Aggiornato al 27/04/2024

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Voltaire

Battle of Plassey on 23rd June 1757 in the Anglo-French Wars in India

                                  

Le civiltà d'Oriente - Storia dell'India - 12

(seguito)

di Mauro Lanzi

 

 L’alba del potere inglese

Per tutto il XVII secolo gli inglesi, o meglio la John Company, che rappresentava i loro interessi in India, rimasero fermi su di una politica di presenza puramente commerciale nel subcontinente, presenza ancorata ad alcune roccaforti, come Madras e Bombay. Sotto la guida dei fratelli Child, la compagnia trasferì la sua base a Bombay sull’isola prospiciente la terraferma, considerata molto più sicura; inoltre nel 1690, i Child ottennero dall’imperatore Alamjir di poter stabilire una base commerciale in Bengala, per poter estendere i loro traffici anche in quella regione. Fu individuato un piccolo villaggio, sito su un affluente del Gange, dove sorgeva un tempio dedicato alla dea Kalì, che discendeva verso il fiume con una serie di scalini; gradino si diceva ghat in indiano, per cui da kali-ghat deriverebbe il nome della futura capitale del potere britannico in India, Calcutta. La costruzione della nuova città procedette molto rapidamente, già nel 1700 contava con 1000 abitanti; a copertura della città, la Compagnia costruì una fortezza nelle vicinanze, Fort William. Malgrado l’incremento delle attività, gli inglesi non avevano ancora trovato o non avevano cercato la via di un controllo politico del paese; chi insegnò loro la chiave per questo obiettivo furono i loro eterni antagonisti, i francesi.

La Compagnia Francese delle Indie Orientali si era costituita nel 1664 su impulso di Colbert ed aveva stabilito la sua base sulla costa occidentale, a Pondichery, 140 km a sud di Madras. Ben presto i francesi si posero come validi antagonisti degli inglesi in campo commerciale, grazie anche al controllo ottenuto sulle isole Mauritius che consentiva alla flotta francese di intervenire rapidamente sulla costa indiana in fase sia difensiva che offensiva. La storia della presenza francese in India subì una svolta radicale con l’arrivo a Pondichery di Joseph Francois Dupleix, un politico di rara intelligenza e sagacia, figlio del direttore della compagnia. Approfittando della guerra di successione austriaca, che in Europa contrapponeva Francia ed Inghilterra, Dupleix nel 1742 strappò agli inglesi Madras; questo fatto pose i francesi in rotta di collisione con il nawab del Karnatka che esigeva la restituzione di Madras ed aveva inviato verso la costa un esercito di cinquantamila uomini. L’armata del nawab fu affrontata e sbaragliata a St Thomé da una piccola forza francese, costituita da 200 europei ed 800 sepoys (truppe locali) molto ben addestrati; la battaglia, di per sé di modesta rilevanza, dimostrò a tutti cosa potevano ottenere le tattiche europee, ranghi serrati, disciplina, fuoco di fila di fucileria, appoggio dell’artiglieria, sulle caotiche orde indiane. Dupleix sarebbe potuto divenire lui stesso nawab, ma era troppo buon conoscitore dell’India e della sua gente per commettere un simile errore; preferì insediare un altro pretendente, tenuto prigioniero, che divenne ovviamente il governante fantoccio dei francesi. Questa prassi, che gli inglesi definiranno “nabobism”, fu applicata in diverse altre circostanze, fino a creare un piccolo “impero”, che i francesi governavano per interposta persona.

