Michael Stasinos (Canoga Park, Ca - Seattle) - Sketch for the PLU Anthropology Dept on Anasazi Indians
L’uso dell’arte in antropologia visiva
di Paola Tinè
Il presente lavoro è una versione tradotta dell’articolo “Art as a Research Method: on the Expression of Anthropological Insights”, pubblicato sulla rivista O Ideàrio Patrimonial, December 2017, vol.9. L’articolo originale può essere consultato al seguente link: http://www.cph.ipt.pt/download/OIPDownload/n9_dezembro_2017/OIP_9_DEZ_150-160.pdf
Introduzione
Negli ultimi trent'anni è stato raggiunto un consenso generale sull'importanza dell'uso dei media visivi nella ricerca antropologica. Nel 2001, la American Anthropological Association affermava che “i media visivi sono appropriati per la produzione e la diffusione delle conoscenze antropologiche” perché possono "trasmettere forme distinte di conoscenza che la scrittura non può trasmettere" e forniscono un mezzo per sperimentare e comprendere "la ricchezza e profondità della complessità etnografica" (in COX & WRIGHT, 2012). Tuttavia, laddove esiste un accordo generale sull'utilizzo dei metodi di ricerca visiva sul campo, l'uso dell'arte per l'espressione delle intuizioni antropologiche è una questione più problematica.
L'approccio positivistico che ha segnato l'inizio dell'antropologia è stato abbandonato nel corso del secolo scorso, dando spazio a un approccio più interpretativo. La preoccupazione attuale di molti antropologi è rimasta però quella di trovare un modo per esprimere quei sentimenti inspiegabili che formano l'esperienza dell'essere nel mondo.
L’utilizzo di arti visive come metodo di accesso a questi temi sembra essere diventato una nuova moda, che non si è ancora integrata con le ricerche accademiche tradizionali. Inoltre, anche se gli etnografi contemporanei usano comunemente metodi visivi come la fotografia, la ripresa video e i ritratti degli intervistati per l'acquisizione di dati, non c’è ancora generale accordo su come produrre opere d’arte che seguano temporalmente la ricerca sul campo e che quindi siano risultato della ricerca e dell’analisi del materiale.
Senza rinunciare a questi metodi, nel presente articolo propongo un uso dell’arte come risultato proprio della fase analitica della ricerca da sostituirsi o aggiungersi all’acquisizione di dati visivi durante la ricerca di campo.
Un discorso a parte merita lo strumento fotografico, poiché le immagini vengono acquisite sul campo e la loro capacità di mostrare le intuizioni e idee dell’antropologo-autore rimane legata all'ora e al luogo della loro creazione, con il risultato di immagini già mediate dalla percezione del ricercatore. In maniera diversa, la produzione documentaria fornisce un buon esempio di metodi visivi che siano il risultato di un processo di analisi del materiale. Il documentario, infatti, non costituisce una semplice raccolta e presentazione di materiale video, ma piuttosto una costruzione visiva appositamente formata dall'autore con lo scopo di trasmettere contenuti antropologici mediati da determinate intuizioni.
In questo articolo, dopo aver distinto tra pratiche artistiche aventi luogo durante e dopo la ricerca di campo, suggerisco l'importanza della produzione artistica post-ricerca sul campo per l'analisi antropologica e l'espressione di idee derivate dalla ricerca. In particolare, sostengo qui il ruolo della pittura a fianco di altre pratiche visive.
Le due domande centrali in tale discussione saranno: cosa può l'arte esprimere meglio del linguaggio e, di conseguenza, che cosa può guadagnare la ricerca sociale dall'uso dell'arte? Tenterò di descrivere quindi il ruolo dell'arte nella ricerca antropologica come un’opera di interpretazione, rappresentazione e espressione.
Il dibattito sull'approccio visivo nella ricerca sociale
La definizione di antropologia visiva adottata in questo articolo è quella di studio dei contesti sociali e culturali attraverso l'utilizzo di metodi visivi di raccolta dei dati durante la ricerca (fotografia, video, ritratti) e / o la rappresentazione visiva di intuizioni alla fine della ricerca. L'antropologia visiva sostiene l'importanza di una integrazione di metodi di ricerca qualitativi classici, come l'osservazione partecipante, le conversazioni informali, le interviste e i questionari, con metodi di ricerca visivi. Questo approccio è spesso usato in combinazione con un’altra direzione di ricerca dell'antropologia visiva, mirata allo studio dei contenuti visivi di una società, come la struttura urbana, l’arte e i manufatti al fine di comprenderne gli aspetti sociali immateriali.
