Aggiornato al 27/04/2024

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Voltaire

 

Gli anni formidabili dell'elettronica italiana (3)

La Divisione Commerciale Elettronica Olivetti: 1959-1962 e oltre

(seguito)

di Michele Pacifico

 

La Divisione Elettronica

Il nostro gruppo di lavoro cresceva a dismisura, perché si aprivano di continuo nuove trattative (che richiedevano tutto il lavoro preliminare che ho descritto sopra) e non erano poche quelle che si concludevano favorevolmente (che comportavano la creazione di un adeguato gruppo di lavoro per presidiare l’avviamento).

Il fabbisogno di nuovi organici venne in parte coperto sciogliendo nel 1962 la Olivetti-Bull, che ormai non aveva più ragione di esistere, dato che persino l’IBM non costruiva più macchine a schede perforate, e facendola confluire nella Olivetti: venne quindi cancellata la gloriosa Divisione Commerciale Elettronica (DCE) e al suo posto nacque la Divisione Elettronica (DE), che incorporava anche il Laboratorio. A capo della DE venne insediato Ottorino Beltrami, che si affrettò a conferire a Elserino Piol l’incarico di direttore commerciale. La parte industriale (laboratorio e produzione), che aveva perso il suo leader Mario Tchou in un incidente d’auto nel novembre del 1961, venne affidata alle cure di Giorgio Sacerdoti, che era stato fra i primi a entrare nel gruppo di studio di Barbaricina.

Il 1962 fu un anno di svolta importante non soltanto per quella trasformazione organizzativa, ma anche perché vide la nascita di un nuovo calcolatore, profondamente diverso dall’Elea 9003, che si chiamò Elea 6001. (Qualche spiritoso commentò che i numeri che identificavano i nuovi prodotti dell’elettronica Olivetti si ottenevano dal numero precedente dividendolo per tre e moltiplicandolo per due: e infatti, il modello successivo, impostato nel 1964 e che non entrò mai in produzione, si chiamò per un breve periodo Elea 4000.)

L’Elea 6001 era una macchina decisamente più piccola del 9003, ma di notevole potenza elaborativa, concepita per l’utilizzo prevalente in ambienti universitari e di ricerca scientifica (le sue funzionalità di calcolo erano parecchio sofisticate), ma che avrebbe potuto essere utilizzata con buoni risultati anche per fini gestionali in aziende medio-piccole, essendo equipaggiabile con unità a nastro magnetico e stampanti veloci, adatte per i lunghi tabulati che caratterizzavano la produzione dell’informatica gestionale di allora.

Armati di due modelli che coprivano di fatto l’intera gamma del mercato e galvanizzati dai successi ottenuti fino ad allora, continuammo con impegno a lavorare per conquistare il mercato e sbaragliare l’odiata IBM. E ci riuscimmo: alla fine del 1964 avevamo ridotto la quota di mercato dell’IBM in Italia al 75 per cento, dal 90/95 che aveva agli inizi e fu anche grazie al nostro sforzo generoso che l’Olivetti arrivò sull’orlo del fallimento.

Ammaina bandiera

Il rapporto fra computer e denaro è sempre stato caratterizzato da numeri giganteschi: milioni di dollari (o miliardi di lire) per progettarli, costruirli, venderli, metterli in funzione e milioni di dollari di ricavi (quando si riusciva a venderli). Tanto per dare un’idea degli ordini di grandezza: il modello 1401 dell’IBM in tre anni generò ricavi per due miliardi di dollari e se ne produssero 12.000 esemplari. Ma per realizzare il System 360, la serie di computer che subentrò al 1401, l’IBM dovette investire fra i sei e i sette miliardi di dollari nell’arco di cinque anni.

Quello della grande informatica non era un business per signorine o per timidi collegiali: ci voleva la sanguigna determinazione di un Piol, l’alta tecnologia coniugata con una cultura millenaria di un Tchou, la poderosa leadership di un Beltrami, e tutte queste ricchezze erano, sì, la forza della Divisione Elettronica Olivetti, ma ci volevano anche tanti, tantissimi milioni di dollari e questo non l’aveva ben capito nessuno, probabilmente nemmeno Adriano Olivetti quando aveva dato il via alla nostra meravigliosa avventura.

