Aggiornato al 10/12/2024

Non sono d’accordo con quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo

Voltaire

Immagine realizzata con strumenti di Intelligenza Artificiale

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La metamorfosi irrappresentabile

Vivere la propria morte

 

di Giacomo Ghidelli

 

1. “Questo solo capì. Di essere caduto nella tenebra. E nell’istante in cui seppe, cessò di sapere.” Così – con la descrizione del suicidio del protagonista – termina Martin Eden, capolavoro di Jack London. Martin Eden, dunque, si uccide. Ma non saprà mai il senso della propria morte. E non sapendolo, non potrà mai comunicarlo ad alcuno. La morte, infatti, non è un’esperienza né conoscibile, né comunicabile. E ciò significa che l’uomo può parlare sulla morte ma non della morte. Si può parlare dello stato fisico del morto o delle emozioni che la morte (propria, in quanto immaginata; o di altri, in quanto saputa) suscita. Ma nessuno può parlare della morte come di una esperienza vissuta. Come disse Epicuro, “Quando ci siamo noi la morte non c’è. Quando c’è la morte non ci siamo noi”. E nello stesso senso Wittgestein affermava “La morte non è un evento della vita: non si vive la morte”.

2. Della morte, dunque, non c’è esperienza. Sulla morte non c’è comunicazione. “Inesperibilità” e “incomunicabilità”: due termini che non contrassegnano nessun altro accadimento della vita umana e che ci fanno affacciare al mistero. La morte è mistero. O per meglio dire – come scrive Jankelevitch riprendendo Gabriel Marcel – “la morte è contemporaneamente problema e mistero, logica e misteriosa. Fino a quando un uomo emerge dalla morte, ha la testa fuori: come uno che è al di sopra dei flutti, vive, può ancora nuotare (…) Ma nel momento in cui, invece, affonda, è immerso e non emerge, la morte diventa mistero”. È problema, quindi, finché resta “davanti a me, fuori di me, come un oggetto, trasparente, nella luce piena dell’evidenza senza ombre”. È mistero quando ci sono dentro, perché di essa non si dà conoscenza.

3. Perfettamente in linea con l’annullamento della comunicazione, la morte è innanzitutto – e immediatamente – silenzio. La persona che muore (ma anche l’oggetto che muore, il rapporto, il ricordo che muore) cessa di parlare, di dire e la sua modalità di “esistenza” (se così ci si può esprimere) diventa il silenzio. Dopo la morte, ciò che continua a parlare può essere soltanto il ricordo di ciò che è morto. Ciò che è morto non parla più. E anche nel caso del ricordo che muore, io posso ricordare soltanto l’intensità con cui mi parlava questo ricordo che non c’è più.

4. Per converso, quasi legge del contrappasso, il silenzio della morte apre lo strepito del dolore: pianti veri, pianti finti, pianti rituali, grida, lamentazioni delle prefiche, racconti su chi era vivo: il tutto anche per esorcizzare la paura per l’accaduto; anche come difesa dall’essere travolti, con il morto, nel mistero. E – soprattutto – dal silenzio. Perché il silenzio della morte apre lo spazio delle domande. Domande pronte a nascere e a farsi evidenti di fronte a ogni morte, ma che esplodono senza ritegno davanti a quelle che si pensa essere le “morti ingiuste”, le morti di coloro che non sono giunti naturalmente al termine della propria vita: i bambini, i giovani. E, in particolar modo, la morte di coloro che sono stati progettati, concepiti e allevati per far proseguire la vita dopo di noi: i figli.

