Aggiornato al 27/04/2024

Non sono d’accordo con quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo

Voltaire

Luca Giordano (Napoli, 1634 – 1705) – Aracne e Minerva

 

La sfida di Aracne. Il filo che ricongiunge questo regno ad ogni reame

di Alessandra Tucci

 

Figlia di Idmone il tintore, era nota in ogni dove per la bellezza che irraggiava dalla sua Ipepe, in terra di Lidia, un po’ ovunque. Che fosse graziosa nei tratti e aggraziata nei gesti qui importa il giusto, quello che di lei irretiva erano i fili di lana che ella intrecciava in tale magnificenza che la sua fama si espanse immediata a raggiera. Lei, la giovane Aracne, tesseva.

E ne era orgogliosa, oh, sì, era ben conscia la giovin fanciulla che quelle sue magiche dita tiravano fuori capolavori assoluti di delicatezza e di grazia. E se ne vantava. Cosa che manco a dire le si possa criticare da questa abissale nostra epoca moderna che ci vede tutti quanti bene esposti in vetrina a vantare il nulla cosmico spacciandolo per infinito capolavoro al fin di raccattare quattro like in croce. Col talento crocefisso. E amen.

Talentuosa lei lo era, questo è quanto. E ne andava pure e giustamente fiera, ma quel troppo che troppo spesso dimentica il monito sotteso: che il troppo stroppia finendo con lo strozzare guizzi e velleità suicidarie.

E a finir quasi strozzata da stupore e indignazione che quasi ci rimase secca fu la dea Atena, a casa nostra detta Minerva. Sì, quella con un curriculum che tu lo leggi e pensi che tanto a ‘sto mondo vanno avanti solo i figli dei divi(ni), quelli che nascono con la camicia che c’ha pure il papillon già annodato, avoja tu a tessere muscoli e mente: figlia di Meti e di quel prezzemolo che era Zeus quando si trattava di mandare a segno l’ormone impollinato – che poi, a dire il vero, pare che lei gli sia uscita direttamente dalla testa senza alcun godimento e con una emicrania feroce – l’Atena lì era la dea della guerra e della ragione, un ossimoro divino, dunque, senza alcuna intenzione di tentar di conciliare i due opposti che incarnava, lei guerreggiava filosofando, duale risolto. E già, perché ci mancherebbe altro, Atena era anche dea della letteratura, di ogni arte e del filosofare. E vai a capire come le si riusciva ad ossigenare il cervello dentro l’elmetto costantemente compresso.

E non si capisce neanche come sia venuto ad Aracne lo schiribizzo cervellotico di sfidare proprio quella nell’arte della tessitura. Ma l’avevano informata che l’approccio sportivo ad una qualche sfida umana riguardava le olimpiadi e non i trafficanti dell’Olimpo? Lo sapeva, sì, che Atena apparteneva alla triade divina insieme a Giove e a Giunone e che quei tre non andavano per il sottile quando rischiavano di perdere faccia e nome? Qualcuno si era premurato quantomeno di descriverle il fumo che era uscito immediato dalle narici della dea al guanto lanciato dalla fanciulla umana? Quella era ira, non lo sbuffo della preparazione atletica.

Sbuffando che a confronto il Vesuvio tutto sommato poteva essere considerato un caminetto pompeiano per cuocerci l’arrosto, Atena comunque ci provò. E non perché le fosse apparso in sogno un qualche angelo conciliatore, figurarsi, quella di alato temeva solo Eros il pestifero, il fatto vero era che quell’Aracne era brava oltre ogni misura e lei, la dea, non aveva questa gran voglia di sfigurare a platea aperta. E sì, perché Aracne, nello sfidare la gran divina, aveva ben pensato di convocare anche il pubblico per il grande evento. Nulla di intimo, dunque, e Atena oscillava tra il bellico istinto a ridurre in cenere la donzella all’istante e il cervellotico trovare una soluzione per uscirne vincente con fare signorile.

E signorilmente la dea bussò alla porta della fanciulla sotto le spoglie di una mite vecchina scrivendo lì per lì, già che c’era, anche il copione per la strega di Biancaneve: “Che fai, bella bambina, sfidi una dea?”  Il “Sì, nonnina, ma che occhi grandi hai, cosa vuoi dirmi con quei lampi silenti?” in risposta viene il sospetto se lo sia invece riciclato Cappuccetto Rosso mentre la PNL prendeva appunti da quel divino comunicare non verbale. Completamente fallimentare comunque, Atena dovette ricorrere nuovamente alla persuasione a parole: “Bambina mia, ascolta la nonnina e lascia perdere la sfida divina. Sei mortale e tra i mortali la migliore, senti a me, chi si contenta gode.” E qui viene il dubbio che pure Ligabue, già che tutti ne stavano approfittando, abbia tratto spunto dal divino per diventare un divo. Il cantante, non il pittore.