Le enormi quantità di lavoro richieste dagli sviluppi tecnologici, dalle trattative commerciali, dagli avviamenti dei nuovi impianti erano costi, costi molto elevati, che per loro natura (erano tutti stipendi) determinavano fortissime e crescenti uscite di cassa, mese per mese, che non riuscivano a essere interamente compensate dalle entrate generate dai canoni di noleggio dei calcolatori installati. Queste entrate, fra l’altro, dovevano anche servire per ripagare i costi industriali diretti sostenuti per la costruzione degli Elea, assemblati con costosi componenti elettronici, che si compravano a caro prezzo dai pochi fornitori che operavano su scala mondiale in regime di quasi monopolio. In sostanza, ogni nuova macchina venduta, ogni nostro successo commerciale, aggravava il conto finanziario della Olivetti, divorando liquidità, anche se forse, in un’ottica contabile più patrimoniale, l’impresa aveva qualche parvenza di convenienza economica.

Inoltre, l’Olivetti si era anche imbarcata in un’altra grande avventura, in parallelo con quella della Divisione Elettronica: l’acquisto negli Stati Uniti di un marchio storico nel campo delle macchine per ufficio, la mitica Underwood, dove Camillo Olivetti agli inizi del secolo aveva avuto l’illuminazione che lo indirizzò a costruire macchine per scrivere.

Il tentativo di conquistare il mercato degli Stati Uniti tramite l’acquisto della Underwood impegnò una notevole quantità di uomini di valore (fra i quali Furio Colombo, sì, proprio quel Dottor Colombo che mi aveva aperto le porte della Olivetti poco prima di andare negli USA e che dopo molte peregrinazioni è approdato alla direzione del quotidiano fondato da Antonio Gramsci) e una quantità ancora più notevole di risorse finanziarie. E i risultati non furono all’altezza delle speranze. In sostanza, fra Underwood e Divisione Elettronica, l’Olivetti arrivò a luglio del 1964 con un cash flow talmente malridotto da far temere il peggio.

Il peggio fu scongiurato con un piccolo apporto di liquidità da parte di alcune aziende, costituite in una specie di consorzio che si chiamò Gruppo di intervento. Tamponata la falla, si trattava di prevenire una sua possibile riapertura e da qui la decisione brutale e devastante di abbandonare al suo destino la Divisione Elettronica. Pochi mesi di concitate trattative e con il 1965 tutta la Divisione, che era arrivata in cinque anni al rispettabile organico di 5.000 persone, venne scorporata, con impianti, strutture, parco clienti e quant’altro, e conferita a una nuova società che si chiamò OGE, da Olivetti-General Electric, nella quale l’Olivetti deteneva il 25 percento del capitale e la società americana il resto, quindi la maggioranza. Anche se avevamo ancora il nome nell’insegna, ormai non eravamo più Olivetti: la nostra bandiera era stata ammainata per sempre.

Il senno di poi

Gli anni che seguirono furono, per l’informatica italiana, una successione di sconfitte. Olivetti uscì dalla compagine azionaria e la OGE assunse il nome di GEISI (General Electric Information Systems Italia). Nonostante fosse la terza maggiore impresa industriale del mondo in termini di fatturato, anche General Electric non riuscì a crearsi una posizione di rilievo nel mercato mondiale dei computer. Qualche anno dopo l’intero comparto informatico venne ceduto da General Electric alla Honeywell, per cui ci fu un ulteriore cambio di ragione sociale, e la GEISI divenne HISI (Honeywell Information Systems Italia). Poi anche Honeywell gettò la spugna e passò la mano ad altri. Insomma, uno sfacelo progressivo.

Per molti della vecchia guardia, e io fra loro, era un cruccio tormentoso vedere svanire progressivamente tutto quello che con tanto entusiasmo avevamo contribuito a creare. E soprattutto non riuscivamo a capire perché, che cosa mai era successo e stesse succedendo. Certo, la crisi di liquidità del 1964 spiegava molte cose, ma perché allora General Electric, che pure aveva un cash flow dell’ordine di grandezza del PIL di una media nazione industriale, aveva deciso di abbandonare il campo? E come si spiegavano le successive crisi ricorrenti, non soltanto dell’erede italiano dell’eroica elettronica Olivetti, ma anche di tutte le imprese in Europa e nel mondo che avevano cercato di sfidare IBM e ne erano uscite con le ossa rotte?

In questi ultimi anni, dopo una dignitosa carriera che mi fatto migrare da Olivetti a Fiat, a Motta, a GEPI e a Pirelli, mi sono chiamato fuori dal mondo industriale per coltivare certi miei interessi culturali. Di tanto in tanto qualche editore mi propone di tradurre un testo che ha a che fare con le mie vecchie esperienze professionali e di recente ho accettato la proposta della casa editrice della Università Bocconi di tradurre un libro affascinante, Inventing the Electronic Century: The Epic Story of the Consumer Electronics and Computer Industries, l’ultimo lavoro in ordine di tempo del grande studioso di storia dei sistemi industriali, Alfred D. Chandler Jr, professore emerito di Business History alla Harvard Business School.

