Carlo Carrà (Quargnento-AL, 1881-Milano, 1966) - Manifesto interventista - 1914
1915/18 La guerra dell'Italia - (4) Il Maggio radioso
di Mauro Lanzi
(seguito)
“Esiste, nelle umane cose, una marea che, colta al flusso, mena alla fortuna…”
W. Shakespeare. Giulio Cesare
La decisione di entrare in guerra con l’Austria fu, come visto, un’operazione di vertice, condotta da un numero ristretto di ministri e funzionari, sotto l’egida del Re. Benché la Costituzione autorizzasse il Re a firmare trattati internazionali, financo a dichiarare guerra senza l’avallo del Parlamento, le ovvie, pesanti implicazioni del passo compiuto (basti pensare alle necessità finanziarie, ai crediti da far approvare) rendevano indispensabile un passaggio parlamentare.
Ancora di più, occorreva far digerire questo brusco voltafaccia ad una opinione pubblica che, solo pochi mesi prima, aveva plaudito entusiasticamente alla neutralità.
Cominciò allora, forse anche in forma spontanea, quel periodo di dimostrazioni, dichiarazioni, movimenti di piazza in appoggio degli impegni presi, che andrà sotto il nome di “Maggio radioso”: scesero in campo in favore dell’intervento tutti i maggiori “opinion leader” del Paese, da Prezzolini a Papini a Soffici a Gabriele D’Annunzio, a Luigi Albertini (direttore del Corriere della Sera ), al movimento futurista di Marinetti, allo stesso Mussolini che si esibisce in un acrobatico voltafaccia in favore della guerra, dimettendosi da direttore dell’”Avanti” e fondando un suo quotidiano, si disse con soldi francesi, “Il Popolo d’Italia”.
In generale si schierò a favore della guerra tutta quella cultura che vedeva in essa una rottura con il passato, rottura di cui i futuristi, in particolare, avevano fatto il tema centrale della loro filosofia, che respingeva ogni idea di continuità, di compromesso, di pacifica evoluzione: si legga il passo che segue:
“Noi futuristi vogliamo liberare la nostra razza da ogni neutralità, dall'indecisione paurosa e quietista, dal pessimismo negatore e dall'inerzia nostalgica, romantica e rammollante. Noi vogliamo colorare l'Italia di audacia e di rischio futurista, dare finalmente agl'italiani degli abiti bellicosi e giocondi.”
Il loro messaggio politico ebbe una notevole risonanza, anche se furono soprattutto le loro opere, particolarmente in campo figurativo, che colpirono l’opinione pubblica, riscuotendo approvazioni, ma anche feroci critiche; a distanza di anni ne risalta il valore artistico ed il coraggio innovativo, basti pensare ai nomi di Boccioni, Carrà, Sant’Elia ed altri ancora.
Occorre comunque riconoscere ai futuristi anche una sostanziale coerenza con le proprie idee: quasi tutti si arruolarono volontari, molti non tornarono. Marinetti fu ferito, Boccioni ucciso, Sant’Elia morì da eroe sul Carso.
Fra tanti protagonisti, però, una notazione a parte spetta, per l’influenza che seppe esercitare in quei giorni sull’opinione pubblica, a Gabriele D’Annunzio.
D’Annunzio era allora una autentica celebrità, per le sue opere, per la sua prodigiosa creatività intellettuale ed anche per la sua vita privata: D’A. aveva inaugurato una nuova figura d’intellettuale, inusuale a quei tempi, capace di comparire sugli scenari della vita pubblica, di dettare aspetti della moda, di influire sui comportamenti collettivi, di usare i mezzi di comunicazione di massa.
Era uno dei personaggi di maggior spicco, in Italia ed in Europa, la sua modernità risalta anche dal confronto con gli uomini di cultura attuali, che ne ricalcano le orme, senza averne l’ingegno.
In campo politico, in particolare, il suo ascendente si spiega con la sua capacità di dare forma suggestiva, elegante e teatrale agli umori dell'Italia: un'Italia convinta di poter contare, spinta dall' orgogliosa, aggressiva affermazione della sua identità. E lo faceva utilizzando e plasmando miti e linguaggi tratti dalle tradizioni più diverse.
Questa fu la sua grande capacità: combinare dinamicamente classicismo e modernità, servendosene per esprimere la nuova vitalità del paese in fase di crescita e le sue ambizioni espansionistiche.
