Jerome Sion (Valenzuela, Filippine, Contemporary) - Sandstorm
ARABIA FELIX (3/3)
(seguito)
di Gian Paolo Lozej
16.
Un po’ affrettatamente completo la mia prima sezione geologica. Mokhtar mi attende accanto alla Range Rover. I suoi occhi sono fessure luminose nella stretta apertura tra le pieghe del ghutra che gli copre completamente il viso.
Ripartiamo in fretta. Mokhtar guida con determinatezza. Io seguo attentamente sulla mappa il nostro percorso, in anticipazione della mia prossima sezione. “Dobbiamo portarci avanti il più presto possibile, prima del sopraggiungere della tempesta …”.
Il vento cresce. Raffiche di sabbia crepitano contro la lamiera del veicolo. Un’opaca luminosità bluastra invade gradualmente l’atmosfera.
Arrivati ai piedi del rilievo scelto, Mokhtar mi fissa in silenzio. “I must finish my work …”, mormoro senza ricambiare lo sguardo.
Una nota sul libretto di campagna, un’occhiata all’altimetro impazzito, la direzione della bussola, il sacco e il martello.
Mokhtar non risponde al mio cenno di saluto.
17.
L’ascesa è lenta, ostinata. Il versante relativamente protetto, ma colpi obliqui di vento mi costringono ad un continuo contatto fisico con la roccia come raramente prima ho provato. Soltanto la mia presunzione dà credito al valore del mio lavoro.
Finché, improvvisamente, la nube di sabbia mi avvolge.
Una sensazione allucinante mi invade---una sensazione seppellita nella memoria, ma che chiarissimamente riconosco di quando, appena bamboccio, rischiai di annegare in un fosso: un precipitare inesorabile dentro un ambiente naturale che non mi appartiene … La densità estranea, calda e luminosa, del fluido in cui mi sento immerso cancella ogni percezione familiare.
La prima reazione è stranamente incontaminata dalla paura: una semplice scossa istintiva, un raggomitolarmi in me stesso, un tentare di ricatturare forme ancestrali di esistenza, di sopravvivenza.
Poi, dopo unità spaziali e temporali immisurabili, la redenzione del dolore mi costringe a ricatturare il senso del mio corpo---flagellato dal vento, soffocato dalla sabbia, schiacciato in un anfratto di roccia.
18.
I primi gesti coscienti sono goffi come quelli di un nuotatore incerto sott’acqua. Mi ritrovo dolorante, ma intatto---il martello ancora in mano.
A poco a poco recupero la polarità gravitazionale nel mio mondo cieco. Il riferimento sicuro della parete rocciosa mi procura un rinnovato equilibrio. Ma anche paura.
Con difficoltà estraggo dal sacco un panno che avvolgo intorno alla testa, per filtrare l’aria da respirare, per proteggere gli occhi. “Poi tenterò la via del ritorno …”.
La turbolenza selvaggia dell’impatto della tempesta va gradualmente scemando. La luce accecante diffusa svanisce in un opalescente grigiore.
La discesa è lentissima---una successione sofferta di spostamenti infinitesimi in direzioni incerte. La visibilità rimane circoscritta alla lunghezza di un braccio. Sublimo il mio acutissimo bisogno di Mokhtar nel cercare di imitare i suoi gesti, i suoi movimenti, i suoi possibili spostamenti.
Sono ormai immerso in un buio opaco quando, finalmente, affondo nella sabbia che ricordo ammucchiata ai piedi del rilievo. Pochi passi ancora … Il magico contatto con la rotaia della “mia” ferrovia mi riempie di commozione dolcissima, e riconoscenza.
Piango di gioia come un bambino, e chiamo Mokhtar ad altissima voce.
19.
La mia gioia infantile si cristallizza nel silenzio che chiude il suono vuoto della mia voce. Presto si trasforma in paura profonda.
Sono ormai quasi assuefatto alla consistenza pesante dell’aria, le frustrate di sabbia, la precarietà d’orientamento, l’assenza di visibilità. Ma ora capisco che la mia sfida alla tempesta, e la mia vittoria effimera, avevano dentro una matrice segreta: il desiderio di provare me stesso a Mokhtar. E, insieme, la certezza che Mokhtar mi era sempre, invisibilmente, vicino. Adesso, quando credo di averlo finalmente di nuovo raggiunto, di avergli così dimostrato quanto da lui ho imparato … e Mokhtar non c’è, neppure c’è la Range Rover … adesso mi sento davvero disperato, davvero solo.