Con la magistrale capacità di sintesi che caratterizza tutte le sue opere, in questo libro, che nella traduzione italiana si intitola La rivoluzione elettronica, Chandler dice alcune parole definitive sulla vicenda che ha tanto appassionato me e tutti i miei colleghi. Nella parte introduttiva, l’autore afferma:

“L’incapacità delle imprese inglesi, francesi, italiane e poi tedesche di competere con i mainframe IBM […] negli anni Settanta […] condusse le industrie di computer europee a una fine irrimediabile” (La rivoluzione elettronica, pag. 8).

e nel corpo del testo spiega con lucide analisi per quali ragioni strutturali le cose andarono in questo modo, spazzando via tutte le imprese che tentarono negli anni di crearsi uno spazio nel mercato delle grandi macchine, i cosiddetti computer mainframe, una classe di macchine alla quale l’Elea apparteneva a pieno diritto anche se allora non esistevano neppure i termini “computer” e “mainframe”.

Secondo Chandler, i settori industriali nascono per la capacità imprenditoriale di imprese che assumono il ruolo di iniziatrici di un nuovo processo:

“Chiamo queste imprese first-mover […] Non sono necessariamente le prime a vendere il nuovo prodotto: sono state le prime a sviluppare un insieme integrato di capacità funzionali essenziale per commercializzare il nuovo prodotto in grandi volumi sui mercati mondiali” (La rivoluzione elettronica, pag. 4).

E la IBM, come dimostra puntualmente in tutto il libro, è stata la first-mover nel settore industriale dei computer, riuscendo a consolidare nel tempo i successi iniziali, prendendo iniziative sempre più innovative e coraggiose, che mantenevano incolmabile il distacco dalle concorrenti. A questo proposito val la pena citare per intero il passo in cui Chandler racconta l’uscita ingloriosa di General Electric dalla contesa:

“Entro il 1968 la divisione computer della GE aveva costituito impianti di ricerca, engineering e produzione in tredici sedi in cinque nazioni. Aveva impostato un’organizzazione internazionale per il marketing e l’assistenza tecnica formata da circa 8.000 persone. Nell’espandersi, fece uscire la nuova serie 100 e 200 di computer per le imprese. In quell’anno, il 1968, i dirigenti della divisione riferirono che le vendite di sistemi informativi erano «ben al di sopra di quelle del 1967 e con perdite operative sostanzialmente ridotte». Per migliorare la posizione competitiva della GE, la dirigenza approvò piani di spesa per 400 milioni di dollari al fine di sviluppare una linea di prodotti avanzata (Advanced Product Line: APL).

Verso la fine del 1969 il presidente del consiglio di amministrazione della GE, Fred J. Borsch, costituì una New Venture Taskforce per valutare le prospettive dei tre maggiori business a elevata tecnologia della società: energia nucleare, motori a reazione e computer. Dopo un’accurata valutazione, il gruppo di lavoro raccomandò di conservare i primi due, ma insistette per la chiusura dei computer. «A fronte di una mancata crescita negli utili. . . la General Electric non può, a nostro parere, intraprendere alcuna iniziativa da mezzo miliardo di dollari quale l’APL, che produce sostanziali perdite di utile netto a medio termine».

Inoltre, continuava il rapporto, l’IBM rappresentava un «bersaglio in movimento». Una volta raggiunta dalla GE, l’IBM si sarebbe trovata ancora più oltre nella sua traiettoria di apprendimento. L’annuncio da parte dell’IBM del System 370 garantì l’approvazione delle raccomandazioni del gruppo di lavoro. Nel maggio del 1970 il top management della GE vendette il suo business nell’hardware dei computer, comprese Bull e Olivetti, alla Honeywell, con una transazione che portò alla costituzione della Honeywell Information Systems, nella quale GE conservava una quota del 18,5 percento. Un complesso scambio di note e di azioni sembra abbia coperto le perdite di GE nei computer per 164 milioni di dollari. La quota del 18,5 percento venne venduta durante gli anni Settanta.