5. Il prototipo di colui che chiede di fronte alla morte è Giobbe: è lui che apre una volta per tutte la gabbia della domanda sino ad allora racchiusa come una tigre. Privato di figli e figlie, Giobbe non si arrende di fronte agli amici che gli indicavano le ragioni di queste disgrazie in una sua presunta mancanza di fedeltà a Dio. No: Giobbe sa di non avere peccato, sa di non essere stato infedele. E soprattutto sa che la morte non è una punizione. Armato di questa forza, Giobbe chiede quindi a gran voce e chiama Dio (da cui tutto secondo lui dipende) a giustificarsi, a spiegargli il male che lui sta patendo. E dopo infiniti altri dolori e alti richiami, la risposta arriva: Dio appare e parla con Giobbe.

6. Ma, dal punto di vista di chi vuol conoscere la determinatezza della cosa e le sue implicazioni, quella che Dio dà è una non-risposta. Tu, uomo, ente finito, non sai e non puoi leggere il disegno infinito di Dio e quindi non puoi comprendere il dolore, non puoi comprendere la morte. Puoi soltanto accettarli come parte costitutiva della tua finitezza. Questa è la risposta di Dio. E il mistero, nonostante Dio stesso sia venuto a parlare con l’uomo, permane.

7. D’altra parte, quella di Dio non è una risposta tremenda. Neppure Dio infatti – sinché l’uomo è uomo, ovvero sinché l’uomo resta prigioniero della propria finitezza – neppure Dio, si diceva, può spiegare all’uomo l’abisso infinito della morte. Come si sa, il termine “abisso” deriva dal greco “ábyssos”, parola composta dalla particella privativa “a” e “byssós”, fondo del mare: propriamente, quindi, “mare senza fondo”. E proprio perché abisso infinito, abisso senza ritorno, la morte, per essere compresa, avrebbe bisogno di una dimensione diversa dalla finitezza. Ma se l’uomo non fosse finito non sarebbe più uomo. O, per meglio dire, l’uomo non può che esistere come ente finito: con un corpo, una mente, con i gesti e i pensieri che si susseguono singolarmente, l’uno dopo l’altro

8. Dalla frustrazione di questo estremo e radicale tentativo – il tentativo di avere una risposta direttamente e nientemeno che da Dio – nascono diverse posizioni di fronte alla morte. La frustrazione del tentativo lascia infatti quel Giobbe che non vive nella Bibbia inquieto e in allerta. Perché a questo punto l’uomo è solo di fronte alla domanda a cui non è stata data – e a cui nessuno, come abbiamo visto, potrà mai dare – risposta. A questo punto l’uomo è solo con la sua morte. E con i sentimenti, con le emozioni che da questa gli derivano. (Il Giobbe biblico, invece, accetta la risposta di Dio: gli si affida e viene ripagato con altri beni, con altri figli, con altro amore. Dopo aver patito, dopo aver odiato il suo Dio e dopo averlo “perdonato”, si potrebbe addirittura dire – ma è un dire terribile – che Giobbe trae del guadagno da questa vicenda: il legame perduto – dopo il lungo percorso del lutto – può venire riattualizzato e Giobbe impara a conoscere anche la nostalgia per i figli precedenti, sentimento che altrimenti gli sarebbe rimasto oscuro.)

9. La morte, abbiamo detto, permane come evento inconoscibile, sacro (nel senso di “intoccabile”) e tremendo, ovvero che fa “tremare di paura in quanto evento che eccede la normalità”. Contrappasso infinito della nostra finitezza, nostro limite e nostro fattore irrimediabilmente costitutivo, la morte potrà essere curata, alleviata, ma non eliminata: come dice Euripide nell’Andromaca, “per tutti gli uomini questo è il decreto degli dei: la morte è debito che ognuno deve pagare”. Un “debito”, uno scontro con il luogo radicale della finitezza, che non può non provocare angoscia.

10. “Angoscia” è parola che deriva dal latino “angustia”, ovvero “strettezza”. E, in effetti, la morte è proprio l’orizzonte che si restringe e si racchiude in una domanda senza risposta, in una attesa che non verrà mai soddisfatta e come tale è il luogo per eccellenza dell’angoscia. Winnicott ci fa comprendere la profondità dell’angoscia di morte parlandoci di quella che lui definisce “la paura del crollo”.