L'uso di metodi visivi risale all'inizio dell'antropologia, quando le immagini erano considerate come prova di verifica scientifica e imparzialità. Nel 1898, per la spedizione allo stretto di Torres, la quale segnò l'inizio dell'antropologia moderna, Alfred Haddon usava per la prima volta le tecniche video per registrare eventi e rituali. Il mito originale della verità fotografica fu successivamente abbandonato a favore di una crescente consapevolezza della soggettività e della imprescindibile manipolazione dell’autore alla base della produzione di ogni immagine.
Come afferma Harper (1998:32), "il significato di una fotografia è costruito dal creatore e dall'osservatore, entrambi portano le loro posizioni sociali e gli interessi all'arte fotografica". Di conseguenza, l'uso della fotografia in gran parte delle monografie etnografiche è stato abbandonato dagli anni Trenta, per riemergere sotto nuove premesse negli anni Sessanta.
Nel 1942, gli antropologi Margaret Mead e Gregory Bateson proponevano un nuovo uso della fotografia, per documentare aspetti della cultura materiale dei balinesi. Il loro approccio si basava sull'assunto che le parole non sarebbero sufficienti per "rivelare e comunicare la cultura balinese" (PROSSER & LOXLEY, 2008). Gli antropologi contemporanei seguono ancora l'eredità di Mead e Bateson, integrando oggi le immagini di campo come dati all'interno dei loro testi, ma "ciò che rimane irrisolto è se il visuale possa ottenere un ruolo più produttivo nell'antropologia come mezzo di indagine e di discorso" (MACDOUGALL, 1997).
Il dibattito sull'antropologia visiva è stato storicamente legato al dibattito sulla disciplina antropologica come scienza (CARRITHERS, 1990; SPENCER, 1989). Tale idea di antropologia come scienza è stata abbandonata negli ultimi cinquant'anni, come risultato di un dibattito che afferma la "parzialità della visione" e l'impossibilità per il ricercatore di adottare un approccio e un modo di vedere che sia completamente obiettivo e non mediato dalla personale esperienza e formazione culturale. Di conseguenza, la soggettività del ricercatore è stata accettata e persino glorificata, culminando nella proposta di testi antropologici più narrativi che esaltino la personalità dell'autore (GEERTZ, 1988, SPENCER, 1989).
La discussione sull'essenza e la validità delle teorie antropologiche ha portato ad una "problematizzazione dei diversi modi possibili di comunicare le scoperte etnografiche e le intuizioni" (RUTTEN et al., 2013). Ciò ha spinto alcuni studiosi a iniziare a sviluppare una critica sulla "cultura della scrittura" (CLIFFORD & MARCUS, 1986; MARCUS & FISHER, 1999), al fine di sostenere l'emergere di nuove sperimentazioni artistiche nella ricerca antropologica.
Allo stesso modo, Tim Ingold ha criticato il metodo classico di "conoscenza" e l'idea che una "verità" possa essere trovata "sullo scaffale della biblioteca, sotto il peso di libri e periodici scolastici, piuttosto che" là fuori "nel mondo dell’ esperienza vissuta "(INGOLD, 2011). Il valore aggiunto di una rappresentazione visiva a fianco dell'analisi testuale tradizionale di studi scientifici, infatti, può essere la capacità di trasmettere idee ed emozioni accanto alle più sterili nozioni. In tal senso, secondo MacDougall (1997), gli antropologi dovrebbero iniziare a "ripensare alcune categorie di conoscenza antropologiche alla luce di intuizioni che possono essere accessibili solo con mezzi non verbali".
In accordo con questa affermazione, Paul Sweetman (2009) sostiene che "i metodi visivi di ricerca possono essere particolarmente utili per indagare aree che difficilmente possono essere verbalizzate o articolate" (p. 491). Secondo lui, questo includerebbe il concetto di habitus di Bourdieu, quel modo di essere nel mondo che trovandosi oltre la comprensione della coscienza “non può essere volontariamente e deliberatamente trasformato, e come tale non può nemmeno essere esplicitato" (BOURDIEU, 1977: 94).
A proposito di cosa possa essere meglio espresso attraverso la rappresentazione visiva rispetto che con il semplice linguaggio, alcuni hanno dato vari suggerimenti e esempi pratici di lavoro, incentrati per esempio sullo studio della religione e della spiritualità (MORGAN, 2005; DUNLOP & DADROWSKA, 2015; WILLIAMS, 2015) sulla lotta politica (PINNEY, 2004) e così via. Un dibattito piuttosto cospicuo è stato orientato verso la concezione dell'antropologia visiva come pratica che impegna i sensi (PINK, 2009; COX et al., 2016). Nel 1982, come elaborazione di questo concetto, negli Stati Uniti è nata un'intera scuola antropologica nota come il Sensory Ethnographic Lab.