Una delle ragioni di fondo dell’insuccesso di GE, riferì il gruppo di lavoro, era di natura manageriale. I dirigenti della divisione computer mancavano dell’addestramento e dell’esperienza specifici necessari per perseguire lo sviluppo a lungo termine dei prodotti. La litania di errori, incidenti, false partenze e mancati approfondimenti espressa nel rapporto documenta le difficoltà incontrate persino dall’impresa più esperta nella tecnica nel costruire una divisione operativa integrata in un nuovo percorso di apprendimento a elevata tecnologia. Inoltre, trattandosi di uno solo fra i tanti e svariati business importanti, quello dei computer non riuscì a richiamare l’attenzione e l’impegno dell’alta dirigenza.” (La rivoluzione elettronica, pagg. 119-120).

Qualche attento studioso delle vicende delle industrie italiane ha avanzato l’ipotesi che a minare dalle fondamenta le speranze di successo dell’impresa informatica Olivetti sia stato il mancato contributo dello Stato, sia sotto forma di finanziamenti della ricerca, sia tramite robuste commesse che avrebbero potuto creare un forte volano economico-finanziario in grado di far crescere il business nel settore privato. Ma anche questa ipotesi, non priva di fascino e di credibilità (in fondo la stessa IBM negli USA si avvantaggiò di importanti commesse militari in più di un momento della sua storia di successo), non regge all’analisi dei fatti e soprattutto al confronto con quanto accadde in altri paesi europei, dove l’intervento dello Stato, in varie forme, ci fu, prolungato e sostanzioso, ma non riuscì a salvare dal declino le imprese informatiche nazionali. Sentiamo ancora Chandler:

“[…] nel 1964 arrivò lo shock dell’annuncio del System 360 di IBM. Quell’annuncio spinse il governo laburista di Harold Wilson ad attivare subito un piano per creare un campione nazionale. Nel 1964 e nel 1965 il governo avviò svariate iniziative che fornirono alla ICT (International Computers and Tabulators) cinque milioni di sterline per R&S. Acquisizioni e fusioni continuarono. Il governo poi dispose rapidamente per la fusione dei due costruttori indipendenti di computer che ancora restavano, Elliott-Automation Associates e English Electric. La nuova società prese il nome di English Electric Computers. Prima di quella fusione, English Electric aveva acquisito Ferranti, che aveva installato nel 1951 il primo computer analitico inglese, ma che aveva iniziato a produrre computer in quantità industriali soltanto nei tardi anni Cinquanta. Infine il governo Wilson prese nel 1967 l’iniziativa di realizzare l’ultima fusione, che univa English Electric Computers con ICT per formare la International Computers Ltd. Poi finanziò questo campione nazionale con 35 milioni di sterline e gli diede la preferenza in tutti gli approvvigionamenti della pubblica amministrazione. [corsivo mio]

Come ha evidenziato Kenneth Flamm, lo storico della crescita globale di questo settore industriale, «La corsa alle fusioni finì per lasciare ICL con una linea di prodotti altamente incompatibili, insieme con l’agglomerazione in una sola impresa dei problemi di molte altre». Il nuovo campione nazionale aveva ben poche speranze di diventare una efficace base di apprendimento nazionale.” (La rivoluzione elettronica, pag. 215)

“La strategia del governo di costruire un campione nazionale tramite fusioni di svariate piccole imprese fallì. Queste imprese fuse fra loro, con capacità tecniche in qualche modo correlate, avevano ben poche capacità funzionali integrate: vale a dire, sviluppo prodotti, produzione o persino marketing. ICL fornisce un classico esempio delle difficoltà che si incontrano nel creare una forza competitiva mediante fusioni.” (La rivoluzione elettronica, pag. 217)

Risultati altrettanto fallimentari, puntualizza Chandler, si ebbero in Francia, dove un faraonico piano di rilancio dell’informatica nazionale voluto, manco a dirlo, da Charles De Gaulle, e chiamato Plan Calcul non riuscì a risollevare le sorti dei produttori nazionali.

In conclusione, la nostra bella ed entusiasmante battaglia per l’elettronica Olivetti era persa in partenza, senza che nessuno di noi lo sapesse, dai massimi dirigenti ai più sprovveduti fra i neo assunti.

Nel mondo degli affari non vale, come sappiamo tutti, il motto immortale di De Coubertin, ma vige il suo opposto: “L’importante non è partecipare, ma vincere”. Noi non abbiamo vinto, questo è certo, ma di sicuro ci siamo appassionati, vivendo con entusiasmo alcuni anni fra i migliori della nostra vita. Non è stata una cosa da poco.

 

Inserito il:20/06/2020 13:52:06
Ultimo aggiornamento:20/06/2020 14:00:21
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