11. La capacità di mantenere le immagini nella mente per lungo tempo, afferma Winnicott, non è cosa che sia data sin dalla nascita. Nel neonato, l’oggetto permane nella mente finché permane nel suo campo sensoriale e soprattutto nel suo campo visivo. Poi tende a svanire. Così, ad esempio, la sensazione di esistenza della madre c’è finché la madre è presente. Quando la madre si allontana, va via, questa sensazione permane ancora per un certo lasso di tempo. Dopo di che, se la madre si assenta per un tempo molto lungo, nella mente del bambino l’immagine materna si annebbia e contemporaneamente cessa la sua capacità di simbolizzare la propria unione con la madre, unico modo – si badi – che il bambino ha di percepire la propria esistenza. Ebbene, dice Winnicott, è proprio in quello svanire dell’immagine materna, che si colloca il trauma, perché in quel momento il bambino ha vissuto una rottura della sua continuità di esistenza: una esperienza che non è rappresentabile. E per far capire quanto profonda sia l’angoscia legata a questo improvviso vuoto di sé, Winnicott ci parla addirittura di “agonia primitiva”. Eventi complessissimi, aggiunge, perché, si può affermare che tutto il lavoro del pensiero sia in realtà un tentativo di elaborare queste esperienze traumatiche.

12. Torneremo più avanti su questa prospettiva. Per ora limitiamoci ad annotare che se la morte è il luogo per eccellenza dell’angoscia, è anche il luogo che per eccellenza deve essere evitato. Fuga dall’angoscia, quindi, e sua elaborazione sono le strade che percorrono - che devono percorrere - i mortali. Ma le strade sono diverse tra loro: qui infatti si evidenziano le diversità di posizioni che l’uomo assume di fronte alla morte.

13. La prima via (“prima” perché storicamente percorsa dal maggior numero di persone) è quella di colui che dà senso alla morte interpretandola come un passaggio verso una diversa forma di vita. La morte, per la fede di questa persona, non è la conclusione definitiva dell’esistenza, la chiusura definitiva del mondo, ma è soltanto l’accesso a un diverso ordine del mondo: all’ordine vero, in cui tutte le domande saranno tolte, in cui tutte le risposte verranno date. L’abisso, per colui che crede alla vita dopo la morte, è soltanto apparente, è soltanto un “byssós”, un “fondo del mare”. E il fondo è ciò che cela un “al di là”, un altro luogo da abitare. Un luogo in cui il mistero verrà risolto. È vero che permane comunque – finché si è nella vita mortale – l’irrappresentabilità di questo luogo “altro” e l’irrappresentabilità del “passaggio” a questo luogo: anche il credente non sa in modo determinato cosa sia la morte, né sa cosa ci sia dopo. Ma questa irrappresentabilità non è tale da minare quel controllo dell’angoscia che nasce dalla fede di “essere attesi”. E, in ogni caso, si tratta di una irrappresentabilità che viene mitigata.

14. A mitigarla è il linguaggio descrittivo della fede. Scrive Paolo di Tarso nella Prima lettera ai Corinti: “Ecco che a voi svelo un mistero: noi non morremo tutti, ma tutti saremo trasformati, in un attimo, in un batter d’occhio, al suono dell’ultima tromba. Squillerà, infatti, la tromba e i morti risorgeranno incorruttibili e noi saremo trasformati. Perché è necessario che questo corpo corruttibile si rivesta di incorruttibilità e che il nostro corpo mortale si rivesta di immortalità”.

15. Interessante, è qui l’accento che viene posto sul termine “trasformazione”. Per il credente, la morte è il passaggio da una forma all’altra, da una forma finita a una forma infinita: una tras-formazione necessaria, perché per comprendere la morte, ovvero per superare l’angoscia della domanda senza risposta, è necessario – come si diceva – che il finito cambi di forma, accedendo in qualche modo all’infinito.