E quando, movendomi ormai alla cieca e senza controllo, perdo anche il riferimento prezioso delle rotaie della mia ferrovia, allora mi sento davvero perduto.
La fatica, però, prende il sopravvento sulle emozioni. Come per inerzia, cerco un riparo per la notte, forse già da tempo arrivata.
Il ritrovato contatto con la parete di arenaria mi rinfranca. Un’apertura nella roccia mi porta al riparo dal vento.
“Non ho niente per far luce o fuoco, non importa …”. Procedo a tastoni, lungo questa roccia ormai così familiare---così piacevolmente liscia lì dentro, quasi sensualmente morbida.
Lo strato levigato mi invita a sdraiarmi. Il sonno mi spegne immediatamente.
20.
Un sonno pesante, ma tormentato e inquieto. I sogni mi visitano in frammenti di incubi confusi…
… Le architetture delle mie arenarie si sollevano dal deserto d’Arabia, diventano le nubi del grande cielo dello Yukon, si trasformano in eliopoli nei cui labirinti mi perdo, in forme mostruose---archetipi di riproduzione---che mi minacciano, mi inseguono …
… E gli occhi bianchi della nonna morta mi fissano immobili, e io continuo ad accarezzare Giulietta, la sorella più amata …
… E, inevitabilmente, il mio sogno ricorrente di precipitare: e volo come un uccello ferito giù da un dirupo per poi, come sempre, planare dolcemente, questa notte sulle rotaie nere che galleggiano nel lago azzurrissimo …
… E, dai dipinti del mio harem escono le odalische amorose ad invitarmi a piaceri proibiti, e il bey mi scopre, e furibondo mi attacca, il peso del suo corpo nudo mi schiaccia …
Mi riscuoto dall’incubo, soffocato di terrore e piacere, coperto di sudore febbrile: nel buio una mano mi accarezza, una voce mi rassicura: “Malish, malish … Sleep …”.
L’angoscia del sogno, la paura della tempesta, la disperazione della solitudine scompaiono come d’incanto: “Mokhtar mi ha ritrovato, Mokhtar è qui con me …”.
Abbraccio Mokhtar amorosamente …
21.
Un grido---un urlo bestiale---ci sveglia di soprassalto, ancora vicini. Una luce irreale delinea l’apertura squadrata nella roccia lontana, sfuma il rilievo delle pareti nel chiaroscuro che ci circonda.
“Mumkin askaria…”, forse i soldati, mormora Mokhtar. Ma nessuno compare.
Un altro grido, cupo e imperioso, come una sentenza inappellabile.
“I must go, you stay…”. Mokhtar si alza, infila la daga nella cintura, si avvia con lentezza solenne verso la luce, scompare come un’ombra opaca.
22.
L’atmosfera del sogno persiste nella mia sfera di consapevolezza. Ma gli occhi man mano riacquistano il potere della visione---e a poco a poco ritrovo la percezione di plasticità delle forme, di consistenza della materia, senza più bisogno del tramite tattile.
Come uno spettatore sorpreso, mi scopro dentro uno scenario inaspettato, nel quale la luce fa gradualmente emergere immagini di preciso significato … tombe scolpite nella roccia … cubicoli intagliati nella pietra, ornati di bassorilievi …
“… il mio letto notturno: un loculo nell’arenaria …”.
Con pacata accettazione, mi muovo come senza peso in questo prezioso mondo sotterraneo. Anche Mokhtar non conta più, ormai.
23.
Ma … la voce di Mokhtar mi chiama. E, spoglio di sacco e martello---my geological insignia---mi incammino verso la luce.
Procedo come un automa senza vita tra strette pareti di tombe, contro la pressione crescente della luce.
