Aggiornato al 27/04/2024

Non sono d’accordo con quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo

Voltaire

Cartolina di propaganda della Grande Guerra. L’intervento in guerra dell’Italia fa pendere la bilancia in favore dell’Intesa.

 

1915/18 La guerra dell'Italia - (3) Dalla neutralità all’intervento

di Mauro Lanzi

 

(seguito)

 

Parte seconda: la politica estera e l’entrata in guerra

 

“L’Italia non è un paese povero, è un povero paese” Charles De Gaulle

 

Abbiamo rapidamente esaminato nei capitoli precedenti la situazione politica interna dell’Italia; è tempo di guardare al contesto internazionale.

L’unità d’Italia era nata, come sappiamo, sotto la copertura militare e politica della Francia: Napoleone III aveva deciso l’intervento a fianco del Piemonte, nella II Guerra d’Indipendenza, non certo in uno slancio di generoso altruismo, ma per un preciso disegno politico, sfruttare le ambizioni di Cavour e l’entusiasmo dei patrioti italiani per sostituire, in Italia, l’egemonia francese a quella austriaca.

A questo scopo era necessario avere un’Austria un po' più debole ed uno stato sabaudo un po' più forte, ma non tanto da potersi affrancare dalla tutela francese: Napoleone aveva delineato nei colloqui di Plombières un regno dei Savoia esteso al nord Italia, con altri stati vassalli della Francia al centro (Regno d’Etruria) e forse anche al Sud; Cavour si era ben guardato dal contraddirlo.

L'evoluzione successiva degli eventi ed in particolare il successo dell’impresa garibaldina (che Napoleone aveva persino pensato di arginare pattugliando lo stretto di Messina) avevano colto di sorpresa un po' tutti: Napoleone era stato costretto ad accettare, controvoglia, l’intervento piemontese nel Sud Italia, a fronte del rischio, abilmente sventolato da Cavour, di una deriva mazziniana a Napoli. Nonostante l’imprevisto rafforzamento del nuovo stato, i primi passi del giovane Regno d’Italia furono comunque controllati e guidati dalla Francia, che riteneva di potere e dovere tenere l’Italia in una costante condizione di minorità; questo atteggiamento, giustificato, occorre ammetterlo, anche dalle nostre debolezze, riaffiorerà in diverse circostanze nella storia successiva dei rapporti bilaterali, fino ai giorni nostri; lo sprezzante commento di De Gaulle è sintomatico di un approccio che abbiamo avuto modo di rilevare anche da fatti recenti.

Per uscire da questa condizione bisognava cercare un’altra sponda, che, allora come oggi, non poteva essere che la Germania.

Alla conquista di Roma la Francia, sconfitta da Bismarck, non poté reagire: ma poi i contrasti ripresero. Fu proprio a seguito delle umilianti conclusioni di una serie di controversie con i francesi, in primis per il controllo della Tunisia, sulla quale l’Italia vantava interessi prevalenti, ma che andò a Parigi, poi per una gretta “guerra” commerciale innescata dai francesi per frenare le importazioni di prodotti agricoli dall’Italia che nel 1882 Crispi decise di stringere rapporti di alleanza con Germania e Austria.

L’adesione alla Triplice Alleanza, nata dalla necessità di uscire da una imbarazzante e pericolosa situazione di isolamento internazionale, si protrasse, quasi per inerzia, fino allo scoppio delle ostilità della Grande Guerra; alla vigilia del conflitto, l’Italia era legata, quindi, agli Imperi Centrali, Germania ed Austria, da un’alleanza difensiva, denominata Triplice Alleanza, sottoscritta nel 1882 e periodicamente rinnovata, l’ultima volta nel 1912. Addirittura, con l’ultimo rinnovo si era concordato che, in caso di ostilità, la flotta italiana dell’Adriatico sarebbe passata sotto comando Austriaco e l’Italia avrebbe dovuto inviare un corpo di spedizione in Germania a supporto dell’esercito tedesco: follie!!

Malgrado l’enfasi dei documenti ufficiali, l’alleanza era tutt’altro che salda: non solo esisteva un contenzioso palese tra Austria ed Italia circa le zone cosiddette “irredente”, ma anche sul piano formale l’alleanza appariva precaria. Il documento, fin dall’origine conteneva allegato un protocollo segreto che esimeva comunque l’Italia dall’entrare in guerra contro la Gran Bretagna, vista l’estensione delle coste del nostro paese.

