Elisabeth Germain (France, ? - ) – Chez Charles Restaurant - Dubai Design District
L’arte del cibo è vera arte?
di Tito Giraudo
L’intervento di Tito Giraudo alla giornata di studio sul cibo di Torino, 6 aprile 2019
E’ vera arte cucinare il cibo?
Se avessi fatto questa domanda in Italia, anche solo una trentina di anni fa, le risposte non sarebbero state univoche in quanto la cucina della mamma che era quella dell’immaginario collettivo, riguardava se mai una santa, non un’artista.
Certo, se la stessa domanda l’avessi fatta a uno storico del costume, mi avrebbe ricordato Trimalcione tra i romani, i banchetti medioevali e poi Caterina De Medici che portò in Francia il rinascimento in cucina. Inoltre, avrebbe citato la grande cucina borghese dopo la rivoluzione francese e la rivoluzione industriale e i cuochi della grande borghesia.
La Treccani ci dice che arte, è:
Qualsiasi forma di attività dell'uomo come riprova o esaltazione del suo talento inventivo e della sua capacità espressiva.
Qualsiasi complesso di tecniche e metodi concernenti una realizzazione autonoma o un'applicazione pratica nel campo dell'operare.
Ma forse l’enciclopedico, svilirebbe troppo gli artisti e le forme d’arte più evolute e quindi, al di là degli esperti, noi che siamo pratici, cerchiamo di paragonare l’arte di cucinare il cibo a quelle arti e quegli artisti oggi celebrati, ma quasi bistrattati dai contemporanei.
Lo storico ci ricorderebbe che Michelangelo fu poco più di un artigiano servitore di Papi mecenati, Mozart poco più di un valletto di un principe vescovo, alla cui corte probabilmente il cuoco era trattato con maggiore considerazione.
Wagner poi trovò benessere e considerazione grazie a un Re, Ludwig di Baviera, che si invaghì della sua musica che accompagnava i suoi libretti con la narrazione dei grandi miti e leggende nordiche. Un Re che lo stesso storico ci ricorderebbe come non troppo sano di mente. Ma che i Bavaresi contemporanei dovrebbero ringraziare per la creazione del tempio Wagneriano nella modesta Bayreuth, dove da oltre un secolo si rappresentano le sue opere per la gioia dei melomani e … dell’ente del turismo.
Insomma, l’arte e gli artisti hanno la A maiuscola a seconda del contesto sociale che li circonda.
La consacrazione vera per l’artista, avviene quando la sua arte esce dal chiuso per raggiungere la sensibilità di più vasti strati sociali. E’ ciò che sta succedendo in questi ultimi decenni per l’arte e gli artisti della cucina.
Uno storico del gusto, meglio di me, potrebbe raccontarvi il cammino nei secoli dell’arte di cucinare il cibo. Io, da storico dilettante, cercherò di inquadrare cosa sono state le trasformazioni di una delle branche dell’arte del cibo: la ristorazione dal secondo dopo guerra.
Uscimmo dalla guerra stremati e affamati e per qualche anno pensammo più a riempirci lo stomaco che non ai piaceri della tavola.
Chi vi parla ha ricordi infantili: la pagnotta di pane bianco a merenda, i pranzi di nozze al paese della mamma, soprattutto le pochissime feste comandate dove avveniva la grande abbuffata.
La prima volta che mangiai in un ristorante fu con mio padre, entrambi in bicicletta dopo un giro in collina, mangiammo un piatto di spaghetti al sugo in una piola lungo la strada che porta a Mongreno, una frazione collinare di Torino.
Per la prima volta gustai sapori diversi da quelli della cucina di famiglia.
Gli spaghetti, che la mia mamma lasciava sempre un po’ scotti, erano piacevolmente al dente e il sugo aveva aromi sconosciuti. Ebbi la convinzione che al ristorante si mangiava meglio che in casa, verità che purtroppo sarà messa a dura prova nel prosieguo delle esperienze ristorative, sovente deludenti rispetto a quella casalinga, dato che da noi esisteva e ancora esiste troppa ristorazione improvvisata.
La svolta nella ristorazione, soprattutto della percezione di questa da parte di più ampi strati della popolazione anche nel nostro Paese, coincise, più o meno, con il fenomeno mondiale della Nouvelle cuisine.
Nel volgo popolare si dice nato in Francia da quel grande chef che fu Paul Bocuse. In realtà si tratta di un movimento capitanato dai più grandi chef francesi.
In qualche modo fu la rivolta di costoro nei confronti della opulenta ma greve cucina ereditata dal Rinascimento. La Nouvelle cuisine francese seguì di pari passo i nuovi movimenti letterari e cinematografici: la Nouvelle Critique Littéraire, le Nouveau Roman e naturalmente la Nouvelle Vague. Occorre però dire che divenne fenomeno mediatico grazie a due giornalisti enogastronomici: Henri Gault e Christian Millau. Sulla Nouvelle cuisine si sono dette e scritte tante inesattezze, complici soprattutto i cattivi ristoratori che l’hanno mal interpretata.