Nella conquista di Madras, i francesi avevano fatto prigioniero, tra gli altri, un giovane scrivano della John Company, Robert Clive, che poco prima aveva anche tentato il suicidio, depresso per la sua condizione; gli anni di prigionia in mano francese, non solo lo distolsero dal suo proposito, ma gli dettero modo di studiare le strategie di Dupleix, sia politiche che militari. Quando nel 1749 si concluse la pace in Europa, Madras tornò agli inglesi e Clive, liberato con gli altri prigionieri, tornò alla John Company con il bagaglio di esperienze accumulato. Robert Clive cambierà la storia dell’India; già nel 1751, poco dopo la sua liberazione, si rese protagonista di un’impresa che diverrà presto leggendaria: il nawab del Karnatka si era mosso a capo di un forte esercito per assediare un altro aspirante al trono; Clive mosse allora con una piccola truppa di duecento inglesi e trecento sepoys e, dopo un’estenuate marcia di centocinquanta km, occupò di sorpresa Ascot, capitale del Karnatka lasciata indifesa e quindi, spodestato il nawab francofilo, insediò al suo posto il candidato fedele agli inglesi. Dupleix non fece a tempo a reagire, perché richiamato in patria dagli azionisti scontenti degli ultimi bilanci; amara ingratitudine che segnò di fatto la fine della vicenda francese in India. Clive trasse dal suo successo la fama di grande condottiero, ma il passo decisivo della sua carriera seguì la vicenda del “Black Hole” di Calcutta.

Il “Black Hole” di Calcutta è una delle vicende più note della storia inglese, letta per secoli da intere generazioni di studenti; quello che accadde è quanto segue. Nel 1756 era divenuto nawab  del Bengala un giovane di vent’anni, di nome Siraji, impetuoso ed inesperto; saputo che gli inglesi stavano ampliando le fortificazioni di Fort Williams, l’avamposto che copriva Calcutta, senza il suo permesso, Siraji decise di muovere contro gli inglesi con un esercito di 50000 uomini; ricordiamo che ormai i governatori provinciali agivano indipendentemente da Dehli, un governo centrale non esisteva più.  Gli inglesi furono colti di sorpresa, il forte era difeso da 1000 uomini, ma il governatore di Calcutta, preso dal panico al sopraggiungere dell’esercito indiano, fece evacuare sulle navi quanta più gente possibile; nel forte rimase un pugno di difensori a coprire la ritirata; Siraji scatenò l’attacco il 20 giugno 1756, a mezzogiorno e, quasi subito, il comandante Holwell, che diverrà il anche il cronista della vicenda, alzò bandiera bianca; durante la notte 146 prigionieri britannici, tra cui una donna e 26 ufficiali feriti furono rinchiusi in una angusta prigione, quattro metri per cinque; la mattina dopo, quando fu aperta la porta, solo 26 prigionieri uscirono vivi. Sembra che Siraji non fosse neppure al corrente della decisione di qualche subordinato, ma la narrazione di Holwell fece esplodere l’indignazione nell’opinione pubblica inglese contro i barbari indiani.

Della rappresaglia fu incaricato l’uomo migliore, quello di maggior fama, Robert Clive, che nell’ottobre successivo partì da Madras a capo di un convoglio che trasportava novecento europei e mille cinquecento sepoys; giunto a Calcutta dopo una non facile navigazione, Clive si preoccupò innanzitutto di mettere in sicurezza gli scampati e di riconquistare Fort William; poi, approfittando della guerra scoppiata nuovamente in Europa (Guerra dei sette anni), Clive attaccò una delle ultime postazioni francesi, spazzando così il campo da ogni altro avversario. Infine, dando ancora una volta prova di grandi capacità politiche, strinse alleanza con un pretendente al posto di nawab e con una potente famiglia di banchieri di Dehli, scontenta del comportamento di Siraji. Il 23 giugno 1757 una truppa di soli 800 europei e duemila sepoys , sul campo di battaglia di Plassey, al “Giardino dei Manghi”, distrusse l’esercito del nawab forte di 50.000 uomini, vittoria dovuta in parte alla superiorità militare degli inglesi ma in parte anche al tradimento, per la corruzione finanziata dai banchieri. Clive aveva dato prova non solo di qualità militari, ma anche di astuzia politica, manovrando abilmente tra i tradimenti ed i contrasti interni fra le fazioni indiane; ancora una volta Clive non volle esercitare il potere in prima persona, insediò un nawab fantoccio degli inglesi, assicurando all’Inghilterra una posizione di primato nel Bengala ed a se stesso una fortuna che fece di lui uno dei sudditi più ricchi di Sua Maestà; tornato in Inghilterra investì parte del suo patrimonio nell’acquisto di azioni della Compagnia e di un certo numero di seggi al Parlamento; aveva ben compreso come si gestisce la politica in tutto il mondo.