Ma non è tutto: nel 1897 la Francia, resasi infine conto degli errori commessi, aveva mandato come ambasciatore a Roma uno dei suoi più abili diplomatici, Camile Barrère, un ex-comunardo convertito, col compito di ricucire ad ogni costo i buoni rapporti con l'Italia. Col ministro degli Esteri Prinetti, Barrère stilò nel 1902 un accordo segreto con cui l'Italia s'impegnava a lasciare alla Francia mano libera in Marocco, e la Francia mano libera all'Italia in Libia e Cirenaica. Formalmente l'accordo non contravveniva agli impegni della Triplice, ma sostanzialmente rappresentava una scorrettezza, come dimostrava la sua segretezza. Austria e Germania ne ebbero tuttavia sentore, e fu allora che il Cancelliere tedesco von Bulow, piuttosto filo italiano, anche perché aveva sposato una figlia di Minghetti, rispondendo in Parlamento ad una interpellanza, dichiarò: "un marito non deve dare in smanie se, per una volta, sua moglie fa un giro di valzer con un altro cavaliere".

Da allora la "politica del giro di valzer" entrò nel linguaggio comune per designare un comportamento politico quanto meno poco lineare, come il nostro, appunto.

Ma, in quel caso, non ci si limitò al valzer: nel 1907 Prinetti, Ministro degli Esteri e Zanardelli, Primo Ministro stilarono con Barrère un altro accordo, anche questo segretissimo, con cui l'Italia s'impegnava a non partecipare ad una guerra contro la Francia, anche in caso di conflitto con uno dei suoi due alleati: questo protocollo costituiva, al di là di ogni dubbio, una palese infrazione del patto.

Il protocollo, come detto, era segreto, ma i segreti in diplomazia durano quanto i segreti in amore, cioè molto poco: il Kaiser divenne una furia come lo seppe, coprendo d’insulti Vittorio Emanuele, che considerava, forse non del tutto a torto, il vero responsabile del pasticcio: ciononostante il patto per la Triplice Alleanza fu solennemente rinnovato nel 1912, nei termini sopra descritti, superando, quindi, almeno formalmente, ogni screzio o diversa pattuizione precedente.

Ma non è finita: nel 1912, nel pieno della spedizione italiana in Libia, il capo di stato maggiore austriaco, Conrad von Hoetzendorf, propose all’imperatore di attaccare alle spalle l’Italia, approfittando del fatto che l’esercito italiano era impegnato sul fronte libico; Conrad era un pazzo scatenato, ma queste iniziative non si avviano per caso, Conrad era evidentemente spalleggiato da importanti circoli politici viennesi (tra cui spiccava l’erede al trono), nei quali il pregiudizio antiitaliano era sempre stato ed era fortissimo. Per fortuna Francesco Giuseppe trovò ancora l’energia ed il buon senso per rigettare il piano dei militaristi austriaci, quando la proposta era però nota a tutti.

Ci siamo dilungati sugli alti e bassi di questa strana alleanza, perché il trattato rivestì importanza essenziale nelle vicende che seguirono; la posizione dell’Italia era certamente ambigua (come sempre), ma l’atteggiamento austriaco non era certo limpido e giustificava timori e sospetti da parte italiana.

La prova del fuoco per la tenuta dell’Alleanza fu l’attentato all’Arciduca Francesco Ferdinando e gli eventi delle settimane che seguirono, quando le principali cancellerie europee si risolsero, inavvertitamente, forse senza neppure rendersene conto, a ”sciogliere i cani della guerra”.

Determinante fu l’intesa subito raggiunta tra Germania ed Austria, l’Austria non si sarebbe mai mossa senza l’avallo del potente alleato.

Nessuno pensò a consultare l’Italia.

Ingiustificate, quindi, appaiono le accuse di tradimento mosseci per la neutralità dichiarata nel 1914; innanzitutto la Triplice era un’alleanza difensiva e difficilmente l’ultimatum e il successivo attacco austriaco alla Serbia possono essere giudicati congrui con un atteggiamento difensivo. In secondo luogo, il testo dell’accordo prevedeva esplicitamente consultazioni preventive, che si erano infatti tenute, ai massimi livelli e con esiti decisivi, tra Germania ed Austria; l’Italia non era stata coinvolta e neppure informata.

Per questi motivi la decisione italiana sulla neutralità è da giudicarsi moralmente e politicamente corretta (tale fu riconosciuta anche dalle cancellerie tedesca e austriaca, dopo qualche settimana di dure contestazioni): un po’ meno quello che seguì.

Sul versante interno, la dichiarazione di neutralità fu accolta con un sospiro di sollievo dall’opinione pubblica e fu appoggiata entusiasticamente da tutte le forze politiche, dai moderati, ai socialisti, ai cattolici; il Papa, Benedetto XV, non poté contraddire il moto popolare, anche se sappiamo che, privatamente, aveva giustificato l’attacco alla Serbia, perché il suo sentire era inevitabilmente in favore della cattolicissima Austria, rispetto agli stati ortodossi ed anche rispetto ad una Italia laica e liberale, con la quale il Vaticano non intratteneva neppure relazioni diplomatiche.

