Aggiornato al 22/10/2025

Non sono d’accordo con quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo

Voltaire

Moshe Dayan

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La questione ebraica (8) - La Guerra dei Sei Giorni 

di Mauro Lanzi

 

Dopo la Guerra del Canale, la situazione in Medio Oriente sembrava entrata in una situazione di stallo, in cui le grandi potenze sembravano interessate a mantenerla. Ma da una condizione di apparente calma, la situazione mutò di colpo in seguito ad un fatto a prima vista privo d’importanza, la visita a Mosca, iniziata il 29  aprile 1967, di Anwar el Sadat; Sadat era un personaggio di secondo piano in quel momento, non rivestiva alcun incarico militare, ma era uomo di fiducia di Nasser; perciò, pur nell’ambito di una visita di pura cortesia, i sovietici lo trattarono con tutti i riguardi, anzi si spinsero anche a comunicargli, in termini gravi e solenni, l’imminenza di un attacco israeliano alla Siria, mirante a rovesciare il regime Ba’th. Secondo i sovietici ben 12 brigate israeliane erano pronte ad attaccare tra il 16 ed il 22 maggio, “non dovete farvi cogliere di sorpresa” era l’ammonimento finale.

La notizia era assolutamente falsa e non si è mai capito fino in fondo quale fossero le motivazioni del Cremlino, ma questo avvertimento iniziò la sequenza di eventi che condurranno alla cosiddetta Guerra dei Sei Giorni.  Sadat, appena rientrato dal suo viaggio, si precipitò a casa di Nasser, dove già era in corso una riunione per discutere di un’analoga notizia fatta trapelare dall’ambasciatore sovietico; la testimonianza di Sadat, provenendo dai vertici del Cremlino, aggiunse un peso decisivo alla questione.

Nasser non era totalmente convinto delle informazioni ricevute, ma non si sentiva neppure di trascurarle; una caduta del regime Ba’th in Siria, avrebbe provocato una reazione a catena, con la caduta di tutti i regimi progressisti della regione, Iraq, Yemen, forse anche Egitto. Si scelse perciò una via di mezzo, furono trasferite forze ingenti nel Sinai, ma alla luce del sole, per inviare un messaggio ad Israele, non per iniziare un attacco.  Una missione a Damasco condotta nei giorni successivi da un alto ufficiale egiziano segnalò che al confine siriano non si poteva rilevare nessun ammassamento di truppe, non c’era nulla; l’allarme sovietico appariva quindi infondato, ma Nasser preferì ignorare queste smentite e procedere come se gli israeliani fossero davvero in procinto di attaccare; i motivi di questo atteggiamento sono facilmente intuibili, richiamare ora l’esercito sarebbe stato estremamente umiliante in un momento in cui Nasser non poteva permettersi sconfitte morali, mentre andare avanti col concentramento avrebbe accresciuto il suo prestigio: in ogni caso la rimilitarizzazione del Sinai appariva un’operazione a rischio zero.

La Guerra dei Sei Giorni viene spesso descritta come un attacco repentino, a sorpresa da parte di Israele; in realtà passarono più di tre settimane tra il 14 maggio, data della prima mossa egiziana ed il 5 giugno, primo giorno della guerra, tre settimane dense di iniziative diplomatiche e militari, di malintesi e valutazioni errate, tre settimane caratterizzate da dubbi ed incertezze da parte israeliana; le dinamiche che portarono allo scoppio della guerra furono un complesso intreccio di errori di calcolo da entrambe le parti, soprattutto, occorre dirlo, da parte egiziana, i cui leader si spinsero troppo avanti con la strategia del rischio calcolato ed, inoltre, sottovalutarono  il divario tra la preparazione bellica dei due eserciti. Da questo punto di vista, un ruolo significativo lo ebbero i generali egiziani che intravedevano in questa situazione l’opportunità di estendere il loro potere; in particolare il feldmaresciallo Amer, che era di fatto il comandante militare sul campo, ardeva dal desiderio di cancellare l’umiliazione del 1956, quando l’Egitto era stato salvato dalla diplomazia, non dall’esercito; Amer stimava che sotto la protezione dei missili forniti dall’Unione Sovietica, le forze egiziane sarebbero potute facilmente avanzare fino al Neghev.

