata sull’amore fraterno, tollerante, libera, sicura e soprattutto pacifica.

La Pennsylvania fu la più pubblicizzata fra tutte le colonie americane e ciò favorì l’afflusso di coloni da tutta Europa, non solo quaccheri inglesi, ma anche tedeschi, olandesi, svedesi attirati dalla fertilità delle terre, dai generosi criteri di assegnazione dei fondi, oltre che dalla certezza di tolleranza in materia religiosa. Il primo aggregato urbano (e futura capitale) si creò alla foce del fiume Delaware con il nome di Filadelfia, “Città dell’amore fraterno”.

La Pennsylvania si rivelò subito un successo sotto il profilo economico e demografico, già nel 1700 contava con 21000 abitanti, in maggioranza quaccheri, la cui emigrazione era facilitata dai generosi finanziamenti delle comunità della madrepatria. I nuovi arrivi però non si dimostrarono affatto disposti ad accettare il regime paternalistico ideato da Penn; reclamavano a gran voce un ruolo determinante nella formulazione delle leggi e nell’assegnazione delle proprietà fondiarie e nel 1701 emanarono, di propria iniziativa, un nuovo “Frame of Government”, che escludeva sia Penn, sia  il Consiglio dal potere legislativo, che veniva attribuito esclusivamente all’assemblea degli eletti dai possidenti; questo testo, non del tutto democratico, rimase come Costituzione della Pennsylvania fino alla Rivoluzione Americana; quindi la Pennsylvania fu l’unica colonia retta da un sistema monocamerale.

Malgrado Penn avesse perso il controllo della sua colonia, malgrado il fallimento degli ideali utopici con cui era stata creata, malgrado la litigiosità e la mediocrità dei suoi nuovi leader, la Pennsylvania divenne un grande successo, il centro pulsante dell’economia e della cultura nord americana. Non a caso il giovane Benjamin Franklin si trasferì nel 1723 a Filadelfia, divenuta ormai una città di 10.0000 abitanti.               

Una considerazione per concludere: il colonialismo aveva vissuto una prima fase di affermazione subito dopo le scoperte di Colombo, fase che aveva visto come protagonisti i regni ed i governi, portoghese e spagnolo, che si erano impegnati in prima persona nella organizzazione e nella gestione dei territori occupati dai “Conquistadores”.

Con la colonizzazione del Nord America tutto cambia, le imprese coloniali sono tutte espressione dell’iniziativa privata, che impegna risorse, uomini e capitali propri in questi progetti; le compagnie inglesi piccole o grandi che danno vita agli insediamenti sulle coste del Nord America sono finanziate da società di capitale privato, che intendono gestire per proprio conto i traffici sviluppati ed i territori occupati.

I governi inglesi si preoccupano di aiutarle, concedendo loro copertura legale, diritti di monopolio, a volte anche esenzioni daziarie, raramente aiuti militari, ma, almeno agli inizi non si propongono di sostituirsi ad esse; addirittura non si preoccupano neppure di gestirle, i coloni si amministrano da soli, la madre patria si preoccupa unicamente di riscuotere i dazi sul commercio; vedremo in seguito quali conseguenze avrà questo atteggiamento detto di “benign neglect”.

Per il momento merita sottolineare che l’intraprendenza mercantile ed imprenditoriale, il gusto del rischio nati con queste imprese e nutriti in seno ad una nuova borghesia, più o meno legata al potere politico, furono la molla del travolgente sviluppo economico dell’America, ma anche dell’Inghilterra nei secoli a seguire.

 

Inserito il:15/03/2024 15:34:31
Ultimo aggiornamento:15/03/2024 16:10:38
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