Assunzione di responsabilità e cambiamento del modello produttivo. Un ricordo di Umberto Gribaudo
di Federico Butera
Il 12 giugno è venuto a mancare Umberto Gribaudo, un manager della Olivetti da cui una generazione di dirigenti e di tecnici ha imparato a lavorare con eccellenza tecnica e umanità, un gentiluomo, una persona vera.
Voglio ricordarlo come un esempio di leader che si assume la responsabilità di coordinare un cambiamento di modello produttivo di lungo periodo.
Umberto Gribaudo è stato Direttore della Produzione della Olivetti negli anni 70 e ha guidato la fase più drammatica del passaggio dalla meccanica all’elettronica, in cui si è sviluppato un nuovo modello di sistema produttivo che abbandonava le lunghe catene di montaggio e adottava la produzione per isole di produzione , una nuova logistica, un nuova flessibilità organizzativa. Questo salvò la Olivetti , mentre la tedesca Olimpia, più grande della Olivetti, rimase ferma nei suoi modelli tradizionali e chiuse.
Di queste cose e della fortuna che io ho avuto di lavorare insieme a Umberto Gribaudo alla fine degli anni 70 ho scritto nel capitolo 2.2 del mio nuovo libro Organizzazione e società, uscito a marzo 2020. In quelle pagine racconto anche due episodi di vera propria “sliding doors” in cui Gribaudo si prese la responsabilità di accogliere le mie proposte di trasformare una serie di localizzati esperimenti di nuove forme organizzative in un vero nuovo “sistema produttivo”: il primo fu una telefonata notturna che mi fece e l’incontro alle 8 del giorno dopo nel 1971 in cui si assunse la responsabilità di leadership di quella trasformazione epocale; il secondo lo show down in via Clerici a Milano dove , con l’aiuto di Franco Momigliano e mio, vinse le resistenze dei dirigenti di produzione e ottenne l’autorizzazione dell’Amministratore Delegato, non certo un innovatore. Gribaudo si assunse la responsabilità e la leadership di questo percorso complesso e rischioso.
Riproduco alla fine di questa nota, quel capitolo del mio libro con qualche evidenziazione dei passi in cui scrivo di lui, come un tributo delle mia grande stima e apprezzamento per una persona rimarchevole e una rappresentazione del suo ruolo cruciale in quella trasformazione epocale.
Federico Butera
Organizzazione e Società.
Innovare le organizzazioni dell’Italia che vogliamo
Marsilio, 2020
Capitolo 2.2 La storia delle isole di montaggio
(estratto con alcune evidenziazioni sul ruolo di Umberto Gribaudo)
Atto 1°. Butera va al Centro di Sociologia durante il passaggio della Olivetti dalla meccanica all’elettronica
Gallino nel 1969 si dimise. A me chiesero di prendere il suo posto, dicendomi che erano in corso grandi cambiamenti organizzativi e che il SRSSO sarebbe stato molto utile. Malgrado il fatto che, ovviamente, la mia competenza scientifica non era minimamente paragonabile alla sua, temerariamente accettai.
Stava avvenendo infatti un terremoto. L’Olivetti, allora azienda di 40.000 dipendenti, a causa della concorrenza delle macchine da ufficio elettroniche giapponesi, vedeva sfidare la sua tecnologia di base di prodotto e di produzione: dai pezzi di ferro ai chip. Erano in corso esperimenti localizzati di riorganizzazione nei montaggi e nelle officine per fronteggiare il cambio nei sistemi di produzione di prodotti per metà ancora meccanici e per metà elettronici, con cui ogni quattro mesi l’Olivetti in difesa cercava di fronteggiare l’offensiva delle piccole calcolatrici giapponesi vendute a un cinquantesimo del prezzo di quelle meccaniche della Olivetti.
In quello stesso 1969 Giancarlo Lunati, diventato capo della Direzione Relazioni Aziendali, in accordo con il direttore di produzione Umberto Gribaudo, incaricò il SRSSO di seguire gli esperimenti in corso in produzione con l’obiettivo di analizzarne il contenuto, gli effetti sulle persone, la generalizzabilità. Decisi che il ruolo del Servizio di Ricerche Sociologiche e Studi sull’Organizzazione avrebbe dovuto essere quello di accompagnare e promuovere il cambiamento basandosi su ricerche rigorose su ciò che stava realmente accadendo in produzione, invece di formulare modelli ottativi top-down. Ci ripromettemmo di analizzare i progetti pilota in corso per scoprirne la natura e riproducibilità, ossia la possibilità di diffusione.