Questo insieme di ambizioni e risentimenti viscerali portò quasi insensibilmente l’Egitto al secondo passo: il 16 maggio un emissario di Amer consegnò al comandante dell’UNEF (forza di interposizione delle Nazioni Unite) uno scritto con cui si richiedeva l’immediato ritiro dei contingenti delle Nazioni Unite dalle loro postazioni. Nasser, in passato, aveva esitato a lungo prima di avanzare questa richiesta ed infine aveva rinunciato; anche ora avrebbe voluto si parlasse di ridispiegamento, non di ritiro, ma la lettera era già partita; secondo gli accordi presi a suo tempo, l’Egitto aveva il diritto di chiedere il ritiro, ma questa richiesta andava discussa davanti all’Assemblea delle Nazioni Unite, quindi Nasser stimava ci fosse tempo per chiarirsi con il segretario generale dell’ONU, il birmano U Thant. U Thant, personaggio non particolarmente sveglio, secondo i suoi stessi collaboratori, ricevuta copia della lettera in tarda serata, si prese un giorno per riflettere, per poi giungere alla conclusione che convocare l’Assemblea era inutile, l’Egitto aveva il diritto di esigere il ritiro che quindi andava eseguito al più presto, anche se si rischiava un conflitto regionale; solerzia paradossale e deplorevole da parte dell’uomo incaricato di mantenere la pace mondiale!! Ancora una volta, una sequenza di malintesi avvicinò le parti al conflitto.

Da parte israeliana si vivevano dopo il 14 maggio momenti di grande ansia ed incertezza; gli avvenimenti del recente passato, dalla nascita dell’OLP, agli attacchi di Al Fatah, al tentativo di deviare il Giordano avevano fatto crescere il livello di allarme nella leadership d’Israele; ora l’inspiegabile decisione del segretario generale U Thant toglieva ad Israele l’unica limitata sicurezza acquisita con la guerra del ’57 e non era cosa da poco; si dibatteva, in seno al governo israeliano, se Nasser, con il dispiegamento di forze nel Sinai, mirasse al prestigio o alla guerra; il premier Eshkol raccomandava ai suoi prudenza, ma alla fine non poté esimersi dal richiamare sotto le armi la maggior parte dei riservisti, più di 80.000 uomini; si premurò, al tempo stesso, di rassicurare Washington che la mossa era meramente difensiva, pregando di far giungere lo stesso messaggio al Cairo ed a Mosca. 

La mobilitazione egiziana intanto andava avanti; il 20 maggio ben sei divisioni erano dispiegate nel Sinai, ma il peggio era l’atmosfera di esaltazione ed euforia che aveva pervaso il mondo arabo, al punto che anche i paesi moderati, come Giordania ed Arabia Saudita era ormai convinti di dover appoggiare l’Egitto. Nasser, inizialmente, non si aspettava neppure una evacuazione totale delle forze dell’UNEF, si sarebbe accontentato di un ridispiegamento parziale, più consono all’azione dimostrativa che aveva in mente; l’ondata di entusiasmo arabo generato dalla sua iniziativa aveva portato il suo prestigio alle stelle e non gli consentiva di tornare indietro, anzi lo sospingeva in avanti verso mosse ben più rischiose; se cacciare l’UNEF aveva rappresentato una facile vittoria politica, ripristinare il blocco di Tiran era ben altra cosa, si rischiava la guerra!! Tiran controllava Immagine che contiene testo, mappa, atlanteIl contenuto generato dall'IA potrebbe non essere corretto.l’accesso al Mar Rosso del porto di Eilat, grazie al quale Israele aveva sviluppato un fiorente commercio verso l’Africa, oltre ad importare petrolio dall’Iran; immediatamente gli israeliani si rivolsero agli Stati Uniti, ricordando il solenne impegno preso nel ’56 da Foster Dulles, secondo cui il blocco di Tiran sarebbe stato considerato un atto di guerra.

Al blocco di Tiran si arrivò quasi per inerzia, dopo che le forze egiziane ebbero occupato le postazioni UNEF attorno a Sharm el Sheik; a questo punto lo stretto era sotto il tiro dei cannoni egiziani, i generali egiziani proclamarono che i loro uomini non potevano tollerare di vedersi sfilare sotto il naso le navi con la stella di David, non si poteva più tirarsi indietro; il blocco divenne effettivo alle ore 12 del 23 maggio; intanto nel Sinai il feldmaresciallo Amer accelerava i preparativi per un attacco improvviso ad Israele.