Gli impiegati della Compagnia si vennero così a trovare in una situazione del tutto particolare, avevano potere, ma non avevano responsabilità, potevano circolare in tutto il Bengala, commerciando alle loro condizioni, senza limiti e senza pagare imposte. Le spoliazioni perpetrate dagli inglesi spinsero infine alla disperazione anche il nawab fantoccio, che, rifugiatosi a Dehli, chiese aiuto al Moghul; si riunì un esercito costituito parte di forze bengalesi, parte di truppe moghul, che fu però facilmente disfatto da una modesta truppa inglese a Buxar, vicino a Benares (22 ottobre 1764); la vittoria di Buxar fu ancora più significativa di quella di Plassey, perché ottenuta non solo su un nawab locale, ma sullo stesso governo centrale. Il potere della “John Company” non aveva più ostacoli

           4.5.3 Gli ultimi fuochi

La virtuale secessione di tutti i poteri regionali aveva ridotto l’impero ad una ristretta fascia di territorio intorno a Dehli, per il controllo della quale si consumarono, malgrado tutto, ancora feroci scontri nei pochi decenni rimasti di relativa indipendenza. La morte di Muhammad Shah (1748) fece esplodere, come sempre, lotte sanguinose tra i pretendenti al trono o piuttosto tra i wasir che sostenevano questi insignificanti personaggi; non bastasse ciò, si riaccese la minaccia afgana. Alla morte di Nadir Shah, il primo saccheggiatore di Dehli, un suo luogotenente Ahmad Shah Abdali si impadronì di Kabul e da lì iniziò lanciare scorrerie verso sud, impadronendosi di Lahore e poi giungendo fino a Dehli senza incontrare resistenza; le uniche forze militari esistenti rimaste erano gli afgani ed i maharatti, che al ritirarsi degli afgani misero sul trono il loro candidato: gli islamici osservanti non accettarono lo scambio ed invitarono Abdali a tornare a Dehli che fu sottoposta ad un tremendo saccheggio. I maharatti allora inviarono un forte esercito, che fu però distrutto dagli afgani nella piana di Panipat; poi gli afgani si ritirarono per la rivolta dei soldati privi di paga (1761) e tutto tornò nell’incertezza.

Nel 1759 si era proclamato imperatore col nome di Shah Alam, un principe Moghul che viveva sotto la protezione di un potente nawab; Shah Alam fu l’ultimo sovrano Moghul indipendente, almeno in teoria; il suo regno, nato in esilio, durò 47 lunghi anni, fino al 1806, ma fu una corona fatta di spine, un potere più simbolico che reale; nel 1772, grazie all’appoggio dei maharatti, cui aveva promesso quattro milioni di rupie, il Moghul riuscì anche a rientrare a Dehli, trovando una capitale devastata dalle ripetute invasioni, gli splendidi palazzi distrutti, persino i dipinti sulle pareti raschiati per recuperare polvere d’oro; gli abitanti, ridotti a 130.000, dai due milioni dei tempi migliori, furono ulteriormente decimati da una tremenda carestia scoppiata nel 1782.  Come se non bastasse, nel 1788 tornarono gli afgani sotto la guida di un predone di nome Ghulam Khadir; l’anziano imperatore venne deposto con l’accusa di tradimento, per l’aiuto ricevuto dai maharatti; deluso poi per lo scarso bottino, Ghulam lo accecò con le sue mani. Il rappresentante inglese della Compagnia riferiva alla casa madre delle tragiche condizioni della famiglia reale, l’imperatore cieco veniva bastonato ogni giorno, le dame dell’harem denudate e seviziate morivano di fame, i principi imprigionati e costretti ai servizi più umilianti.

Ghulam fu costretto a ritirarsi per il ritorno dei maharatti, che posero ancora sul trono Shah Alam, cui la cecità forse risparmiava l’amarezza di rendersi conto del disfacimento che lo circondava; viveva in una tenda, con una pensione pagata dai maharatti, nello sfacelo di quella che era stata la splendida capitale di Shah Jahan.

Ma un nuovo potere bussava alle porte.

 

                              

 

Inserito il:13/07/2021 17:18:44
Ultimo aggiornamento:13/07/2021 17:26:52
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