16. Il desiderio di infinito – e quindi la possibilità di avere tutte le risposte – non è però gratuito, ma può anzi avere un prezzo elevato (non è però detto che lo si debba pagare: storicamente è dato vedere persone credenti che non pagano questo prezzo). Il prezzo che si rischia di pagare alla voglia di infinito è la svalutazione di questo mondo. Di fronte all’infinito, il finito, in quanto tale, può correre il rischio di perdere di senso, qualora si creda – sulla base della fede – che il suo vero senso stia altrove. Nella prospettiva di certi credenti, tutto prende senso soltanto a partire da qualcosa che ora non è dato: tutti i rapporti reali sono subordinati a una non-presenza. E la morte, così, si prende la sua rivincita facendo diventare inessenziale la presenza del qui e dell’ora, ovvero facendo diventare inessenziale anche la vita, il cui vero viene rinviato definitivamente ad altro da sé.

17. Un’altra via per fuggire l’angoscia di morte è quella aperta da Prometeo che, assieme alla tecnica rappresentata dal fuoco, porta in dono agli uomini un altro “farmaco”. Dice Eschilo del Prometeo incatenato:

Coro: Nei doni concessi non sei magari andato oltre?

Prometeo: Sì, ho impedito agli uomini di vedere la loro sorte mortale.

Coro: Che tipo di farmaco hai scovato per questa malattia?

Prometeo: Ho posto in loro cieche speranze.

Coro: Un grande giovamento hai così donato ai mortali.

È lo stesso “giovamento” che si nasconde al fondo del vaso di Pandora, sotto tutti i mali, quello che ritroviamo accanto alla tecnica. Ma qual è questo giovamento, qual è questa “cieca speranza”? Impedire agli uomini di vedere la loro “sorte mortale” significa eliminare dallo sguardo dell’uomo la finitezza che lo contraddistingue, giacché “dimenticare la morte” significa proprio dimenticare il nostro essere costituzionalmente finiti. E soprattutto significa accedere al sogno di poter essere infiniti. Un sogno che ha parvenze di realtà profonda, proprio perché si salda con il dono della tecnica. Sostenuto da mezzi potenti, il sogno di infinito può così trasformarsi in volontà di infinito: in volontà di potenza.

18. Tecnica e “cieca speranza”: con questi doni, afferma Galimberti, Prometeo consegna all’uomo l’idea di una vita non più regolata sul modello biologico. Se la vita mortale termina con la morte, la “cieca speranza” consente di mettere questo termine tra parentesi, di espungerlo. Sostenuta dalla tecnica, nasce un’idea di un progresso che può affermarsi “al di là di ogni provvisorietà e finitezza”. Emancipando l’uomo dall’ineluttabile ritmo della natura, Prometeo gli infonde infatti la cieca speranza di sopravvivere e di vincere la morte.

19. È questa la base – dice ancora Galimberti – grazie a cui l’uomo ha potuto pensare di impadronirsi della “scienza di Dio”: è questo il punto di partenza in base a cui la scienza di Dio è passata all’uomo, se non come cosa subito in atto, senza dubbio come progetto. E la potenza della tecnica (ovvero il suo continuo e accelerato sviluppo) è una conferma continua e accelerata della liceità di questo progetto. In questa prospettiva la natura cessa di essere limite e diventa oggetto su cui poter esercitare il dominio: l’unico limite in gioco diventa il limite attuale, il limite che attualmente la tecnica incontra di fronte a sé e che supererà con il tempo. Ma così facendo si elimina il concetto stesso di limite, sostituendolo con quello di confine: un qualcosa che, per l’appunto, può sempre essere superato. L’uomo si deifica, dimenticando il suo essere costituzionalmente finito e in questa prospettiva ogni cosa diventa possibile: la morte cambia di senso.