A Tel Aviv regnava l’incertezza; Israele aveva pronto da tempo un piano detto “Kardom” (scure) per un blitz almeno su due fronti, ma il premier Eshkol esitava, soprattutto non avrebbe voluto muoversi senza l’appoggio o l’approvazione esplicita degli Stati Uniti, che però predicavano prudenza; il presidente Johnson aveva già il suo da fare col Vietnam, non voleva aprire un altro fronte; quando infine si risolse ad incontrare l’inviato israeliano Abba Eban, dopo due giorni di anticamera, gli spiegò di non poter prendere alcuna iniziativa senza aver sviscerato la questione alle Nazioni Unite; in risposta alle rimostranze di Eban, che segnalava i preparativi del nemico, Johnson ripeté più volte: ”Israele non sarà solo, a meno che non decida di fare da solo”, formula quanto meno ambigua in quelle circostanze. Washington però si premurò anche di comunicare ai sovietici che gli israeliani si attendevano un imminente attacco egiziano; il messaggio girato al Cairo convinse Nasser a bloccare Amer, l’effetto sorpresa era svanito.

Entrambe le parti brancolavano nel buio, asserivano di non volere la guerra, ma la preparavano; il più rapido o il più deciso fu ancora una volta Nasser, che riuscì ad obbligare la Giordania a schierarsi; il 30 maggio, volato al Cairo, Hussein di Giordania firmò con Immagine che contiene persona, calzature, aria aperta, Abbigliamento formaleIl contenuto generato dall'IA potrebbe non essere corretto.Nasser un patto di mutua assistenza militare del tutto simile a quello già esistente con la Siria. Hussein non si fidava di Nasser, mai avrebbe aderito ad una simile alleanza non fosse stato pressato dai disordini minacciati dall’OLP, che aveva una forte presenza palestinese in Giordania. Il giorno successivo unità corazzate dell’esercito irakeno entravano in Giordania per schierarsi al confine, appoggiate anche da contingenti egiziani; il comando militare spettava all’Egitto.

A questo punto Israele si trovava accerchiato da ogni lato, con le forze coalizzate di Iraq e Giordania che minacciavano il punto più fragile del suo territorio, quella fascia larga solo 15 km, occupare la quale avrebbe significato tagliare in due lo stato ebraico. L’atmosfera in Israele si era fatta drammatica, la gente preparava trincee e rifugi, l’opinione pubblica esigeva decisioni coraggiose che non venivano; i generali premevano per un’apertura immediata delle ostilità, presentavano di continuo nuovi piani di guerra, ma Eshkol resisteva; secondo lui l’occupazione del Sinai come pure le altre mosse di Nasser non erano motivi sufficienti per aprire le ostilità; per quanto riguardava lo stretto di Tiran, sperava sempre in un intervento di Johnson; a Washington però si studiava la possibilità di forzare il blocco di Tiran con un convoglio di navi neutrali, scortate da cacciatorpediniere americane (operazione “Regatta”), oppure si tentavano iniziative diplomatiche, inclusa la visita del vicepresidente Humphrey al Cairo, tutti piani però di esito incerto, che avrebbero richiesto settimane o mesi per essere attuati.

A Tel Aviv ci si rendeva conto che il tempo stava per scadere; anche la missione a Washington del capo del Mossad, non aveva dato i frutti sperati, nessuna concreta azione di appoggio ci si poteva attendere a breve da quel lato; così la situazione politica cambiò di colpo, il 1° Giugno si costituì un governo di unità nazionale, primo passo verso uno stato di emergenza; quasi contemporaneamente fu richiamato al ministero della difesa Moshe Dayan: Dayan era all’epoca il militare più conosciuto e popolare di tutto Israele; la sua carriera era cominciata nell’esercito inglese durante la seconda guerra mondiale, poi, rientrato, era divenuto capo dell’Haganah ed infine capo di stato maggiore, aveva anche condotto i negoziati per la tregua nel ‘48; univa fiuto politico a visione strategica e leadership in campo militare, era l’uomo più adatto a gestire l’emergenza che si annunciava; ma, soprattutto, Dayan nel governo poteva significare una sola cosa: guerra! Dayan, infatti, appena insediato, acquisì il pressoché totale controllo del processo decisionale in Israele, guidandolo ineluttabilmente verso il conflitto; il premier Eshkol, cui spettava l’ultima parola, aveva resistito per tre settimane a pressioni enormi, subendo critiche, isolamento, persino attacchi personali, anche in questo momento tentò di guadagnare tempo, cercava ancora l’appoggio degli Stati Uniti; ma a seguito dell’ultima deludente lettera di Johnson, dovette  piegarsi al diktat di Dayan; il gabinetto israeliano, quindi, votò infine a grande maggioranza per la guerra, vale a dire una guerra preventiva; l’ora X venne fissata per lunedì 5 giugno, tra le 7:00 e le 7:30.                                              