Alla soglia della mia catacomba, il taglio del pieno fulgore mi arresta, mi acceca. Solanto la figura di Mokhtar lentamente mi appare. Poi … Mokhtar solo, tragicamente grigio … in una necropoli di montagne color mattone, scolpite in mausolei ciclopici … una necropoli come già conosciuta, come già visitata …
“… Madah-in-Salih … Death City … “, le parole di Mokhtar, sussurrate all’inizio del viaggio.
Le mie mani tese verso di lui sono grigie, grigi i panni che mi vestono, come grigia è la sua tunica, grigio il suo volto immobile. La polvere della morte …
Ma, gradualmente, il mio campo ottico si dilata: sopra, il solito cielo azzurrissimo; alla periferia, la mia visione inevitabilmente statica pare animarsi di movimento … Forme di beduini armati si materializzano---un cerchio di fucili spianati ci circonda, si chiude contro di noi.
Vivo, inchiodato dall’emozione, la metamorfosi delle mie sensazioni---da quelle tragiche della morte a quelle spaventose del morire.
L’avanzare dei beduini si arresta. Una figura alta e solenne si stacca: solo, senza fucile, si dirige verso Mokhtar. Mokhtar si muove verso di lui.
“Husain … Mokhtar … “. Musicalità profonda dei nomi arabi gridati con gioia … Magia del coro di voci festanti che fa eco, che fa viva la scena.
Mokhtar e Husain---il comandante della pattuglia di soldati beduini---si abbracciano e si baciano, ritualmente e ripetutamente, affettuosamente. Poi tenendosi per l braccio, mi vengono incontro: “Akhim Husain, my brother … “. Mokhtar così mi presenta il fratello, con il suo sorriso più raro.
La forte stretta della mano ruvida del beduino mi riscuote alla vita.
24.
I soldati beduini vociano, ridono allegri. Catini di acqua rimuovono la crosta di polvere grigia che ci copre---la testimonianza della fine del khamsin. Il chai è soavemente dolce. E incominciano i preparativi del pranzo di rito.
Intanto, isolato nella felice confusione, posso ricatturare la realtà che mi contiene, godere incantato la magnificenza di Madah-in-Salih, l’antica Egra, l’invincibile cittadella dei Nabatei: la pura eleganza delle austere facciate dei mausolei scavati nelle pareti di arenaria; delle strutture scolpite in esatte geometrie di cornici e pilastri; di fregi severi di aquile e maschere umane … i monumenti rupestri che già avevo ammirato nelle rovine di Petra, la mitica capitale del regno Nabateo … qui incontaminati da duemila anni---inaccessibili ai Romani, Bizantini e Ottomani.
Ma ciò che mi affascina e turba è il flusso e riflusso di stratificazioni, architetture, laminazioni, decorazioni, “… il confluire così naturale delle mie arenarie e di queste testimonianze solenni di gloria della morte … “.
25.
La khabsa---il tradizionale piatto di montone bollito con riso speziato---è pronta sul largo piatto di metallo per terra. Il comandante mi chiama con Mokhtar a mangiare.
Schiacciamo il riso col pugno, insieme ai pezzi di carne che Husain stacca con la sua mano e ci offre. Mangiamo in silenzio, affamati.
Come dopo un tempo prestabilito, Mokhtar si alza per bere dell’acqua e lavarsi le mani. È il segnale di lasciar posto ai soldati in attesa del cibo.
Il caffè arabo---gialloverde, profumato di cardamonio, sorseggiato in tazze minuscole---mi tiene squisita compagnia. I due fratelli si recitano a turno storie certamente avvincenti, di cui non sono partecipe.
Ed è già l’ora del commiato.
26.
La pattuglia di beduini a cammello scorta la mia Range Rover. Mokhtar al volante, Husain gli siede accanto, io dietro in disparte.
Raggiunto il posto di blocco, Husain urla ordini perentori alle guardie, col tipico disprezzo del puro beduino per i militari in divisa.
Mokhtar e Husain si abbracciano stretti, ma in fretta. Io saluto col cenno di mano i soldati beduini allineati sui loro cammelli.
27.
La strada discende dolcemente lungo la valle che si apre verso la piana di Medina. La Range Rover sembra volare. Rocce cristalline dal basamento precambriano brillano di luce violetta. I palmeti dell’oasi di Ula sono la delizia della vista e del mio cuore.
Arabia Felix …