20. Se è vero che la morte è problema e mistero, in questa prospettiva la parte misteriosa della morte è rimossa, cancellata. In vita (se così si può dire) resta soltanto la sua parte “problematica”. Della morte resta soltanto il suo essere “un oggetto collocato nella luce piena dell’evidenza, senza ombre”. E non importa che questo oggetto problematico non lo si possa immediatamente risolvere. Per l’uomo della tecnica è soltanto questione di tempo. Ma qui intervengono altre complicazioni.

21. Come si sa, il punto di partenza per risolvere un problema è fornirgli una corretta prospettiva: è inutile, suggeriva Rodari, chiedere “perché il cassetto ha un tavolo: a questa domanda non c’è risposta”. E nell’epoca della tecnica, la correttezza della domanda impone che il punto di partenza della morte sia in ciò che immediatamente la precede: la malattia, a cui sempre la morte subentra. Da questo punto di vista, la morte cessa di essere qualcosa che esiste di per sé, che è connaturata al nostro essere mortali, ma diventa soltanto una variabile della malattia: il pensiero “si muore perché ci si ammala” diventa vincente rispetto al pensiero “ci si ammala perché si è mortali”. Ed essendo la morte una variabile della malattia, la lotta è aperta: di fronte a essa, come di fronte a qualsiasi malattia, non ci si può arrendere: la tecnica che domina gli eventi non arretra di fronte alla malattia, ma guarisce, trapianta. Clona.

22. Nell’epoca della tecnica, espunta dalla finitezza ed elusa come mistero, la morte in quanto tale è integralmente rimossa: su di essa cala definitivamente il silenzio. Esattamente come la malattia, la morte diventa un fatto privato, tutto giocato tra il singolo e i medici. E la privatezza fa scomparire anche tutti i segni sociali della morte. Non c’è più condivisione, se non nei rapporti più intimi. La compassione, ovvero, etimologicamente, la con-passione, la condivisione delle sofferenze altrui, quella che un tempo si chiamava “píetas”, svanisce. E la morte diventa veramente “s-pietata”. Ma non cancellata. Anzi, verrebbe da affermare che mai come nella civiltà della tecnica la morte è presente. Ancora una volta, la sua rivincita è insita nella sua rimozione. Basta guardarci intorno per capirlo. 

23. Nell’epoca dell’audience, la morte viene esibita all’ora di cena dai telegiornali, tra la pubblicità di un clinex e quella di una pizza pronta. Viene diffusa dopo cena da film e telefilm “pulp”, propinati in prima serata senza alcuna remora. È stato calcolato che, grazie alla televisione, un bambino americano assiste in media a 8.000 omicidi prima di aver terminato le elementari. Diventata artificiale e lontana, la morte può essere esibita nella sua evidenza e nella sua pienezza di dettaglio pornografico. Quando è vera, viene invece nascosta nelle stanze degli ospedali: soccombervi è sempre una sconfitta. Invaso e nello stesso tempo privato della morte, l’uomo contemporaneo paga il debito alla propria volontà di potenza camminando sotto il fardello di una presenza fantasmatica e assillante, di un’angoscia non saputa che, proprio per questo, non può governare e che rispunta sempre rinnovata sotto infinite forme.

24. Siamo così arrivati all’ultima strada che cerca di portare l’uomo lontano dall’angoscia di morte. È la strada percorsa da quell’uomo che non vuole dimenticare il proprio stato di finitezza e che, contemporaneamente, non vuole cedere a un delirio di onnipotenza. Per percorrere questa via, il punto di partenza non può essere che ripensare al senso di ciò che si vuol fuggire. Ripensare al senso dell’angoscia di morte.