Frattanto agli inizi del 1970 andai sei mesi negli Usa a studiare Organization and Job Design e the coming crisis for production management al Mit e a Harvard e poi a visitare circa 20 aziende coast to coast. Al ritorno scrissi I frantumi ricomposti. Struttura e ideologia nel declino del taylorismo in America, che ebbe successo.
Atto 2°. La diagnosi e la nascita del progetto di change management strutturale
La diagnosi fu presentata nel rapporto finale del Servizio di Ricerche Sociologiche e Studi sull’Organizzazione del 1972, I mutamenti organizzativi del montaggio: un’analisi e una proposta di sviluppo pianificato degli interventi.
Presentammo questo rapporto al direttore di produzione Umberto Gribaudo. In esso, in sintesi, si diagnosticava l’emergere di un possibile nuovo modello di organizzazione della produzione, lo si descriveva a fondo, lo si suggeriva per la progettazione di un nuovo sistema di produzione, se ne proponeva il processo di diffusione. Ricordo che Gribaudo mi chiamò a casa alle 20:00: una telefonata del direttore di produzione a un giovanissimo dirigente, a casa e in un orario in cui si è a cena, era per un gentiluomo piemontese un evento del tutto inconsueto. Mi chiese di botto: «Butera, è sicuro che siamo noi che stiamo facendo tutte le cose che lei presenta?». Dissi “ sì, ma non vi siete accorti che questo potrebbe essere la base di un nuovo modello di produzione”. «Venga a trovarmi domattina alle 8:00», mi disse Gribaudo. Non erano i fatti e le soluzioni che lo colpirono, poiché li conosceva bene dato che li aveva autorizzati e promossi. Ma era il senso di un cambiamento sistemico basato su un paradigma nuovo e potenzialmente generalizzabile, in cui si ritrovò pienamente….. Da quella mattina alle 8 partì il programma di cambiamento pianificato della produzione dell’Olivetti che passava dalla meccanica alla elettronica. I tecnici ci avevano messo gli esperimenti, io la identificazione di un modello potenziale e l’offerta di accompagnare il cambiamento, Gribaudo il coraggio, l’autorità e la leadership di avviare un percorso che avrebbe richiesto di cambiare tutto: la eliminazione delle lunghe catene di montaggio, i ruoli degli operi e dei capi, la logistica, i sistemi di ingegneria della produzione, gli economics della produzione, le relazioni industriali e molto altro. E con Gribaudo quella mattina alla 8 fummo subito d’accordo che non si trattava di scrivere una disposizione organizzativa ma bensì di avviare un lungo processo. Io lo ricordo con ammirazione perché lui ha rischiato consapevolmente la sua posizione di capo della Produzione
Cominciò infatti da allora il processo di gestione del cambiamento: dare cioè un senso generalizzabile a quelle esperienze concrete, valutarne gli impatti economici e sociali, comprenderne la generalizzabilità, valutarne l’impatto sulle funzioni aziendali, saggiarne l’impatto culturale.
Fu allora che si dette un nome a quel modello: “isole di produzione” (poi UMI – Unità di Montaggio Integrate), immagine che rompeva con il modello della lunga linea di montaggio con fasi di pochissimi minuti, sgretolando il pilastro del modello taylor-fordista che aveva dominato in Olivetti e altrove per oltre trent’anni. Nomina sunt substantia rerum: il termine “isole” suonò come una novità organizzativa importante.
Gli accordi fra azienda e sindacati centrati sulla qualificazione sostanziale aiutarono il cambiamento. Nell’aprile del 1971 era stato siglato l’accordo programmatico in cui l’azienda Olivetti si impegnava a presentare ai sindacati nuove forme organizzative al fine di arricchire i contenuti del lavoro. Si discuteva non solo di soldi e di qualifiche, ma di professionalità sostanziale. Le figure più importanti del sindacato come Trentin e Carniti avevano espresso grandi aspettative sul “nuovo modo di fare le macchine da scrivere e da calcolo”.
Molte erano le incognite e le difficoltà tecniche e organizzative del nuovo modello: piccole linee o posti unici, capi o primus inter pares, incorporazione dei controlli e riparazione nel lavoro diretto o loro assegnazione a operai diversi, rotazione sui posti di lavoro totale o parziale, specializzazione o meno delle attrezzature, responsabilità del gruppo di lavoro sul gestione del work in process e sul magazzino parti (che con l’elettronica avevano un valore incomparabile rispetto ai “pezzi di lamiera”) e molto altro.
