Aggiornato al 27/04/2024

Non sono d’accordo con quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo

Voltaire

Affresco, morte di San Francesco, su una volta del Commissariato di Ivrea un tempo parte dell'ex convento

 

La Olivetti vista con gli occhi di un dipendente - 5

Una vita da cronista

(seguito)

di Rolando Argentero

con Cesare Verlucca

 

Per la mia attività di cronista (prima “La Sentinella del Canavese”, poi “La Stampa” e anche “Il Corsera”), ho trascorso centinaia di ore in compagnia dei colleghi sul piazzale dell’ospedale civile – dov’era sistemata un tempo la caserma dei carabinieri – esposto al vento che in quella posizione senza ripari soffia fortissimo – oppure nell’atrio del Commissariato di Pubblica Sicurezza. In entrambi i luoghi ormai eravamo di casa – i miei colleghi ed io – e i “piantoni” ormai ci conoscevano e non ci fermavano più al nostro arrivo.

Per me, in particolare, il “giro” era sempre il solito: caserma dei Vigili del Fuoco, quindi i militi dell’Arma, con prima una sosta nell’ufficio del maresciallo maggiore Vignarelli Colli che dirigeva la stazione di Ivrea e che, in assenza del Capitano, era il responsabile di tutta la Compagnia e quindi anche delle stazioni periferiche che gravitavano sulla cittadina canavesana.

Non va dimenticato che da Ivrea è passato restandovi un paio d’anni a fare “gavetta” quello che è poi diventato il Comandante Generale dell’Arma, il Generale Gianfranco Siazzu.

Infine, prima di rientrare a casa, mi recavo in Commissariato dove i rapporti erano ancora più amichevoli. Lì il piantone era a sinistra, in un vasto ingresso di un prezioso palazzo per i molti affreschi che conserva. Si tratta, infatti, dell’ex Convento di S. Francesco, risalente al 1215. Padre Benvenuti, nella sua “Storia di Ivrea”, scrive: “Eretto nella forma che ancora dimostra l’antico chiostro, in cui sino al principio del secolo scorso veneravasi la camera dove ebbe ricetto il S. Padre Francesco, così rimase per tutto il secolo XIII. Ma appena per concessione pontificia fu concesso ai PP. Conventuali di possedere beni stabili, andarono a gara i pij cittadini nel favorirli. Prima di tutti i signori della Stria loro donarono il proprio palazzo, che nel 1300 con comuni limosine si ridusse nella Gran Chiesa, cui la torre già del detto Palazzo serve di campanile. La Chiesa fu poi consacrata dal vescovo Oberto nel 1344”.

Molto è andato distrutto, ma chi si reca ancor oggi per qualche pratica presso questi uffici, se avrà l’occhio attento potrà cogliere una parte di quanto è rimasto a testimoniare un ricco passato d’arte. Come acutamente ha scritto la dottoressa Paola Capozzi, a lungo Dirigente del Commissariato, “quel palazzo monumentale che sorge nel cuore della città è una straordinaria testimonianza di una serie di eventi che hanno lasciato un segno, col trascorrere degli anni e dei secoli, nella vita civile e personale degli eporediesi, un autentico pezzo di storia fatto di pietre e mattoni”.

È sufficiente, entrando, osservare con cura i quattro medaglioni che si trovano agli angoli con le loro scritte originali: “Ti ho amato con eterno affetto”; “Consumata sarò prima che spenta”; “La pianta che viene trapiantata continua a dare i suoi frutti”; “Dal suol di qui frutti migliori attendo”.

Tuttavia non si tratta che di un antipasto, perché anche negli uffici ai piani superiori e negli alloggi riservati ai dirigenti c’è un fiorire di opere d’arte, a conferma della grande ricchezza che doveva arredare il convento. Una parte degli affreschi sono di Luca Rossetti da Orta, che operò anche nella chiesa, completamente distrutta. Va ricordato, infatti, che accanto al Convento esisteva una chiesa gotica a cinque navate, dedicata al Poverello d’Assisi, poi sconsacrata e adibita a deposito d’autobus, e infine abbattuta per far posto a un’ala del Palazzo degli Studi, in epoca fascista.

Non per niente al primo piano viveva, ben “custodito”, l’ingegner Agostino Sanvenero, uno dei massimi dirigenti della Olivetti, a quell’epoca. A destra, entrando, un passaggio portava a tre uffici rispettivamente occupati dai marescialli D’Agostino e Roma (quest’ultimo imparentatosi con me per aver sposato una mia cugina) che si occupavano dei fatti di cronaca “nera” che avvenivano in città: quello cioè che io cercavo e che era d’interesse per il giornale per cui scrivevo.

Era dal dottor Battegazzorre, il Commissario Capo, poi promosso vice Questore, l’ultima fermata. I rapporti con lui erano diventati particolarmente cordiali dopo che avevamo trascorso insieme le vacanze estive sulla spiaggia di Senigallia con le rispettive famiglie: lui con la moglie e un figlio maschio, io con la mia consorte e le due figlie. Mentre i ragazzi giocavano in acqua o sul bagnasciuga noi due leggevamo i giornali e le nostre signore commentavano i fatti del giorno con un occhio alla prole. Di sera, poi, ci concedevamo qualche passeggiata per gustarci un gelato o per qualche cenetta in locali segnalatici dal Commissario locale che era venuto a salutare e a rendere omaggio al collega. Insomma, una vacanza che era servita a cementare un’amicizia utile anche successivamente ai fini del lavoro.

Mi capitò spesso poi di essere invitato nel suo ufficio in occasione di gravi fatti di cronaca per collaborare alla stesura del rapporto che doveva inviare al più presto al Questore, a Torino. Lo facevo volentieri anche perché così riuscivo a cogliere tutti gli elementi della vicenda senza dover fare la fila con i colleghi degli altri giornali.

Il duro prezzo da pagare fu quando, improvvisamente il dottor Battegazzore scomparve. I suoi collaboratori vennero a chiedermi di ricordarlo in Chiesa, durante il funerale, presente anche il signor Questore. Non fu facile mantenere l’equilibrio tra l’amicizia e il ruolo istituzionale, il rapporto con la famiglia e i sottufficiali e gli agenti che l’avevano servito con devozione: mi venne un groppo in gola, ma portai a termine l’incarico. Addio, mio buon amico, compagno di tante vicende.

(Continua)

 

Inserito il:23/11/2021 21:36:01
Ultimo aggiornamento:07/12/2021 17:07:47
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