25. L’abbiamo visto nelle parole di Winnicott e ce lo dice anche Jankelevitch: l’angoscia della morte è l’angoscia per qualcosa di irrappresentabile. Per qualcosa di traumatico che ci ha già fatto (simbolicamente) “morire”, ci dice il primo. E il secondo puntualizza per “un’esperienza che (realmente) non è mai stata fatta e che si fa sempre per la prima e ultima volta (…) Qui non si tratta di una trasformazione – aggiunge Jankelevitch – perché la trasformazione è il passaggio da una forma all’altra, come dice la parola stessa tras-formazione, mentre la morte è il passaggio all’assenza di forma. Perciò questa idea è irrappresentabile: non esprime un rapporto empirico. È l’accesso a qualcosa di totalmente differente, o al niente del tutto, al nulla.”

26. Come si vede, anche Jankelevitch pone l’accento, come Paolo di Tarso, sulla trasformazione. Ma se là era invocata come realtà futura, qui – nella mancanza di esperienza e nella mancanza di fede – è negata.

27. Presente come luogo del segreto totale, ovvero come luogo totalmente separato da noi (la parola “segreto” deriva per l’appunto dal verbo latino “secernere”, separare); presente come luogo irraggiungibile dalla conoscenza e quindi destinato a restare privo di senso, la morte in quanto tale, a questo punto, smette di essere indagata. Essendo la morte, come scrive Galimberti “l’implosione di ogni senso”, se vogliamo parlare sulla morte l’attenzione deve spostarsi su ciò che la circonda: sull’analisi delle emozioni che la morte suscita, sull’analisi dell’immaginario in cui è racchiusa. E soprattutto sui sensi che queste emozioni e questo immaginario assumono all’interno della relazione.

28. Mettendo infatti a frutto la lezione di Winnicott, diciamo che il modo di pensare la morte ha le proprie profonde radici nel modo in cui viviamo le relazioni con chi ci circonda. Le relazioni con chi ci ha preceduto, innanzitutto, e poi con chi ci sopravviverà: perché tutti, almeno simbolicamente, siamo stati prima figli e poi genitori. E il punto di partenza è proprio ciò che ci dice Winnicott. Un punto di partenza straordinario.

29. L’angoscia di morte, ci fa notare Winnicott, l’abbiamo già vissuta: “il crollo che si continua a temere e che ci distrugge la vita è già avvenuto. (…) La base di tutto l’apprendimento (come del mangiare) è il vuoto. Ma se il vuoto non viene sperimentato così come fu all’inizio, si converte in uno stato di terrore”. “Sperimentare il vuoto” per evitare che si tramuti in uno stato di terrore che ci domina, in un fantasma vuoto che ci impedisce di fare alcunché. Ovvero sperimentare ciò che è più vicino alla morte: sperimentare il lutto. Il lutto inteso proprio come il periodo impiegato a riempire il vuoto che la morte ha lasciato dentro di noi. E questo, tenendo conto che si tratta, come si diceva, di una esperienza primaria, ma poi anche di una esperienza che continuamente si ripete nella nostra vita. E qui non sto parlando soltanto della morte delle persone care, ma anche del lutto per qualcuno o qualcosa che ci abbandona, sia esso persona, speranza, progetto, amico che sceglie una strada diversa dalla nostra.

30. Sperimentare a fondo il lutto, abbiamo detto: elaborarlo, ovvero riempire il vuoto con la consapevolezza delle emozioni sottese alla relazione con chi non c’è più. Riempire il vuoto in modo che questo riempimento non sia subìto ma sia saputo. Il campo, anche in questo caso, è immenso e ci si dovrà quindi, anche qui, accontentare di piccole “pillole”. Per farlo, mi vorrei concentrare su due aspetti.

