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DALLA POLTRONA (6)
Presentazione di libri, film, eventi.
di Giacomo D. Ghidelli
Con l’ambiente nell’anima
Caterina ha 16 anni e sta andando nella sua amata Sardegna, dove conta di prendere il brevetto di istruttrice di vela. Troppo giovane? No: nessuna meraviglia per una che va per mare guidando gommoni da quando aveva 10 anni. Adesso è sul traghetto: eccitata non riesce a dormire e quindi va a poppa per osservare il mare e la scia bianca della nave. Che, a un certo punto, viene interrotta da sagome nere. Che bello, pensa Caterina: sono i delfini. Ma dopo pochissimo si accorge di essere in errore. In realtà sono i sacchi della spazzatura che un marinaio sta gettando in mare. È sconvolta, quasi paralizzata dall’orrore. Vorrebbe gridargli qualcosa, ma non fa in tempo a riprendersi che il marinaio non c’è più. E Caterina se ne resta lì, con il suo senso di colpa per non essere riuscita a fare alcunché.
Preso il brevetto è tornata a Milano. Passa del tempo e lei sta andando al lavoro pedalando sulla sua bici. A un tratto vede che dal finestrino di un’auto una mano lascia cadere un pacchetto di sigarette vuoto. Lei lo raccoglie con l’intenzione di restituirlo: l’impotenza provata sul traghetto ogni tanto riemerge prepotente in attesa di riscatto, ma il semaforo diventa verde. L’auto parte ma lei la insegue sino a raggiungerla a un nuovo semaforo rosso. Educatamente, e con un gran sorriso, bussa al finestrino: una signora bionda e tutta abbronzata lo abbassa. “Buongiorno signora, mi scusi ma deve esserle caduto questo”, dice Caterina porgendole il pacchetto accartocciato. La signora non lo prende e fa per alzare il finestrino, ma Caterina, con un “pallonetto perfetto” lo fa passare da una fessura ancora aperta.
Il bel libro di Caterina Nitto intitolato Una vita da attivista (pubblicato nel 2014 da Mondadori[*]) può a ben ragione essere considerato un vero romanzo di formazione. E come ogni romanzo di formazione inizia raccontando alcuni degli episodi che hanno segnato il carattere della protagonista e che la condurranno a diventare un’attivista di Greenpeace.
Il percorso verso questa associazione inizia però in sordina, il giorno in cui va a Venezia a visitare la nave simbolo Rainbow Warrior II.
All’inizio, quasi a difendersi inconsapevolmente da una eccessiva attrazione, non ci vuole nemmeno salire: le basta vederla da fuori, sostiene. Ma poi, condotta da un volontario, quasi senza accorgersene si trova sul ponte della nave. E qui, dopo aver ascoltato le spiegazioni di rito fornite da una volontaria, incontra un “un ragazzo alto almeno due metri, la faccia squadrata, gli occhi stretti e la pelle resa ancora più scura da un infinito intreccio di tatuaggi”. E aggiunge: “Quest’uomo viene sicuramente da un altro pianeta (…) qualcuno che viene da molto lontano e ha molte cose da raccontare”. In realtà è un marinaio che viene dalle Isole Cook, “un maori in care e ossa”. E forse parte anche da qui, dal desiderio di un mare sconosciuto e di storie da scoprire, oltre che dal desiderio di fare qualcosa in difesa dell’ambiente oltraggiato anche da quel marinaio e da quella donna, la scelta compiuta qualche giorno dopo di prendere contatto con la sede di Greenpeace della sua città.
Dove scopre che le persone che ne fanno parte non sono – come lei temeva – dei “sapientoni super-eroi” che difendono il pianeta mentre lei quasi non sa “cosa sia il cambiamento climatico”. No, come dirà alla fine di un incontro che si concluderà in un bar a notte fonda, si tratta di un “gruppo che poi non è un gruppo”, composto soltanto da “gente normale”, persone “neppure tanto affascinanti, proprio come me. Completamente diversi ma uguali a me”.
A partire da questo incontro, l’impegno cresce. Prima c’è un durissimo corso invernale nel freddo e nel ghiaccio nella sede di Greenpeace ad Amburgo, centrato sulla guida dei gommoni. Un’esperienza che lei sintetizza così: “Nulla di nuovo sul fronte tecnico nautico, ma di sicuro ho capito i miei limiti di sopportazione, confini che si tracciano solo superandoli”.
Poi ci sono le prime azioni, perché da quel momento Caterina è diventata, senza “quasi rendersene conto una attivista ambientalista”. E aggiunge: “Faccio quindi parte di una categoria, ho un ruolo da rispettare e un personaggio da interpretare. Non posso più permettermi di sgarrare, dovrò fare attenzione a ciò che mangio, che compro o che indosso per non rischiare di essere incoerente. Dovrò avere risposte pronte su qualsiasi tematica legata all’ambiente, dal riscaldamento globale all’inquinamento degli oceani alla deforestazione. Ma questo ruolo mi piace, mi spinge a studiare le cause dei problemi con maggior rigore scientifico e soprattutto mi porta ad analizzare le possibili soluzioni”.