Aracne, figurarsi. Il masochismo ha un che di inquietante, da che tempo è tempo, qualunque sia la terra, va ad oltranza: “Se Atena non accetta la sfida vuol dire che ha paura di perdere perché sa che sono più brava di lei!” Pappappero. Manco avesse ancora il ciuccio. Quello dell’asino.

Rullo di tamburi, squillo di trombe, fulmini di Zeus per l’occasione riacchiappato e messo a fare il suo lavoro: la vecchina scomparve, Atena si manifestò in tutta la sua grandezza a nascondere la misera figura dialettica appena fatta, la sfida fu dichiarata aperta. Una fronte all’altra, gomitoli di lana a portata, via.

Ce l’abbiamo tutti presente l’occhio lungo, il nostro, a sbirciare il foglio del primo della classe durante il compito scolastico, giusto? Dico a chi s’è ingegnato nell’arte del contorsionismo con lo sguardo allungato, proviamo ad immaginare la divina tendere il collo come un tacchino lanciando un occhio all’altrui operato mentre l’altro lo teneva fisso sul proprio. Ecco, Atena. E pian piano impallidiva, poveretta, già solo per la scena rappresentata dalla fanciulla, l’umana, che a confronto della sua vabbè.

Atena aveva puntato filo e creazione sulle grandi imprese compiute nelle ere. Da lei chiaramente. E sui poteri divini. Ovviamente i suoi. Il tutto con un soffio di modestia e originalità talmente intenso da far volare tutti i parrucchini della zona così da scoperchiare ogni buon pelato. Non propriamente cirio, c’è da dirlo.

Aracne, dal canto suo, va a capire se perché piccata da quel mortale col quale la dea l’aveva appellata o se su commissione del re del mondo che incombe ovunque a garantire l’equilibrio tra il bene e il male - mai sia una sua qualche distrazione a vantaggio dell’umana gente che ‘na gioia in più ogni tanto non la disdegnerebbe in questa valle di lacrime e perdizione - cosa s’era messa a raffigurare sulla tela in via di tessitura? Gli amori di alcuni dei, quelli che se ti prendono di mira ti fanno lievitare in nove mesi senza che neanche t’accorgi. Un po’ come il pisello sotto sette materassi principeschi. E le loro colpe, tutti i loro inganni. Centimetri e centimetri di magnificenza. Metri, non centimetri. Mah, colpe ed inganni? Chilometri.

Non è ben chiaro chi ci fosse in giuria, ma del resto la stessa Atena lo dovette ammettere. La vittoria di Aracne fu schiacciante, i personaggi da lei tessuti sulla tela sembravano balzare fuori dalle sue maglie, vivi e vibranti, le scene intessute e ricamate apparivano vere e proprie proiezioni filmiche. Questa era arte.

Solo che l’arte di Aracne mandò in tilt la rivale che in un lampo dimenticò di essere anche la dea della ragione e si aggrappò solo al suo istinto belligerante, di quelli che non sanno perdere, con tanti cari saluti all’equilibrio del duale: Atena, accecata dalla rabbia – e dall’invidia, dalla frustrazione, dal risentimento, dalla stizza, dal rancore, dalla mortificazione, insomma, in ammollo nella bile –, afferrò la tela (ops, il capolavoro) della giovane e la disintegrò. In mille e mille pezzi. E anche qui viene il sospetto: non è che a D’Annunzio quelle striscioline di bellezza sapiente che si dilettava a far scivolare dal di qua del proprio cancello a beneficio della banale gente mortale le ha portate il vento del passato, magari l’Eco?

Sicuramente l’eco dell’urlo di Aracne davanti a quel divino scempio ci stava tutto. E perdindirindina, mai una volta che gli dei mostrassero di saper perdere con fare regale, vallo a trovare uno sull’Olimpo che accetta la sconfitta e si congratula, mai che dessero l’esempio buono a questo mondo umano che certo, questo c’è da dirlo, non si affannerebbe a seguirlo. Sacro e santo quel suo sdegno, giusto!  Però, pure qui, troppo, quello che stroppiando finisce con lo strozzare. Va bene urlare, va benissimo sdegnarsi, ma pure lei, Aracne, manco fosse stata scritturata da Eschilo Euripide e Sofocle insieme, la triade delle novelle liete, per mettere in scena l’ennesima tragedia, quella autoalimentata della quale si ciba l’umanità tutta intera. Praticamente da sempre.