Ci siamo soffermati sugli eventi politici e diplomatici che precedettero la Guerra dei Sei Giorni, per dare un’immagine più completa dei passi che condussero allo scontro, per sfatare l’idea di un Israele ansioso di combattere una guerra preventiva; c’erano evidentemente a Tel Aviv fazioni guerrafondaie, i militari premevano per l’apertura di un conflitto, ma c’era anche un potere politico, con in testa il premier Eshkol, che non amava la guerra e l’avrebbe evitata quasi ad ogni costo; solo il timore di una scomparsa di Israele, dopo il blocco di Tiran e dopo l’alleanza Egitto Giordania, insieme all’ambiguità di Johnson, lo costrinse infine a cedere. Nasser, dal canto suo, fu irretito dal suo stesso gioco; aveva preso iniziative militari rischiose per cogliere vantaggi politici, l’entusiasmo delle folle arabe lo aveva poi indotto o costretto a procedere, l’alleanza con tutti gli stati arabi della regione lo aveva convinto di essere in una situazione di forza, i suoi generali lo avevano ingannato circa l’efficienza delle sue forze armate, la guerra sarà per lui un amaro risveglio.

L’aspetto più sorprendente dell’inizio di questa guerra fu la travolgente sorpresa ottenuta dalle forze aeree israeliane (IAF) sull’aviazione avversaria, in primo luogo egiziana; dopo settimane di proclami roboanti, minacce di guerra e giudizi sprezzanti sulle forze nemiche, gli egiziani si fecero trovare totalmente impreparati; gli aerei erano tutti a terra, allineati in bell’ordine ai lati delle piste, persino la contraerea era stata fermata, per consentire un volo di ricognizione del generale Amer. Così i Mirage ed i Mystere israeliani, volando a 15-20 metri dal suolo, invisibili ai radar, giunsero indisturbati sui campi d’aviazione egiziani; prima furono bombardate le piste di decollo, per bloccare ogni possibilità di reazione, poi gli aerei di ogni tipo, caccia, bombardieri, aerei da trasporto, furono distrutti al suolo; alle 10:30 il comandante israeliano poteva annunciare al suo governo: “L’aviazione egiziana ha cessato di esistere”.

Nasser era rimasto all’oscuro di tutto, perché nessuno dei suoi generali o membri del governo osava informarlo; addirittura Amer aveva diffuso un assurdo proclama di vittoria, asserendo che il 75% della forza aerea israeliana era stata annientata, mentre le forze di terra egiziane puntavano sulle città d’Israele. Anche sul fronte terrestre, invece, le cose volgevano al peggio; le unità dell’IDF si erano portate a ridosso delle postazioni nemiche nel corso della notte, senza essere rilevate; così, giunto l’ordine, alle 7:50, avevano scatenato un attacco, ancora una volta, di sorpresa. La prima linea difensiva egiziana fu superata senza difficoltà, poi le forze corazzate israeliane puntarono sulle roccaforti del nemico che offrirono una resistenza più decisa, gli israeliani subirono perdite sensibili, ma non si arrestarono; a sera si erano impadroniti di diverse postazioni chiave, dalle quali potevano osservare fiumane di soldati nemici in fuga.