In quanto attivista decide anche di partecipare alle “azioni guerriere” di Greenpeace.
La prima consisterà nel guidare un gommone su cui ci saranno dei giornalisti mentre altri attivisti attaccheranno uno striscione su una nave che trasporta pasta di cellulosa proveniente da zone di deforestazione illegale. È un’azione che ha risalto sui media e che rende Caterina orgogliosa di ciò che ha fatto e che la spinge a impegnarsi ancora di più.
Da allora partecipa a diverse missioni: inizia come semplice marinaio sulla nave che aveva visitato a Venezia; vede con i suoi occhi navigare nell’Oceano enormi isole di spazzatura fatte di oggetti in plastica, che il mare “capace di corrodere il cuore dei marinai non è riuscito minimamente a scalfire ma solo a scolorire”; guida gommoni per documentare la deforestazione selvaggia a Giacarta, provando profonda frustrazione per non riuscire a dire ai ragazzini che governano il cammino dei tronchi nell’acqua che esistono altri modi per sopravvivere senza farsi portar via da qualche potente signore (che così si arricchisce) la cosa più preziosa che la terra ha regalato loro. Sempre a bordo della Rainbow Warrior II, partecipa alle operazioni di soccorso alle popolazioni colpite dallo tsunami.
Poi, a bordo invece della Esperienza (la nave ammiraglia dell’associazione), raggiunge tra “onde alte come montagne e vento che ti spazza come una foglia” l’Antartide, dove prende parte alla campagna contro le navi giapponesi che vanno a caccia di balene nascondendosi dietro il falso tema della ricerca scientifica. E vi prende parte guidando un gommone a idrogetto, che ha il compito di frapporsi tra gli arpioni e le balene, cercando di evitare il getto degli idranti giapponesi e permettendo alle balene di mettersi in salvo.
Partecipa così a diverse spedizioni, sino a diventare, lei, alta (come dice autoironicamente) “un metro e due carote”, il secondo ufficiale della Esperanza.
Passano anni: adesso Caterina ha 34 anni e qualcosa comincia a non tornare: “Nei mesi successivi all’ultima spedizione ho maturato la convinzione che recarsi in Antartide non sia la soluzione giusta per bloccare i balenieri giapponesi. (…) Non è l’Antartide il luogo dove condurre la battaglia contro la caccia alle balene. Una volta arrivati laggiù è ormai troppo tardi, la flotta baleniera non dovrebbe nemmeno mollare gli ormeggi dal Giappone. Sono sempre più convinta che la vera campagna dovrebbe essere portata avanti a livello locale, dovrebbero essere i loro concittadini a indignarsi e bloccare la caccia”.
Così quando la nave arriva a Auckland e prima della nuova spedizione in Antartide resta ormeggiata per molte settimane in attesa di diversi pezzi di ricambio, Caterina matura definitivamente la decisione di sbarcare. “Ho semplicemente bisogno di tornare a casa e vivere in un mondo fatto di cose reali. Qui, a bordo dell’Esperanza, a volte ho la sensazione di essere intrappolata in una vita parallela, rinchiusa tra le lamiere dello scafo, protetta da un nome e un logo che mi identificano. Mi sento lontana dal mondo reale. Ho forse bisogno di ritrovare la mia identità al di fuori di Greenpeace, che in questi anni ha fortemente condizionato il mio stile di vita e le mie idee. Voglio provare a portare avanti le mie idee in modo autonomo, senza seguire lo statuto di un’associazione, così che le conseguenze di ogni mia azione siano solo ed esclusivamente attribuibili a me stessa, nel bene e nel male”.
Questo però non significa che Caterina abbia intenzione di abbandonare Greenpeace. Scrive infatti: “Devo solo modificare i modi con cui contribuire a questa associazione nei cui principi credo ancora fortemente”. Così oggi Caterina organizza corsi di formazione per i nuovi attivisti o aiuta a pianificare azioni che consentono a Greenpeace di continuare a evidenziare i grandi problemi ambientali che stanno strangolando il mondo.
E, arrivata alla fine di un percorso ricco anche di molti episodi laterali, conclude: “Sono felice di vivere nell’epoca della consapevolezza: oggi essere ignoranti è una scelta personale. Si conoscono i problemi e le loro soluzioni, si tratta soltanto di scegliere da che parte stare”.
Un modo di essere, aggiunge, che non dipende dal seguire regole ma, semplicemente, il buon senso, come scrive nell’epilogo di questo libro bello e vero, che non si attarda in esibizioni narcisistiche tipiche di tanti romanzi di formazione, ma che racconta – con la semplicità tipica della vera profondità – un percorso fatto di emozioni e di ragione.
[*] Non sono mai stato un recensore di “libri novità”, o di “libri premio” o, ancora, di volumi a cui è facile predire una carriera da best-seller. Naturalmente ho recensito anche libri di questo tipo, ma le mie scelte sono sempre state dettate dall’interesse verso un certo argomento specifico. E di questi tempi penso che l’interesse verso quello che potremmo definire “il tema dell’attivismo ecologico” meriti un’attenzione veramente particolare.