31. Elaborare a fondo il lutto significa, per esempio, poter ascoltare quelle corde che risuonano non soltanto del dolore, ma anche dell’odio per chi ci ha lasciato. Sembra strano parlare di odio nei confronti di chi non ha potuto far altro che morire. Una stranezza che, tuttavia, si attenua se pensiamo che l’essenza del nostro vivere sta proprio nella relazione con l’altro. Ora, se la morte è un abbandono da parte dell’altro, questo abbandono è, in realtà, ciò che mette a repentaglio il nostro stesso esistere. Un mettere a repentaglio radicale – l’abbiamo visto – se la relazione interrotta è quella tra madre e bambino. Un mettere a repentaglio più debole, se il rapporto è più lontano dai nodi cruciali dell’esistenza. È comunque proprio qui, in questo attentato alla nostra vita, che stanno le origini del risentimento: un risentimento che sarà tanto più grande e terribile, quanto più chi ci ha abbandonato era indispensabile al nostro vivere. Un odio che sarà inevitabilmente tanto più feroce, quanto chi ci ha abbandonato era fondamentale a farci sentire vivi. Diventare consapevoli di questo risentimento, accettarlo e soprattutto accettarci senza scandalo come soggetti capaci di odiare chi ci ha lasciato, significa accettarci come soggetti deboli, piccoli, bisognosi di aiuto. Come soggetti finiti. Ed è proprio questo accoglierci come finiti ciò che può riscattare la colpa per quest’odio. È proprio l’essere emotivamente consapevoli della nostra finitezza, ciò che può consentirci di odiare senza colpa. “Io avevo bisogno di te ma tu mi hai abbandonato e io ti odio per questo abbandono che mi toglie la vita, perché non so cosa fare, perché, se non mi rispecchio in te, non so come vivere”. E non c’è colpa nel “non sapere come vivere”. Tutt’al più, per l’appunto, può esserci soltanto risentimento verso chi mi ha tolto questo sapere.

32. L’essere emotivamente consapevoli della nostra finitezza è dunque la porta che ci immette in quei territori in cui è consentito provare un odio esente da colpa. Un odio che, se non fosse prima saputo e poi anche saputo come innocente, potrebbe andare inevitabilmente a incistarsi in un fantasma distruttivo, che agisce alle nostre spalle senza pietà. Ma questi territori non sono soltanto i territori dell’odio incolpevole. Qui, infatti, abita anche un altro importante sentimento: il perdono.

33. Dopo il dolore straziante e l’odio furente, sperimentare a fondo il lutto significa infatti poter far risuonare anche le corde del perdono, anche la voce che perdona chi ci ha abbandonato. Dove il perdono significa accettazione e quindi accoglimento radicale dell’altro e di ciò che l’altro ci ha fatto. Un accoglimento che diventa vivo “nonostante tutto”, nonostante la nostra morte procurata dal suo abbandono. Ed è sempre l’essere emotivamente consapevoli della nostra finitezza ciò che ci consente di ascoltare questa voce. “So che mi hai abbandonato: ho provato dolore e ti ho odiato per questo, ma so anche che non è colpa tua. So che il tuo abbandonarmi pertiene alla tua e alla mia stessa essenza di uomo finito”. In questa prospettiva la colpa è definitivamente espunta, in quanto è tolta non soltanto dal mio odio ma anche dalla morte dell’altro. Una prospettiva che, come al solito, illumina anche altri scorci. Perché accogliere la memoria dell’altro nella sua completezza e innocenza, significa accogliere anche quegli aspetti dell’altro che ci hanno fatto innanzitutto sentire vivi: significa accogliere innanzitutto l’esperienza della possibilità stessa del bene. “Adesso non ci sei più. Ma tu mi hai fatto sentire vivo. Ed è grazie a questo fatto che io ora so della possibilità di questa esperienza: so che è possibile la vita intesa come dono, come gratuità”. È questa, credo, la via per realizzare un congedo non fittizio, che evita tanto l’idealizzazione di chi ci ha lasciato, quanto il suo trasformarsi in fantasma castrante. È questa la via che consente di accogliere la nostalgia per chi abbiamo perso e che, contemporaneamente, libera il posto, apre un territorio in cui abitano nuove relazioni: uno spazio in cui il legame perduto viene non dimenticato ma trasformato in una produttiva possibilità di nuovi rapporti, diventando così un accogliente sfondo originario, ovvero la testimonianza che è sempre possibile avere “buone relazioni”, anche se, essendo umani, si corre il rischio di perderle.