C’era molta “fronda” da parte della vecchia guardia della produzione. A metà del 1972 promossi , d’accordo con Gribaudo, un incontro in via Clerici a Milano con tutto il vertice dell’azienda: in quella occasione il progetto delle isole fu approvato anche dall’amministratore delegato Ottorino Beltrami e con il contributo determinante delle argomentazioni del direttore della produzione Umberto Gribaudo e del capo del Centro Studi Economici dell’azienda Franco Momigliano. «Ti confermo il mio accordo sull’opportunità di un’azione incisiva per stimolare le trasformazioni organizzative» scrisse al temine del vertice l’amministratore delegato a Gribaudo.
Le isole di produzione vennero varate e si iniziò così a smantellare l’impianto dell’organizzazione scientifica del lavoro su cui viveva e prosperava un’azienda di 32.000 persone.
Nel 1972 Umberto Gribaudo costituì un Comitato per lo Sviluppo Organizzativo di cui faceva parte il SRSSO, con i compiti di:
- promuovere la documentazione e gli studi sui processi innovativi in atto nell’organizzazione del lavoro operaio e impiegatizio, nelle strutture formali, nei processi organizzativi;
- orientare e supportare le iniziative presenti e future di mutamento organizzativo pianificato;
- fornire assistenza su tutti gli atti formali implicanti modifiche organizzative;
- formare linee generali di politica organizzativa.
Le invenzioni e le sperimentazioni fluivano senza sosta da parte di dirigenti e professional – come Alberto Berghino, Gianola, Dionisio Albertin, Alberto Chirieleison, Pier Carlo Bottino, Luigi Pescarmona e tanti altri, mentre gestivano il treno in corsa: gli esperimenti dell’Auditronic e della Logos rappresentavano il cambiamento attraverso progetti pilota, una modalità assolutamente inedita per un’azienda che aveva un onnipotente Ufficio tempi e metodi di oltre 100 persone.
Bisognava “portarsi dietro i capi” arricchendone le funzioni. Ma soprattutto bisognava prendersi cura degli operai arricchendo, sì, il loro lavoro, ma assicurando che tutti ce la potessero fare, che nessuno sarebbe rimasto indietro. Molti operai abituati a fare fasi di un minuto infatti temevano di non farcela. Le rappresentanze dei lavoratori erano esitanti e tendevano a monetizzare ogni arricchimento.
Anche alcuni fra i cinque sociologi del SRSSO avanzavano di continuo dubbi sull’estendibilità del nuovo modo di lavorare all’intera popolazione.
Latenti erano le invidie verso il SRSSO, che aveva preso la leadership del cambiamento, da parte del Centro di Psicologia che per primo e lodevolmente aveva predicato per contrastare il lavoro in frantumi. La determinazione a realizzare il progetto da parte del Direttore della Produzione Gribaudo e lo straordinario impegno di formazione tacitò gran parte di timori, pregiudizi, scetticismi, invidie. La Direzione Relazioni Aziendali per tre anni fu coesa intorno a questo progetto concreto di change management, superò il tradizionale approccio sindacal/gestionale entrando nel merito dei contenuti dell’organizzazione e del lavoro: ora si direbbe che la DRA fu un business partner.
L’ampiezza e la radicalità delle trasformazioni organizzative non potevano non creare nuovi istituti normativi e nuove regole di comportamento collettivo. Fu il caso dell’accordo sul “premio UMI” che, una volta raggiunto, fu di tale soddisfazione sia per la direzione che per le rappresentanze dei lavoratori da rischiare di oscurare il progetto organizzativo a favore dell’accordo salariale.
Nel gennaio del 1973 venne organizzato per il management a tutti i livelli un Corso di job and organization design, con l’obiettivo di illustrare e approfondire metodologie di analisi e di mutamento pianificato dell’organizzazione. Come docente venne invitato il prof. Louis Davis, direttore del Quality of Working Life Program alla University of California, Los Angeles, mio maestro.
A metà del 1976, nelle officine era già stato trasformato il lavoro di circa 2.000 operai su 3.600. Alla stessa data, nelle Unità di Montaggio Integrate lavoravano circa 2.000 dei 5.000 operai dei montaggi.
Atto 3°. La scoperta e la costruzione di un metodo: i fattori strutturali che resero possibile il cambiamento.
Il cambiamento riuscì perché vi erano i fattori strutturali, come un radicale mutamento del mercato e della tecnologia, che rendevano obsoleto il vecchio modello di produzione di massa compatibile con prodotti che restavano in produzione per 5/8 anni, che talvolta avevano fino il 50% di quota di mercato mondiale, che creavano profitto attraverso una continua “limatura” dei tempi di lavoro operaio. Ora i nuovi prodotti stavano in produzione 6 mesi ed erano per metà fatti di chip. Ma fu necessario creare consapevolezza in chi era abituato a un altro modello produttivo.