Consentitemi una digressione di carattere storico.
Il nuovo movimento probabilmente sarebbe stato rinchiuso nelle grandi cucine di grandi chef, se i due giornalisti enogastronomici non l’avessero pubblicizzato, soprattutto sulla loro: “Guida ai ristoranti di Francia”. Henri Gault e Christian Millau nel 1973, pubblicarono il decalogo della Nouvelle cuisine, con lo scopo di definire una linea di condotta per gli chef che intendessero aderire ai valori moderni della cucina negli anni '70.
Immaginatevi il Monte Sinai e l’albero che arde ad un attonito Mosè gastronomico:
- "Non cuocerai troppo."
- "Utilizzerai prodotti freschi e di qualità."
- "Alleggerirai il tuo menù."
- "Non sarai sistematicamente modernista."
- "Ricercherai tuttavia il contributo di nuove tecniche."
- "Eviterai marinate, frollature, fermentazioni, ecc."
- "Eliminerai le salse e i sughi ricchi."
- "Non ignorerai la dietetica."
- "Non truccherai la presentazione dei tuoi piatti."
- "Sarai inventivo
Visti con l’occhio dell’oggi, sono regole di buon senso.
Negli anni settanta in Francia rappresentarono una linea netta di rottura dalla cucina delle besciamelle, delle maionesi e di tutte le salse grasse. Se poi aggiungiamo la veloce cottura del cibo, la freschezza degli ingredienti e la loro stagionalità, capirete che ciò non ha nulla a che vedere con l’interpretazione successiva che il dilettantismo di troppi chef ne diede, creando la cucina degli assaggini, dei menù guidati a tutti i costi per giustificare conti sproporzionati.
Naturalmente in Italia ci furono le eccezioni e cioè quegli chef che avevano capito i principi della nuova cucina. Il grande interprete italiano sarà indiscutibilmente Gualtiero Marchesi. Nulla però avrebbero potuto fare gli chef della nuova cucina se non ci fosse stato il giornalismo enogastronomico che in Italia ebbe due grandissimi precursori: Mario Soldati e Luigi Veronelli.
Personalmente non ho conosciuto Soldati. Quando fu Presidente del Pannunzio, lui era un Liberale e io facevo ancora il socialista, ma ho avuto il privilegio di collaborare sia con Veronelli, sia con Gualtiero Marchesi quando negli anni 90 come consulente delle Fiere alberghiere organizzavo gli alberghi laboratori e, con quella gran donna dell’enogastronomia piemontese, Claudia Ferraresi, portammo in fiera menù ideati e diretti dai migliori chef per essere realizzati dai ragazzi degli istituti alberghieri.
Tornando al giornalismo enogastronomico italiano, il suo momento di grande diffusione lo si ebbe con la nascita della guida dell’Espresso. Nata in collaborazione con quella francese di Gault e Millau, censirà i migliori ristoranti italiani, dando punteggi in ventesimi dove non solo il cibo veniva giudicato, ma il servizio, la mise en place, la carta dei vini. Insomma, oltre al genio dello chef, la professionalità.
Se permettete, vorrei parlare proprio della professionalità e della tecnica nella cucina che con l’inventiva dello chef fanno la differenza. La grande cucina ha bisogno di grandi brigate, le quali sono formate da buone, anzi, meglio sarebbe, ottime scuole alberghiere. Per il nostro Paese i politici ogni tanto sognano un futuro tutto turistico. (A mio parere, cosa di per se stessa abbastanza peregrina che fa il paio con il Paese tutto agricoltura, anzi agricoltura di nicchia!). La cosa più grave però è che non si fa nulla per realizzare tutto ciò.
Scusate se la butto in politica.
Il turismo in Italia, dall’ottocento in avanti, fu quasi esclusivamente per le élite. Poi, negli anni 50-60 ci fu quello di massa. Come è costume del bel paese, tutto nacque improvvisato. Avvenne il sacco del territorio. I lungo mare furono invasi da alberghi, sovente solo pensioni a conduzione familiare del tutto improvvisate, dove si suppliva alla carenza di servizi con la pensione completa approfittando di una clientela popolare di bocca buona.
La nostra politica, quando cerca di indicare un futuro economico radioso, ci racconta la balla che potremmo vivere di agricoltura e di turismo, dimenticando che in una visione moderna e globale, sia l’una come l’altro, hanno e avranno nel nostro paese forti criticità dovute alla polverizzazione, sia nell’agricoltura, come nelle imprese turistiche. Il turismo, soprattutto quello internazionale, è profondamente cambiato soprattutto con la globalizzazione; i flussi nazionali hanno ridotto i giorni di permanenza e aumentato la richiesta di qualità, ma soprattutto c’è la concorrenza internazionale sempre più agguerrita.
Non si vive di soli paesaggi e opere d’arte senza un’ospitalità professionale all’altezza dei tempi, con servizi ormai richiesti da tutti gli strati della popolazione, quello che viene definito “turismo di massa” che potrà anche non piacere, ma fa i grandi numeri e il grande business.