Anche se è stato raggiunto un consenso generale tra gli studiosi sull'utilizzo di metodi d'arte visiva nella ricerca sociale, in tale dibattito manca ancora una definizione su alcuni elementi metodologici fondamentali, tra cui il modo in cui questi metodi visivi dovrebbero essere utilizzati per essere riconosciuti come validi dalla disciplina antropologica.
È interessante in tal senso citare alcune delle critiche emerse nel dibattito sull'antropologia visiva. Il primo studioso che abbia sottolineato il pericolo scientifico dello sfocarsi dei confini tra arte ed etnografia è stato Hal Foster (1995). In tempi più recenti, Fadwa El Guindi (2011) ha criticato il libro del 2007 pubblicato da Sarah Pink per il fatto che di non mostrare “la consapevolezza o la conoscenza del potenziale dell'antropologia visiva in modo teorico, metodologico ed etnografico".
Inoltre, El Guindi scrive che "le immagini usate come riempitori di pagine, senza scopo di ricerca, diminuiscono il valore dell'antropologia visiva". Il timore di tali critici è che i metodi visivi diventino una moda che nulla aggiunge alla ricerca. In questo dibattito sulla validità dell'arte utilizzata per scopi di ricerca, il mio suggerimento è che qualsiasi opera d'arte che abbia l'ambizione di essere considerata come parte di una ricerca antropologicamente valida dovrebbe almeno avere una ricerca antropologica sul campo come punto di partenza. Il "mondo dell'esperienza vissuta" (INGOLD, 2011) potrebbe quindi diventare parte del lavoro antropologico, il quale non dovrebbe rinunciare alla ricerca classica sul campo, così come ai metodi di analisi e scrittura tradizionali.
Metodi visivi e ricerca sul campo
La prima osservazione che voglio fare qui sulle pratiche antropologiche visive è legata al contesto della loro produzione. E’ necessario distinguere tra le produzioni visive effettuate durante e dopo la ricerca sul campo.
I metodi visivi sul campo includono l'uso del disegno nei diari (HENDRICKSON, 2008; TAUSSIG, 2011), il ritratto degli intervistati (BRAY, 2015), la foto elicitazione (COLLIER & COLLIER, 1986), nonché la delegazione della fotocamera agli informatori, al fine di ottenere una rappresentazione del punto di vista dell'informatore (BAI, 2007, GINZBURG, 1995). Inoltre, la maggior parte degli antropologi fa uso generale di una fotocamera per scattare foto e video e per raccogliere dati per analisi successive.
Tuttavia, come ogni antropologo sa, il momento cruciale della ricerca si verifica dopo il lavoro sul campo, quando è il momento di produrre idee, conclusioni e interpretazioni a partire dai dati acquisiti. Questa è una fase molto importante della ricerca antropologica e altrettanto fondamentale quanto il lavoro sul campo stesso. Come alcuni studiosi hanno osservato, se l'acquisizione di dati visivi è relativamente facile, i problemi iniziano quando i dati devono essere organizzati per diventare comunicativi (MAC DOUGALL 1997; BANKS 2008).
L'uso di metodi visivi nella fase successiva alla ricerca sul campo è generalmente costituito dalla produzione di video documentari, foto report, installazioni o altre produzioni artistiche visive. In tutte queste pratiche è necessario che l'autore aggiunga qualcosa che garantisca l’espressione del suo punto di vista, ovvero la creatività, la sensibilità e le intuizioni. In tal modo, l’antropologo-autore dovrà aggiungere un'interpretazione del materiale acquisito e produrre così una rappresentazione delle relative intuizioni.
La differenza di fondo tra la produzione durante e dopo il lavoro sul campo può essere individuata nello spazio e nel tempo della loro creazione, determinando così una separazione spazio-temporale dall'oggetto e dal contesto studiato.
La produzione di materiale visivo dopo la ricerca costituisce invece la rappresentazione delle emozioni e dei sentimenti del ricercatore e di ciò che il ricercatore ha capito rispetto al soggetto osservato.
Il lavoro di produzione visiva post-campo ha il grande potenziale di arricchire tutti quegli altri metodi visivi usati comunemente sul campo negli ultimi anni. Con l'eccezione della ritrattistica degli intervistati, noto una relativa assenza dell'uso della pittura come pratica visiva nel contesto della produzione antropologica post-campo. Per spiegare cosa i contributi artistici possano aggiungere al classico testo scritto, svilupperò quindi di seguito il concetto di arte come comunicazione.