Il cambiamento si avvalse di molti eventi precedenti: il primo, iniziato nel 1965, una serie di studi e proposte del Centro di Sociologia, del Centro di Psicologia e di giovani funzionari per superare il lavoro in frantumi, del prodigioso scrigno di competenze accumulato in decenni da tecnici e manager; il secondo il fiorire di esperimenti localizzati condotti da tecnici talentuosi, un lavoro per identificarne la riproduzione e diffusione degli esperimenti; il terzo il lavoro del SSRO che accompagnò e orientò il cambiamento; la pressione sindacale per l’innalzamento della qualificazione formale e l’accordo del 1969; la capacità manageriale e il coraggio del direttore della produzione Umberto Gribaudo; la visione innovativa di economia industriale di Franco Momigliano; la decisione del gruppo dirigente di vertice di procedere senza indugi.
L’azienda processiva diagnosticata da Gallino, che aveva assicurato la crescita, riappariva nella crisi: questa volta non in base a un inarrestabile e progressivo processo di crescita, ma a una risorsa strutturale e culturale adottata in una drammatica azione di salvataggio. L’azienda processiva di Olivetti sprigionò tutto lo scrigno di competenze che possedeva. Questa volta il Centro di Ricerca Sociologica e Studi sull’Organizzazione non si era limitato a produrre un libro ma aveva fatto ricerca di visibilità internazionale, consulenza, comunicazione, formazione, tutto in team con gli agenti di cambiamento e attivando un international college.
Atto 4°. Le battaglie
Forti furono le resistenze esplicite durante tutto il processo di cambiamento. Cruciali furono i bivi al termine della prima fase.
Nel corso di tutto il processo di cambiamento le resistenze erano venute soprattutto dall’establishment della produzione. L’argomento contrario principale era che le isole costavano più della linea tradizionale: maggior costo del lavoro, maggiore addestramento, maggior costo delle attrezzature. Ma sotto vi era anche il giustificato timore di uno sconvolgimento delle potenti funzioni aziendali come la qualità e i tempi e metodi.
Ostili erano alcuni rappresentanti sindacali: la nuova organizzazione del lavoro avrebbe richiesto più responsabilità per gli operai e più vantaggi per l’azienda. Il ruolo progettuale delle rappresentanze sindacali che si andava delineando non piaceva a tutti. Resistenze venivano anche sul metodo: questo modo di cambiare era estraneo alla cultura dell’ingegneria di produzione e dei tempi e metodi: ma Massimo Levi, che di quest’ultima era il capo, era un gran professionista di leggendaria competenza e fu il primo a convincere l’esercito dei suoi che ora l’organizzazione si doveva progettare e gestire in un altro modo.
Il modello di cambiamento era profondamente diverso da quello adottato da grandi corporation americane, inclusa la General Electric da cui veniva l’amministratore delegato Ottorino Beltrami. Si prospettava un bivio fra il cambiamento top-down di stile GE versus un processo di change management strutturale bottom-up e top-down quale quello che avevamo realizzato.
Vi erano resistenze all’interno della direzione del personale. Molti nella DRA non si sentivano parte del processo, e alla prima difficoltà operarono per far tornare la DRA nella sua funzione tradizionale, non troppo coinvolta con l’intervento nell’organizzazione.
Gian Antonio Gilli, in SRSSO fin dall’inizio con Gallino, non gradiva il ruolo che stavamo assumendo, che gli sembrava da “internal consultant”, “poco scientifico” e “troppo a servizio dell’azienda”, e influenzava di continuo in modo negativo gli altri quattro sociologi del SRSSO. Io fui meno bravo di Massimo Levi a convincere i miei e me li trovai contro proprio nel momento di massima fragilità del SRSSO.
Questa fragilità si mostrò quando si realizzarono due fatti. Il primo fu che l’amministratore delegato mi chiese di diventare il suo assistente, sciogliendo il SRSSO troppo poco normativo, troppo poco “direzione del servizio organizzazione” GE-like. Voleva che lo aiutassi a normare l’organizzazione in suo nome. Io insistevo che era meglio andare avanti con il metodo di change management che stava dando risultati così buoni. Insomma rifiutai. Il secondo fatto fu che, in base a non so quali veline dei “servizi” con cui l’Ad era in contatto, mi fu chiesto di allontanare Gilli e gli altri dal centro in quanto estremisti. Io mi rifiutai, non solo perché Gilli era un amico a me intellettualmente e affettivamente vicino, ma perché la lezione di Adriano Olivetti e l’assunzione di 400 laureati mi avevano insegnato che in quell’azienda non si discriminano le idee. E soprattutto perché sapevo con certezza che non vi era nulla di pericoloso in quella persona di valore: era di estrema sinistra come tutti i sociologi in quegli anni e a Milano, nel clima del ’68, correvano certamente parole ardenti, ma l’Olivetti che amavo aveva incluso figure di sinistra in posizioni di responsabilità come Fortini, Momigliano, Volponi e altri. Questo doppio rifiuto di obbedire non fu gradito. L’ingegner Beltrami, che mi chiamava “il papà delle isole”, mi intimò ad horas di trasformare il SRSSO in un suo staff.