La strategia di Dayan prevedeva l’impiego di buona parte delle risorse dell’IDF sul fronte sud, contro l’Egitto; alle scarse truppe che presidiavano i confini siriano e giordano era stato impartito l’ordine di mantenere un assetto strettamente difensivo, addirittura di non rispondere al fuoco se provocati.  In particolare, sul fronte giordano, Israele non poteva permettersi di combattere, non disponeva né di uomini né di mezzi corazzati; per questo motivo nei giorni precedenti, il governo di Eshkol aveva fatto pervenire ad Amman messaggi rassicuranti, si garantiva che, da parte israeliana, nessuna iniziativa ostile sarebbe stata intrapresa contro la Giordania; di fatto, gli israeliani erano certi che Amman si sarebbe limitata a qualche azione dimostrativa, niente più.

L’atteggiamento giordano invece cambiò radicalmente, quando, quella mattina del 5 giugno, giunse ad Hussein un messaggio di Amer secondo cui Israele aveva subito perdite rovinose nell’attacco aereo ed era in corso un fulmineo contrattacco egiziano; osservatori giordani riferivano che centinaia di aerei erano in volo dal Sinai verso Israele, pensavano fossero egiziani, mentre erano gli aerei israeliani di ritorno. Alle 9:30 il messaggio di Amer fu confermato al Re da Nasser in persona; a questo punto Hussein ebbe chiaro che, per sopravvivere politicamente ed anche fisicamente, doveva combattere.

Iniziò quindi un violento bombardamento, condotto prima dall’artiglieria, poi anche dall’aviazione giordana, che aveva come obiettivo aprire la strada verso due alture d’importanza strategica nella porzione israeliana di Gerusalemme; a questo punto Dayan dovette cambiare i suoi piani; il completo successo sul fronte egiziano gli consentiva di distogliere parte dell’aviazione da quel settore, quindi prima autorizzò una serie di incursioni dell’aviazione, poi inviò anche rinforzi di terra.  L’IAF colse gli aerei giordani nelle loro basi, mentre si rifornivano dopo la precedente incursione e li colpì a terra, distruggendo anche le piste; poi, sfruttando l’annientamento delle forze aeree giordane, cominciò a bersagliare le colonne di mezzi corazzati giordani ed irakeni, in movimento, prive di copertura; decine e decine di carri e di altri veicoli furono distrutti prima di poter essere impiegati. Intanto feroci combattimenti, anche corpo a corpo si svolgevano a Gerusalemme; gli israeliani riuscirono a recuperare le posizioni perdute nelle prime ore e poi contrattaccare conquistando il controllo della loro porzione di città; poi, a fine giornata, tanto per non farsi mancare niente, la IAF distrusse anche le forze aeree siriane. 

Il fronte egiziano ed il fronte giordano risultarono, per tutto il primo giorno, inscindibilmente collegati e interdipendenti; Hussein era stato convinto ad attaccare dalle fantomatiche notizie di successi eclatanti diffuse dalla propaganda egiziana; viceversa, l’esito favorevole, oltre ogni aspettativa, dell’offensiva della IAF sul fronte egiziano, aveva consentito a Dayan di distogliere aerei da questo settore e di portarli sulla Giordania, ottenendo l’ istantaneo annientamento delle forze aeree del regno hashemita. Di più, nessuno dei due leader arabi aveva una esatta cognizione della situazione sul campo, ad Hussein mancava una panoramica completa, a Nasser nessuno osava dire la verità.  Nasser cominciò a rendersi conto della verità solo dopo le quattro del pomeriggio, quando, recatosi di persona al quartier generale, trovò solo confusione e scompiglio, il comandante in capo Amer, drogato o ubriaco, in preda allo sconforto, incapace di connettere.

Eppure esistevano ancora vie di uscita; sul piano politico e diplomatico, l’Egitto avrebbe potuto richiedere all’ONU una tregua immediata e non c’è dubbio che l’avrebbe ottenuta; invece Nasser ed Amer concordarono di diffondere l’ennesima menzogna, la sconfitta egiziana sarebbe stata dovuta all’intervento di forze angloamericane. Anche sul campo militare si sarebbero potute prendere valide contromisure; l’IDF aveva infranto la prima linea difensiva egiziana, ma l’Egitto disponeva in Sinai di altre forze, almeno due o tre divisioni intatte, con cui si sarebbe potuto organizzare una seconda linea difensiva, per coprire una ritirata ordinata di tutto l’esercito.