34. Ancora una volta, si potrebbe dire che è Giobbe ad indicare la strada. Ed è una strada che dal “vuoto” del dolore e della morte approda al “pieno” della relazione, sconfiggendo la paura. Comprendere tutto ciò e riportarne il senso all’interno di ogni rapporto è la cosa che ci consente di “vivere la nostra morte”, di recuperare il senso di ciò che ci segna, di ciò che ci accade. È ciò che ci consente di allontanare da noi l’angoscia. E che ci lascia liberi di compiere l’ultimo passo, che guarda non più a chi ci ha lasciato, ma a chi lasciamo.

35. Al proposito, scrive Natoli: “La morte oggi esige l’intensità, non la folla. Ogni uomo che muore ha, in generale, molte cose da farsi perdonare, ma morirà bene chi ha un’eredità da lasciare, costituita non tanto dalle sue cose, quanto da se stesso. Per questo egli muore di meno, perché vi è qualcuno che lo raccoglie in sé (…) incarnandone il valore, perfezionandone l’opera come se quella vita non fosse davvero finita”. Una eredità, viene da chiosare, che sarà tanto più ricca e intensa quanto più ricche e intense saranno state le nostre relazioni durante la nostra vita: il sentirci vivi, l’allontanare da noi l’angoscia della morte, non soltanto ci fa vivere, ma soprattutto “fa vivere”.

36. Siamo così giunti al termine del nostro percorso e come si vede, in ogni caso, l’attenzione è rimasta tutta al di qua della morte, concentrata inevitabilmente sulla vita. Perché è soltanto lì che la morte può ricevere un tenue raggio, un pallido riflesso di senso. O, per meglio dire, perché è soltanto mettendo la vita davanti alla morte che si può attenuare l’angoscia per una domanda senza risposta.

37. Vorrei concludere questo percorso per accenni con tre citazioni, che potrebbero essere considerate un po’ la sintesi di quanto è stato sinora detto.

38. La prima è da Eliot, ed è tratta dai “Quattro Quartetti”. Dice dunque il Poeta: “Ciò che chiamiamo inizio è spesso la fine. E mettere in atto la fine significa mettere in atto un inizio. La fine è da dove cominciamo”.

39. La seconda, che ci dà il senso di ciò che dice Eliot, è ancora da Winnicott ed è una sua bellissima preghiera che sintetizza la via indicata da Natoli: “Signore, possa io essere vivo, quando morirò”.

40. L’ultima, infine, è dedicata a coloro che pensano che il progettarsi vivi mentre si muore sia una specie di menzogna edulcorativa. A chi lo pensasse non potrei che ricordare Picasso, quando affermava che “l’arte è quella menzogna che ci fa comprendere la verità”.      

 

Bibliografia minima:

  • J. LONDON, Martin Eden, Garzanti
  • EPICURO, Opere, Einaudi
  • L. WITTGESTEIN, Trattato logico filosofico, Einaudi
  • J. JANKELEVITCH, Pensare la morte?, Raffaello Cortina Editore
  • E. DE MARTINO, Morte e pianto rituale, Boringhieri
  • La Bibbia, Marietti
  • EURIPIDE, Andromaca, Sansoni
  • D. W. WINNICOTT, Esplorazioni Psicoanalitiche, Raffaello Cortina Editore
  • ESCHILO, Prometeo, Sansoni
  • U. GALIMBERTI, Psiche e techne, Feltrinelli
  • G. RODARI, Favole al telefono, Einaudi
  • S. NATOLI, Dizionario dei vizi e delle virtù, Feltrinelli
  • T. ELIOT, Quattro Quartetti, Garzanti

 

 

Inserito il:03/04/2024 18:05:21
Ultimo aggiornamento:03/04/2024 20:37:53
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