Aggiornato al 11/10/2024

Non sono d’accordo con quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo

Voltaire

Marta Czok (1947- Beirut/Londra) – Pranzo di Natale - Acquatinta

 

Il Natale degli Epurati

di Tito Giraudo

Al “Pranzo della domenica” di Marialuisa Bordoli, rispondo con il mio “Pranzo di Natale”, tratto dal mio libro di prossima pubblicazione: “Il Nostro Novecento”.

 

Al sabato sera tutta la famiglia andava al cinema, allora nelle periferie c’erano molte sale cinematografiche. In borgo Francia ce n’erano quattro, tre di terza visione e uno talmente scassato, il Manzoni, da non essere nemmeno qualificato.

Allora le proiezioni erano divise in prima visione, con i film più nuovi che venivano proiettati nelle grandi sale del centro. Poi, sempre in centro e in alcuni quartieri più chic, le seconde visioni; infine le terze dove andavamo noi e le famiglie del borgo una volta la settimana. Il cinema era il rito del sabato sera: andavamo tutti, papà, mamma, Edda e io. Ma c’erano altri riti in casa nostra.

Le tre zie zitelle venivano sempre la domenica e quando loro non venivano, andavamo noi a piedi, o con il tram 22 che aveva della carrozze antiche, un misto di legno e lamiera. I ragazzini (io no, perché ero prudente) viaggiavano a cavallo del respingente. Allora il biglietto non si obliterava, semplicemente lo staccava il bigliettaio.

In quei tempi gli operatori ecologici si chiamavano spazzini, gli operatori scolastici bidelli e ai maestri e ai professori si dava del lei. Oggi la sinistra radical chic, non potendo eliminare i lavori meno gratificanti perché necessari, ha pensato di renderli più graditi nobilitandone i nomi. Volete mettere come fossero tristi i bidelli e gli spazzini di una volta, e come invece si pavoneggino per aver salito un gradino nella scala sociale, oggi che sono diventati operatori? Si può dare del tu a un operatore? Certo che no: al massimo i ragazzi di oggi lo danno a un insegnante, così da sentirlo come amico o fratello, magari il fratello scemo.

Un altro rito indimenticabile era il Natale. Le zie anche in questo caso non mancavano, e nemmeno la prozia Magna Margot, sorella della nonna materna morta, come il nonno Vittorio, prima che io nascessi. Magna Margot era separata dal marito che, dopo averla sposata, l’aveva portata in Sud America. Sembra che facesse il bandito, e lei era spesso costretta a lunghe fughe a cavallo, fino a quando non si stufò e tornò in Italia da sola.

Papà era il protagonista assoluto del Natale, in realtà la sua presenza si sentiva sempre, anche quando non c’era. Ma a Natale era lui che organizzava, finanziava, ospitava. Era il dopoguerra e per alcuni anni i buej (le budella) erano rimaste vuote. La guerra ci aveva lasciati se non affamati, desiderosi di pranzi opulenti. In casa Giraudo a Natale si faceva un gran banchetto, almeno per quei tempi.

In realtà il menù lo decideva la mamma che era un’ottima cuoca. Ma il piatto forte, quello per cui il Natale aveva la N maiuscola come quella di Napoleone, erano gli agnolotti di papà.

Agnolotti: mitica parola. Ma qui si parla di agnolotti veri, non di quelli che tutti possono fare al giorno d’oggi. Si diceva che l’agnolotto fosse un piatto povero, composto da sfoglia con un ripieno di carne avanzata. Balle! Nessun povero avrebbe mai avanzato due tipi di carne arrosto! Quindi è assodato che gli agnolotti fossero un piatto borghese.

Sia pure epurati, anche noi eravamo borghesi, almeno da parte di mamma; il papà lo diventò poi. Quindi a Natale gli agnolotti erano il nostro piatto forte, la nostra goduria. Papà li preparava con largo anticipo, non era per la cucina veloce: se all’epoca il buon Carlin Petrini avesse già inventato l’associazione internazionale non profit denominata Slow Food (nata nel 1986 e che oggi coinvolge 40.000 persone in Italia e più di 80.000 nel mondo), mio padre ne sarebbe stato uno dei più fervidi fautori.

Come s’è visto negli agnolotti ci volevano due tipi di arrosto, quello di vitello e quello di maiale, che mio padre cuoceva due giorni prima; poi bolliva anche un salame, quelli con le cotiche non troppo dure. Sempre due giorni prima preparava il sancràu (cavoli stufati, crauti, dal ted. sauerkraut, cavoli acidi), senza naturalmente mettere l’aceto. Passate ventiquattro ore, prendeva la macchina tritacarne e con questa macinava tutto quel ben di Dio, che veniva poi messo a riposare nella nostra ghiacciaia naturale, la sala da pranzo.

L’ultimo inverno di guerra vide infatti temperature polari, che misero fuori combattimento caldaia e radiatori. L’unica stanza riscaldata era ovviamente la cucina, tranne a Natale. Il ripieno degli agnolotti preparava così l’ambiente con effluvi che aumentavano il nostro appetito, sempre ce ne fosse stato bisogno.

Il ripieno veniva distribuito a mucchietti sulla sfoglia. Dire mucchietti è un eufemismo. Papà, esagerato in tutto, faceva agnolotti larghi almeno dieci centimetri, a volte anche quindici. Oggi in certi sofisticati ristoranti uno solo sarebbe sufficiente. Noi ne mangiavamo un piatto pieno, poi facevamo il bis, mentre il tris lo si faceva il giorno di Santo Stefano.

Non si iniziava però con gli agnolotti, in quanto il menù comprendeva antipasti, primo, secondo, poi frutta fresca e secca, dolce, panettone e caffè.

Negli antipasti circolavano prosciutto cotto, prosciutto crudo, salame crudo, funghi sott’olio, sott’aceti vari e poi il piatto forte di mamma: l’insalata russa. Non quelle poltiglie anemiche che si trovano in gastronomia oggi, ma una ricca raccolta di tante verdure bollite (attenzione ci vuole anche il finocchio!), a cui si aggiungeva insalata belga tagliata fine, qualche cappero e dulcis in fundo, tonno sott’olio e arrosto tritati e amalgamati. Il tutto ricoperto con maionese fatta a mano, sulla quale venivano poste come guarnizione carote tagliate a rondelle, cetriolini a spicchi, piselli, così da formare fiori o composizioni astratte. La mamma era un’artista.

Sul primo ci si poteva scommettere a occhi chiusi: gli agnolotti secondo il gerarca. Il secondo, per contro, variava secondo la fantasia della mamma e, in seguito, anche di mia sorella. In generale era un grande arrosto con verdure cotte per contorno. Poi frutta fresca: arance e mandarini; frutta secca: noci, nocciole, mandorle e bagigi (arachidi); quindi l’immancabile dolce di zia Toia, panettone, caffè e un angolo per riposare le stanche mandibole.

A Natale aspettavo Gesù Bambino, perché a quel tempo Babbo Natale non era ancora di moda. La mamma ed io facevamo il giro dei negozi di giocattoli un mese prima. Con il naso incollato alla vetrina sceglievo quello che mi piaceva, compatibilmente con il fatto che il nostro Gesù era quello della mangiatoia, non quello del Vaticano. Un Gesù bambino con San Giuseppe epurato.

Inserito il:15/10/2016 17:21:40
Ultimo aggiornamento:15/10/2016 17:30:10
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