Contro la neutralità si erano schierate sparute frange reazionarie, che, in ogni caso, auspicavano l’intervento al fianco degli Imperi Centrali: come si poté, allora, passare, nel giro di pochi mesi, ad una posizione diametralmente opposta, riuscendo infine ad imporla al Paese?

La risposta a questa ovvia domanda non è facile, comporta l’analisi di situazioni interne ed internazionali che cercheremo di riassumere, per sommi capi. Innanzitutto pesò l’esito dei negoziati con i due schieramenti, dal cui svolgimento, grazie al dettato costituzionale, il Parlamento fu totalmente escluso, e con esso l’opinione pubblica: così decisioni di capitale importanza furono condivise da un numero ristretto di personaggi, fondamentalmente Salandra, Sonnino ed il Re.

Da un punto di vista diplomatico, la mossa formalmente ineccepibile da parte italiana sarebbe stata la denuncia del Trattato della Triplice Alleanza; non lo si volle fare, sia per timore di una possibile reazione militare austriaca, che ci avrebbe trovato totalmente impreparati, sia perché appariva più conveniente e proficuo trattare su due tavoli. Possiamo scandalizzarci? La politique d’abord

Quindi, immediatamente dopo l’inizio della guerra, cominciarono le trattative, palesi o segrete, sui due fronti: una clausola della “Triplice” riconosceva all’Italia il diritto a “compensazioni” in caso di conquiste austriache nei Balcani, ma più che il dettaglio diplomatico fu determinante l’atteggiamento di Berlino, che con pressioni crescenti sull’alleato, assai reticente, tentò di garantirsi, tramite concessioni territoriali, almeno la neutralità italiana. Berlino riteneva essenziale evitare l’apertura di un terzo o quarto fronte; inoltre riteneva utile tenere libera, attraverso l’Adriatico e il porto di Trieste, una importante via di rifornimento, in previsione del probabile blocco navale inglese.

Senza entrare nel dettaglio di offerte respinte, minacce e controproposte susseguitesi in quei mesi, l’ultima proposta giunta (anche fuori tempo massimo) da parte del riluttante governo austriaco prevedeva la cessione all’Italia, in caso di neutralità, del Trentino, tolte le zone di lingua tedesca e della restante porzione del Friuli, ad esclusione di Trieste: tutto ciò, a guerra conclusa ed in caso di vittoria degli Imperi Centrali, quindi concessioni “sub iudice” e dipendenti dal buon volere di un Impero Austriaco, che, una volta vittorioso, sarebbe stato presumibilmente incline a rivedere gli accordi da posizioni di forza.

Chiaramente gli Stati dell’Intesa potevano essere molto più generosi, dato che impegnavano possedimenti altrui; all’Italia venivano promessi i confini naturali, quindi il Brennero, Trieste, l’Istria e buona parte della Dalmazia, oltre ad acquisizioni territoriali in Africa e Medio Oriente. Stranamente non si parlava di Fiume.

Nel confronto, però, da una parte c’era la pace, dall’altra la guerra.

Prescindendo dai mercanteggiamenti che si protrassero fino all’ultimo su entrambi i fronti, ciò che fece pendere gli equilibri del negoziato a favore dell’Intesa furono la vittoria francese sulla Marna (che sembrò dare una svolta al conflitto), i sentimenti anglofili del Re e del ministro degli esteri, Sidney Sonnino, la confusa e poco convincente azione diplomatica degli imperi centrali, vista l’invincibile riluttanza austriaca, ma soprattutto la convinzione del Re, di Salandra ed infine di Cadorna, di poter condurre una guerra “parallela”, solo contro l’ Austria, una guerra che si pensava breve, visto che l’Austria era già severamente impegnata sui fronti Russo e Serbo.

Come accadrà per la seconda guerra mondiale, decisioni improvvide furono prese per cogliere un’opportunità che sembrava imperdibile, per schierarsi in tempo dalla parte del più forte, per iniziare al momento giusto un conflitto che si sperava potesse essere rapido e fruttuoso; non fu così, in entrambi i casi.

Il 26 Aprile 1915 fu firmato, senza previa autorizzazione da parte del Parlamento, nella massima segretezza, il Patto di Londra, che impegnava l’Italia ad entrare in guerra a fianco delle potenze dell’Intesa, contro tutti i nemici dell’Intesa, anche se, come detto, la guerra sarà inizialmente dichiarata solo all’Austria. Il Re, cosa insolita visto il suo atteggiamento solitamente schivo e subdolo, si espose inviando agli Alleati un telegramma di felicitazioni.

Il 3 Maggio successivo veniva denunciata, da parte italiana, la Triplice Alleanza: per una settimana, quindi, siamo stati formalmente alleati di entrambi gli schieramenti.

In queste cose, bisogna riconoscerlo, noi siamo proprio bravi!

(continua)

 

Inserito il:17/09/2017 18:09:02
Ultimo aggiornamento:10/10/2017 16:54:08
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