Arte come comunicazione e metodo di ricerca
Nel dibattito duraturo e irresolubile dell'arte e della sua definizione, è stato almeno raggiunto un accordo tra artisti, studiosi e teorici d'arte, riguardante la funzione dell'arte come mezzo di comunicazione. Ne ‘La preistoria della mente: l'origine cognitiva dell'arte, della religione e della scienza’, l'archeologo Steven Mithen (1999) definisce l'arte come un insieme di "artefatti o immagini con significati simbolici come mezzo di comunicazione". Attraverso il suo potere comunicativo, l'arte ha storicamente potuto operare come intrattenimento o divertimento estetico, come trasportatore di emozioni, come un'avanguardia per la lotta e il cambiamento politico o per la decostruzione di schemi e imposizioni socio-culturali.
L'accordo generale sul ruolo comunicativo dell'arte si basa sull'assunto che l'arte sia in grado di andare oltre l'espressione verbale, descrivendo i più intimi sentimenti degli stessi artisti e altri concetti astratti. Questa è stata la prospettiva filosofica dell'arte che Immanuel Kant (1790) ha mostrato nella sua Critica del Giudizio, secondo cui l'arte corrisponderebbe all'idea "estetica":
In una parola, un'idea estetica è una presentazione dell'immaginazione, che è congiunta a un determinato concetto e che è connessa, quando usiamo l'immaginazione nella sua libertà, con una tale molteplicità di presentazioni parziali che nessuna espressione che rappresenta un determinato concetto può trovarsi per essa (KANT, 1790: 185).
L'arte considerata come una forma di comunicazione coinvolge la rappresentazione e l'interpretazione espressa attraverso una forma. L'equilibrio tra osservazione, interpretazione ed espressione prende la forma di un lavoro artistico, che può essere astratto o figurativo, più o meno realistico. I metodi visivi possono servire a esprimere tutti quegli stati della mente che sono stati definiti in filosofia come 'qualia'.
Il filosofo e psicologo cognitivo Daniel Dennett ha definito il qualia come quella esperienza del mondo che è privata e inesplicabile (2004). Qualsiasi opera antropologica artistica dovrebbe costituire una visione visiva di ciò che l'autore ha capito e sentito, portando così il destinatario a partecipare all'esperienza degli stessi ‘attori sociali’.
Un elemento importante legato alla produzione artistica è che, come qualsiasi testo, anche essa sia aperta all'interpretazione. Come osservato da Ricoueur (1973), essendo "virtuale e fuori dal tempo", i testi non consentono una comunicazione diretta tra il mittente e il destinatario. Di conseguenza, sono aperti all'interpretazione del pubblico. Ricoeur estende questa definizione di interpretazione inter-testuale all'ampio campo della ricerca sociale, costituita da testi scritti.
Suggerisco qui che questo concetto possa essere ulteriormente esteso a qualsiasi arte che sia intesa come metodologia di ricerca nella disciplina antropologica. Tali prodotti artistici dovrebbero infatti essere riconosciuti come un prodotto aperto all'interpretazione e non come un prodotto che trasmetta verità alcuna. Heinrich Bluecher offre una definizione più articolata dell'arte, ossia come partecipazione piuttosto che comunicazione.
In un articolo sulla pittura come metodo di ricerca, Graeme Sullivan (2012) parla dell'arte come forma di comprensione piuttosto che spiegazione. La ragione di questo, secondo Sullivan, è il potere dell'arte di "rivelare nuove intuizioni e comprensioni" (Sullivan, 2012: 3). Inoltre, "se l'intento della ricerca è considerato il creare nuove conoscenze [...] la pratica d'arte raggiunge questo obiettivo in modo peculiare" (SULLIVAN, 2012: 4). La possibilità propria dell’arte di coinvolgere il recipiente nel mondo dei sentimenti e delle percezioni del ricercatore-autore e delle persone osservate è il potere dell’arte quale metodo di ricerca.
Conclusioni
L’uso dell’arte all’interno di lavori e testi antropologici o come produzione a sé, può costituire un importante strumento di rappresentazione del ricercatore e delle persone soggetto della ricerca, nonché come mediazione tra le due prospettive.
Per essere accademicamente e antropologicamente valida, tuttavia, il lavoro artistico deve essere il risultato di una ricerca sul campo condotta attraverso metodi qualitativi di ricerca tradizionali.
Sebbene possa essere utile in diversi casi, l’ inclusione di immagini acquisite durante la ricerca di campo all’interno di monografie etnografiche non è l’unico modo di completare le parole con il visivo. Infatti, è l’analisi antropologica dei dati e la produzione di idee, intuizioni e teorie a costituire il vero cuore dell’antropologia. Di conseguenza, un lavoro visivo che segua lo stesso percorso metodologico può essere una strada vincente per l’arricchimento della disciplina.
Paola Tinè
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