La giovane – senza minimamente soffermarsi a pensare che sei delle sette meraviglie del mondo sono andate distrutte pur se la loro gloria persiste nella storia - urlando blaterando e piangendo scappò via. E fin qui ci sta. Quello che proprio non si riesce a comprendere è perché tante storie per un pezzo di stoffa, mettere un punto e ricominciare? Poteva crearne di ancora più eccelse, aveva tutta la vita per emergere. E cosa ha pensato bene di fare lei, Aracne? Di togliersela quella vita, l’albero l’aveva trovato, ora cercava una corda. Il tutto sotto la supervisione di Atena che mica era così convinta che il suicidio della giovane fosse la pena più degna, la giusta punizione. E no! Quella donzelletta impertinente aveva osato venir dalla montagna per sfidarla sconfiggendola ed ora pensava pure di decidere da sola come castigare quella sua profana insubordinazione? Ma manco per niente, toccava intervenire che lei, la dea, in quella storiaccia da tramandare fino ad allora non aveva deciso un bel niente.

E che ti inventa la divina, anche un po’ commossa ma per protocollo olimpico integerrima e ingessata? “Che Aracne sia condannata a tessere per l’eternità!” E fin qui, in fondo, alla giovane le andava di lusso. Ma? Figurarsi. “Ma che tessa non più con le mani bensì con la bocca e lo faccia dondolando sempre dallo stesso albero, questo che ha scelto per lasciare questo mondo al quale io, la divina, la condanno, lei e tutte le generazioni future.”

E  Aracne fu trasformata in un gigantesco ragno.

C’è da chiedersi se l’aracnofobia che da allora strappa urla e istiga fughe a tutta questa bella gente umana al solo apparir di un piccolo aracnide sia un voler mettere in scena e rievocare a futura memoria quanto fece Aracne a sfida vinta o se per caso Atena l’abbia disposta quale pena accessoria alla metamorfosi effettuata che le sembrava ancora poca cosa, vai a sapere quella quanto ci mise a placare il suo infernale ribollir di bile.

La pelosità del ragno, quel suo tramare senza sosta, è questo che ci fa paura?

Eppure.

Eppure lo sappiamo che la paura è la vera frontiera da scavalcare senza esitare. Per andare oltre, a vedere. E ad ascoltare.

Da allora ad oggi la tessitrice della Lidia appare instancabile nel suo insegnare ad intrecciare i fili di ordito coi fili di trama a tutti i ragni della storia, moderna e antica, e a ben guardare quei loro piccoli filati non può sfuggire come essi siano, ognuno e senza eccezioni, degli incredibili capolavori la cui fama si è diffusa in ogni landa della terra.

E in terra di Sioux si narra da allora che la costellazione dell’Orsa Maggiore debba la sua creazione alla tela di un ragno che ha portato sette giovani uomini in cielo.

Tra i colombiani inoltre si sussurra che siano Aracne e la sua progenie a tessere le piroghe sulle quali le anime vengono fatte salire al momento del passaggio. Per essere condotte oltre, nel sovrasensibile, l’altro regno. Delicatezze e grazia, questo distingueva l’arte della giovane dalla altre, pur le divine. Ed è di grazia e di delicatezza che è tessuto il filo che ricongiunge reame a reame, cuore su cuore. E che neanche la morte può spezzare.

E Aracne, alla quale Atena ha dato della mortale, da allora appare ovunque a svelare l’illusione: “Non fatevi ingannare dalle apparenze, la morte non esiste.”

Questo lei ci dice con ogni ragno che ci manda sul cammino, di non cadere nell’inganno, è tutto un sogno. E noi siamo ben altro, al di là dell’illusione c’è l’immenso. Come ben sa ogni nativo americano, quello sopravvissuto.

E già. Sfidata da Atena, Aracne decise di andare oltre la paura inculcata dalla dea ad ogni mortale. A vedere oltre che c’è. Muovendosi sulla sua tela, la giovin tessitrice passò di regno in regno e, con la rete che filava ad ogni passo, imprigionò via via le conoscenze più esoteriche che acquisiva in ogni reame, quelle che ci vengono nascoste con un velo di illusione.  Per farle proprie, custodirle e mostrarle a chi le vuol comprendere.

La Grande Madre, così viene chiamata. Lei, Aracne.

Che con una tela ed il suo ragno ricongiunge i regni e ci svela il disegno.

Quello cosmico. Il divenire eterno.

 

Inserito il:08/07/2022 10:53:05
Ultimo aggiornamento:08/07/2022 11:33:18
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