Egli faceva emergere compiutamente una tendenza alla rottura dell'involucro consunto dell'Italia post-unitaria, del modello monarchico -parlamentare.
Nella sua oratoria i vecchi argini del linguaggio e dell'immaginario sembravano violati, la sua etica vitalistica interpretava inquietudini di generazioni, che sentivano il vecchio mondo come ormai troppo angusto.
Valga ad esempio un brano dell’orazione tenuta, il 5 maggio 1915, a Quarto, in occasione delle commemorazioni dell’impresa dei Mille: qui il nostro riprende e combina elementi di simbologia classica e cristiana, con evidenti allusioni agli eventi che si andavano preparando:
“Beati quelli che, avendo ieri gridato contro l’evento
accetteranno in silenzio l'alta necessità e non più vorranno
essere gli ultimi ma i primi. Beati i giovani che sono
affamati e assetati di gloria, perché saranno saziati. Beati
i misericordiosi, perché avranno da detergere un sangue
splendente, da bendare un raggiante dolore. Beati i puri
di cuore, beati i ritornanti con le vittorie, perché vedranno
il viso novello di Roma, la fronte ricoronata di Dante
la bellezza trionfale d'Italia.”
Superfluo sottolineare l’effetto trascinante di un simile linguaggio su folle entusiaste e sovraeccitate.
Nulla era più lontano dalla sensibilità dannunziana e dalla visione estetica della politica, sua e di tutti gli interventisti, della paziente mediazione parlamentare giolittiana, e contro Giolitti esplose di lì a poco la violenza verbale del poeta, che lo chiamava amabilmente nei suoi comizi il “Boia labbrone”, in sintonia con quanti ritenevano il vecchio statista piemontese responsabile ed incarnazione di ogni degenerazione nazionale.
Ma, nel pieno del marasma, proprio Giolitti scende a Roma il 9 Maggio, dopo una lunga assenza dalla scena politica: pur essendo chiuse le Camere, ben 300 parlamentari passarono al suo alloggio per lasciare il loro biglietto, gesto semantico utilizzato a quei tempi per segnalare la propria adesione alle idee di un leader.
E le idee di Giolitti erano ben note a tutti: era un convinto neutralista, sia perché naturalmente portato alla mediazione, sia perché certo che la trattativa avrebbe dato frutti migliori dell’intervento (era solito dire che da una trattativa si sarebbe ottenuto “parecchio”), sia perché reso edotto, dalla guerra di Libia, delle gravi carenze del nostro esercito (diffidava soprattutto dei vertici, che riteneva incompetenti, arroganti e impreparati).
Cosa accadde veramente nelle convulse giornate che seguirono è ancora oggetto di dibattito: di certo ci fu un incontro tra Giolitti e Salandra nel corso del quale Giolitti espose fuori dai denti quello che pensava; ricordò a Salandra come nel corso della guerra di Libia avesse dovuto, lui personalmente, falsificare i bollettini di guerra per nascondere i sanguinosi rovesci subiti dalle nostre truppe ad opera di ribelli male armati; gli rammentò i magazzini vuoti dell’esercito, l’incompetenza dimostrata dagli alti gradi militari; gli espose la situazione internazionale con gli Alleati bloccati sui Dardanelli, mentre gli imperi centrali erano vittoriosi sul fronte russo e la Serbia stava per collassare.
Travolto da questo fiume in piena, Salandra seppe solo balbettare che era pronto a dimettersi, ma Giolitti non ne voleva sapere di tornare al governo con la piazza ed il Re ostili; rispose che non era necessario, bastava una mozione della Camera che impegnasse il governo a proseguire le trattative, niente di più.
Secondo alcuni storici ci fu anche un incontro tra Giolitti ed il Re, al termine del quale il Savoia avrebbe prospettato la sua abdicazione, altri lo negano.
Comunque sia, dopo un abboccamento con il Re, Salandra il 13 Maggio dette le dimissioni.
Scoppiano allora in tutta Italia violente dimostrazioni contro Giolitti ed in favore dell’intervento: Roma, secondo i corrispondenti esteri, era una città fuori controllo, l’alloggio di Giolitti dovette essere protetto da cavalli di Frisia con la polizia schierata. Forse era quanto il Re si aspettava e desiderava per riproporre ad una Camera riluttante ed in maggioranza contraria all’intervento l’incarico a Salandra (17 maggio).