Tornando alla ristorazione italiana, esiste un profondo divario tra la ristorazione pura che in questi ultimi anni ha fatto passi da gigante e la ristorazione alberghiera che, salvo pochissimi casi, è deludente, anonima, con standard internazionali raffazzonati.
Ciò dipende dalla grande polverizzazione delle strutture. Troppo spesso le grandi catene alberghiere sono in franchising: non economia e qualità di scala, anche se in questi ultimi anni registriamo interessanti collaborazioni: Grande Hotel-Grande Chef. Ma sono ancora troppo poche.
Un altro grosso problema è quello formativo, soprattutto per quanto riguarda la cucina. In quest’Italia, ormai di tanti laureati rispetto ad un tempo, può non essere difficile che un dottore in economia possa essere un ottimo albergatore (almeno con un po’ di tirocinio), cosa che non può capitare se vuoi fare lo chef, o anche solo far parte di una brigata, perché la ristorazione professionale, oltre che estro, è tecnica delle attrezzature, della materia prima, delle cotture e della presentazione dei piatti. In questi ultimi anni c’è stata una proliferazione di scuole alberghiere. Il che in sé è un’ottima cosa.
Da refugium peccatorum di anni fa, il livello degli Istituti per il turismo è aumentato, ma non ancora al livello richiesto dal mercato. Troppo spesso i docenti escono dalla stessa scuola alberghiera che li ha formati con più difetti che pregi. Soprattutto mancano scuole a livello universitario.
Nei miei anni di permanenza sulla costa romagnola, quando dirigevo un Centro Studi sulla progettazione alberghiera, ho più volte consigliato gli albergatori (il cui sogno era di vedere il proprio figlio architetto), di pensare seriamente fargli frequentare quella grande scuola che è la Facoltà del Turismo di Losanna.
Fondata nel 1537, l'Università di Losanna ha sette facoltà ed ospita oltre 14'000 studenti e 2'700 ricercatori. L'UNIL figura regolarmente tra le 200 università più prestigiose delle classifiche internazionali.
Chissà se l’ineffabile Ministro del Lavoro, quando straparla di un’Italia Turistica, al di là del paradosso, riesce a immaginare che ormai il turismo, soprattutto la ristorazione, ha bisogno di scuole adeguate a tutti i livelli, con una programmazione che non si fermi alla più vicina campagna elettorale. Naturalmente il politico in questione non è la novità perché, per par condicio, non fa altro che proseguire vecchi vezzi politici, naturalmente di altro segno e altro colore.
Fra poco meno di 20 giorni compirò il settantottesimo anno di vita. Vita che per tradizioni familiari prima, e per aver sposato una buongustaia poi, ha sempre avuto nel cibo uno dei riferimenti. Se frugo nei miei ricordi, quando facevo politica non posso dimenticare i momenti conviviali con grandi personaggi di questa: Ferruccio Parri, Riccardo Lombardi e, una sera a tu per tu, una cena fuori di Porta Nuova con Sandro Pertini.
Ma quante cene con Sergio Borgogno grande socialista torinese e vicesindaco di Torino e poi con Giorgio Cardetti che fu sindaco alla fine degli anni ottanta. Come non ricordare al termine delle riunioni, i giri nelle piole torinesi: La Rosa bianca, la bocciofila in collina a Moncalieri, e tante altre. Poi da sindacalista i viaggi a Roma, dove scoprii il fascino delle osterie romane: negli anni sessanta erano ancora genuine, quando la gente si portava il cibo da casa, accontentandosi di bere la fraschetta di vino.
Infine, da modesto imprenditore, i miei cantieri erano accompagnati dalla consultazione, appunto, della “Guida dell’Espresso” e quindi conobbi anche la ristorazione evoluta. Poi, quando mi occupai di ricettività, il mondo del cibo cucinato mi svelò anche i suoi aspetti culturali, nonché le sue storture e strumentalizzazioni politiche. Ho collaborato alcuni anni con il Movimento Slow Food, nato proprio in Piemonte. A me toccò di propiziare slow food Romagna.
Tuttavia, oggi non posso non rimarcare la troppa ideologia anche utopica, in contraddizione con il gigantismo del “Salone del Gusto”che è tutto, fuorché slow.
Sarei ingiusto però se non sottolineassi il grande contributo e l’aver sprovincializzato, anzi reso internazionale, il cibo italiano, cosa peraltro riuscita pure dall’iniziativa, tutta commerciale, Eataly, altrettanto valida per la conoscenza dell’agro alimentare del nostro Paese.
Concludo:
Il cibo è arte, per me indiscutibilmente. E’ amore e cultura ben al di là del mero nutrirsi.
Non so se la cucina molecolare soppianterà la Nouvelle Cuisine e quali altre innovazioni dovremo vedere. Di una cosa sono certo, le previsioni fantascientifiche del cibo in pillole, visti gli sviluppi soprattutto mediatici, per una volta non mi sembrano azzeccate, non solo nel breve, ma anche nel lungo periodo.