Ma Amer aveva perso la testa, non nutriva più alcuna fiducia, dopo tanti proclami tracotanti, nelle capacità combattive del suo esercito; ordinò quindi una ritirata generale immediata, che si trasformò, come inevitabile, in una rotta disastrosa; sembra che l’Egitto fosse in mano a due leader inebetiti, intontiti dalla loro stessa propaganda. Non bisogna neppure pensare che la diplomazia sia rimasta inerte durante tutto il periodo della guerra; già il secondo giorno, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, riunitosi su iniziativa degli Stati Uniti, aveva approvato, alle 16:30, una risoluzione che imponeva l’immediato cessate il fuoco a partire da quella stessa sera; si stimava, che il tempo necessario al ripiegamento degli israeliani avrebbe dato modo di negoziare una soluzione equilibrata ed equanime del problema. Sorprendentemente, mentre gli israeliani accettarono subito la risoluzione ONU, chi la respinse furono gli egiziani, che esigevano un ritiro immediato ed incondizionato di Israele, malgrado che il loro esercito fosse in rotta e malgrado che venisse loro a mancare, in quel momento, anche l’appoggio sovietico.

La Guerra dei Sei Giorni prende il nome dalla sua brevissima durata; in realtà durò anche meno, tutto si risolse nella prima giornata con la distruzione a terra delle forze aeree arabe; negli spazi aperti la copertura aerea è essenziale, senza questa protezione non c’è scampo. Anche i giordani, la famosa Legione Araba, che pure si erano battuti con grande coraggio a Gerusalemme e nei dintorni, furono costretti a cedere quando le colonne di rinforzi vennero sistematicamente annientate dalla IAF. Hussein aveva cercato in tutti i modi, tramite canali confidenziali, di ottenere una tregua di fatto da Israele, ma non aveva potuto opporsi a Nasser alle Nazioni Unite; così, il terzo giorno, la IDF prese il controllo della città vecchia di Gerusalemme, Dayan, con un gesto simbolico si recò al Muro del Pianto; per salvare il suo esercito, Hussein dovette farlo retrocedere fino alla riva sinistra del Giordano, tutta la Cisgiordania finì in mano israeliane.

La situazione stava cambiando rapidamente anche al Cairo; fino alla terza giornata, la propaganda del regime aveva diffuso notizie di vittorie eclatanti delle forze egiziane, regnava l’entusiasmo; il quarto giorno, quando i miseri resti di un esercito in fuga cominciarono ad attraversare il Canale, non fu più possibile nascondere la verità; un’atmosfera di sconforto pervase la città, lo stesso Nasser dovette prendere atto della sconfitta ed ordinò ai suoi rappresentanti all’ONU, di accettare il cessate il fuoco senza condizioni. Nasser appariva invecchiato di dieci anni anche ai suoi più fedeli collaboratori; eppure, il giorno seguente, fu capace di un abile “coup de theatre”; annunciò via radio le sue dimissioni, addossandosi la responsabilità del disastro; terminò il suo discorso dicendo;

Le forze dell’imperialismo immaginano che il loro nemico sia Abdel Nasser; voglio spiegare loro che è l’intera nazione araba, perché la speranza dell’unità araba è nata prima di Gamal Abdel Nasser e rimarrà dopo di lui. La nazione sopravvive; Nasser è stato solo l’interprete della sua volontà.”

Non aveva ancora terminato il suo discorso che le strade del Cairo si riempirono di gente che invocava il suo nome, pregandolo, scongiurandolo di restare; Nasser fu, quindi, “costretto” a ritirare le dimissioni: aveva perso la guerra, non il suo popolo.

La tregua iniziò subito su tutti i fronti, tranne quello siriano, dove i cannoneggiamenti degli insediamenti israeliani continuavano dall’inizio della guerra;  Dayan, che si era sempre opposto ad un’offensiva su questo fronte, cambiò ora bruscamente idea ed il quinto giorno ordinò un attacco sul fronte nord senza neppure avvisare il suo governo; i siriani opposero inizialmente una strenua resistenza che crollò di colpo il sesto giorno, quando diverse unità del loro esercito si dettero alla fuga; la via di Damasco era aperta, ma gli israeliani si resero conto che rischiavano lo scontro con l’Unione Sovietica; così la tregua fu sancita per le 18:00 del sesto giorno, ad Israele restavano in mano le alture del Golan ed il monte Hermon, da cui si dominava anche Damasco.

 

Inserito il:22/10/2025 17:54:16
Ultimo aggiornamento:22/10/2025 18:32:15
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