Giolitti si rende conto allora che la partita era persa: sconfessare il Patto di Londra avrebbe significato sconfessare non tanto Salandra (che non contava nulla), ma la monarchia, aprendo scenari drammatici per il Paese: forse, è vero che nel famoso incontro, ammesso che ci sia stato, o anche dopo, il Re avesse adombrato la necessità o minacciato una sua abdicazione.
Comunque, Giolitti era troppo buon servitore del Paese e delle sue istituzioni per arrischiarsi su questa strada; se ne ripartì quindi senza attendere l’esito della votazione, lasciando detto ai suoi di votare la fiducia al governo, per il bene della patria: si astenne da ogni intervento in politica fino a dopo Caporetto.
Il 20 Maggio il Parlamento ratifica il trattato di Londra, votando i pieni poteri al governo; il 24 l’Italia entra in guerra solo contro l’Austria, malgrado il Trattato impegnasse l’Italia a dichiarare guerra a tutti i nemici dell’Intesa.
I rapporti con la Germania erano molto buoni: l’interscambio commerciale era assai proficuo, numerose aziende tedesche avevano investito nel Nord Italia, mancava un contenzioso di qualsiasi genere, ma soprattutto si sperava di concludere le operazioni militari prima che ci venisse imposta dagli Alleati la guerra alla Germania!
Come spesso accaduto nella storia del nostro Paese, anche in tempi recenti, (si pensi al ’68 e agli eventi che seguirono), il clamore delle piazze, la violenza fisica o verbale, le supponenti prese di posizione di un’intellighenzia sempre lontana dalla società reale, servirono a mascherare il vero sentire della gente, ad imporre all’Italia orientamenti condivisi solo da minoranze chiassose e prevaricatrici.
Il Paese che entra in guerra è un Paese profondamente diviso, sia a livello politico che a livello sociale.
Sono convintamente per l’intervento ampie fasce della borghesia, imbevuta degli ideali del Risorgimento, che aspira, attraverso la guerra, ad una fase di rinnovamento della nazione, al raggiungimento di nuovi obiettivi, all’aprirsi di nuovi orizzonti, al completamento dell’unità nazionale e non sono motivazioni da sminuire nei loro contenuti e nei loro valori; altri settori, invece, della destra conservatrice, come Salandra, vedevano nella guerra un modo per placare i disordini sociali e compattare la nazione intorno ad un nuovo ideale di patria.
Esisteva però un ben più vasto movimento anti interventista, al quale davano espressione politica Giolitti, il partito socialista, i cattolici ed esisteva, soprattutto, una maggioranza inconsapevole, del tutto ignara degli eventi: più del 50% del Paese era costituito da analfabeti, in massima parte contadini, completamente avulsi dai fatti e dalla realtà politica, per i quali i nemici erano fame, siccità, mafia, non certo i tedeschi che neppure conoscevano!
A loro nessuno aveva mai spiegato, neppure sui banchi di scuola, cosa fosse quell’Italia, per la quale verrà chiesto loro di andare a morire.
Mancava anche il collante ideologico della Patria in pericolo, l’Italia non era la parte aggredita: la decisione di entrare in guerra non unisce, come sperava Salandra, ma divide il paese e la sua classe dirigente.
In Francia e Gran Bretagna la guerra produce un moto di partecipazione e solidarietà che non sarà mai spezzato: in Germania la lacerazione politica avverrà dopo la guerra.
In Italia la lacerazione era già in atto e precipiterà, malgrado la vittoria, aprendo la strada alle convulse vicende del primo dopoguerra, dando l’avvio ad una strisciante guerra civile, fortunatamente, spesso, più declamata che combattuta, ma comunque presente fino ai nostri giorni nell’atteggiamento delle parti che si contendono la guida del Paese, con toni e argomenti, talora purtroppo, proprio da guerra civile.
Con il “Maggio radioso” si entrò in guerra, ignorando il malessere della maggioranza del Paese, l’impreparazione dell’esercito, i segnali negativi che provenivano dagli altri fronti, per coronare il percorso del Risorgimento, completare l’unità nazionale, fidando in una congiuntura internazionale che sembrava favorire l’intervento italiano.
“Una marea che, colta al flusso, mena alla fortuna..”,
(continua)