Aggiornato al 06/11/2024

Non sono d’accordo con quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo

Voltaire

Kestutis Kasparavicius (Aukstadvaris, Lituania, 1954 - ) - “Mole” (La talpa)

 

La tana di Kafka come patologia dell’abitare

di Anna Maria Pacilli

 

Kafka scrive “La tana” nel 1923-1924, che è il racconto di un animale che, ossessionato dall’idea prevalente di essere aggredito, costruisce un rifugio sotterraneo sempre più complicato.
“Ho assestato la tana e pare riuscita bene”: è l’inizio del racconto.
Le sue preoccupazioni, però, non finiscono con la costruzione di questa “fortezza” e, via via, sorgono, nel tempo, nuovi motivi di preoccupazione.
La tana è piena di vie, di uscite di sicurezza, di spazi dove sono raccolte le provviste per poter fare fronte a lunghi mesi di “reclusione”. Ma l’animale non riesce a staccarsi dalla tana, se ne allontana e poi torna sempre a sorvegliarla. Quando è nella tana non si fida di nessuno che sia fuori.
“E’ relativamente facile avere fiducia in qualcuno se nello stesso tempo lo si sorveglia o almeno lo si può sorvegliare, forse è persino possibile avere fiducia a distanza, ma fidarsi dall’interno della tana, cioè da un altro mondo, di uno che stia fuori mi sembra impossibile”.

Il prezzo è la solitudine, prezzo che non pare neppure troppo alto da pagare.
“No, no, tutto sommato non devo proprio lamentarmi di essere solo e di non avere nessuno di cui fidarmi. Così certamente non perdo alcun vantaggio e forse mi risparmio qualche danno. Fiducia posso avere soltanto in me e nella tana”.

La costruzione della tana, però, sembra non avere mai fine, è necessario rinforzarla con la creazione di vari ingressi e uscite; il pericolo è sempre in agguato.
Si avvertono rumori, si sentono sibili. A nulla servono gli inviti alla calma che il protagonista rivolge a se stesso.
“La fantasia non si ferma e io tengo effettivamente a credere – non ha scopo negarlo a me stesso – che il sibilo provenga da un animale, non già da molti e piccoli, ma da uno solo e grande”.

Il rumore avanza. E’ un sibilo o fischio? Lo si ode dappertutto, regolarmente, di giorno e di notte. L’animale si sente circondato.

“Avrei dovuto prevedere tutto ciò e non pensare soltanto a difendere me stesso – con quanta leggerezza e inutilità ho fatto persino ciò! – ma a difendere anche la tana. Bisognava provvedere anzitutto a che le singole parti della tana, possibilmente molte, quando fossero attaccate da qualcuno, venissero isolate mediante frane che si potessero provocare … “

Il nemico è lì fuori, lo sente sempre più vicino, sta scavando intorno.

Il protagonista pensa che, alla peggio, potrebbe essere possibile una condivisione delle sue provviste, anche se la situazione più probabile, se si dovessero incontrare, è lo scontro: “l’uno contro l’altro ugualmente furenti, nessuno prima e nessuno dopo, con gli artigli e coi denti e con novella fame, anche se saremo del tutto sazi”.

A tratti, però, riacquista fiducia, il pericolo sembra allontanarsi, il rumore diventa molto attenuato e prevale la speranza che quella paura potrebbe rimanere solo “una brutta, ma benefica esperienza” da spingerlo a migliorare la tana.

“Quando sono tranquillo e il pericolo non è immediato, sono ancora ben capace di ogni sorta di lavori considerevoli; può darsi che l’animale, date le enormi possibilità che ha a sua disposizione in rapporto alla sua capacità di lavoro, rinunci ad ampliare la tana in direzione della mia e trovi compenso da un’altra parte. Nemmeno questo si può raggiungere tramite trattative, ma soltanto con l’intelligenza dell’animale stesso o con una pressione esercitata da parte mia”.

Il racconto altro non è se non l’allegoria della nostra condizione.
La paura dell’altro, che ci attanaglia, ci fa immaginare di poter adottare tecniche di controllo sofisticate, senza che per noi sia possibile rendersi conto che il nemico non è fuori, ma dentro di noi. Quando dimentichiamo di interrogarci su di noi stessi e di prenderci cura delle possibili risposte negative che ne deriverebbero, l’Io diventa Altro, un altro minaccioso e terribile.

Non fare i conti con le nostre paure provoca una spirale viziosa tra paure e bisogno di sicurezza. Bisogno, che non è mai possibile soddisfare del tutto e questo non fa altro che alimentare le nostre paure ed i nostri sospetti all’infinito. La posta in gioco diventa sempre più alta. Rimaniamo, così, sempre più soli e sempre meno protetti da quella fortezza che abbiamo costruito ma che è sempre più incapace di proteggerci.

 

(Pubblicato anche sul sito dell’Autrice: www.annamariapacilli.it)

 

Inserito il:29/05/2019 15:13:14
Ultimo aggiornamento:29/05/2019 15:22:46
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