Contemporaneamente i miei collaboratori attaccavano dall’interno: scrissero una durissima nota, che conservo, in cui intimavano di sospendere le attività di change management e di tornare a fare studi sull’assenteismo o simili. Il SRSSO fu preso così da due fuochi: l’Ad da una parte e i membri dell’ufficio dall’altra. Il direttore di produzione difese a spada tratta il lavoro del SRSSO.
Ma era una battaglia di troppo, che rompeva l’immagine dell’“azienda processiva” e democratica in cui mi piaceva lavorare e minacciava l’identità scientifica e professionale che in quella straordinaria vicenda avevo acquisito. Il processo di cambiamento dell’azienda sarebbe continuato (come infatti continuò), ma forse l’esperienza mia e del mio Servizio di Ricerche Sociologiche e Studi sull’Organizzazione stava trovando un muro. Forse il nuovo management stava stravolgendo l’azienda che mi aveva insegnato tanto e che amavo, cosa che si rivelò vera. Gribaudo e il Presidente Visentini tentarono intensamente di convincermi a restare, ma Lunati che non voleva scontentare Beltrami non mosse un dito.
Decisi, a 33 anni, di dare le dimissioni per sviluppare il metodo e le soluzioni a cui avevo preso parte in quegli anni fantastici. Dopo pochi mesi fondai a Milano l’Istituto di Ricerca Intervento sui Sistemi Organizzativi, continuando l’esperienza di change management strutturale in altri contesti.
Atto 5°.Gli outcome economici
Il nuovo sistema di produzione che tutti insieme sviluppammo con la leadership di Gribaudo probabilmente salvò la Olivetti, a cui era venuta a mancare la base tecnologica meccanica che ne aveva assicurato l’eccellenza il successo. Questo collasso tecnologico accompagnato dalla immobilità del sistema organizzativo fece sì che la Olimpia tedesca più grande della Olivetti chiuse.
Includo fra gli outcome anche il cambiamento di un’organizzazione che ha abbandonato un paradigma dominante, quello della catena di montaggio taylor-fordista, e ne ha introdotto uno nuovo, quello della flessibilità , di cui i gruppi di produzione ad alto livello di autoregolazione sono un esempio. Questa capacità di flessibilità, adattamento innovazione furono una risorsa che accompagnò la Olivetti anche nella fase successiva alla gestione di Beltrami.
Atto 6° Gli outcome scientifici
Diversi furono i prodotti della ricerca intervento che abbiamo rievocata.
Innanzitutto il mio libro I frantumi ricomposti. Struttura e ideologia nel declino del taylorismo in America, , che fu originato dalle ipotesi che stavamo maturando nel progetto e che al progetto offrì la struttura concettuale.
Il mio articolo “Contributo all’analisi di variabili strutturali che influiscono sul mutamento dell’organizzazione del lavoro”, pubblicato su Studi Organizzativi e nel volume di Davis e Cherns The Quality of Working Life, fu tradotto in cinque lingue. Esso contiene, inoltre, il riferimento ad articoli e ricerche, anche esterne all’Olivetti, che fiorirono numerose intorno al progetto.
Le dimensioni più teoriche sulla natura dell’organizzazione, del lavoro e del cambiamento apprese durante il progetto apparvero in vari articoli poi raccolti nel mio La divisione del lavoro in fabbrica , Marsilio del 1977.
Il caso Olivetti è stato analizzato in Italia e all’estero da studiosi di diverse discipline, da Salvati e Beccalli a Kern e Schumann. La storia e i risultati del progetto sono stati descritti nel lungo volume di Butera e De Witt Valorizzare il lavoro e sviluppare l’impresa. La storia delle “isole” della Olivetti nella rivoluzione dalla meccanica all’elettronica (Il Mulino, 2011). Questo caso, narrato da me e da moltissimi altri, ha avuto una diffusione e un impatto internazionali tra i professional e gli studiosi molto superiori alla diffusione dei miei scritti.