Illustration from John Bulwer's Chirologia, or the Natural Language of the Hand (1644)
L’importanza del gesto
di Cesare Verlucca & Giorgio Cortese
Cari amici,
vi è mai capitato di vedere qualcuno fare gesti strani, senza riuscire a capire cosa volesse dire o segnalare, visto che non sta parlando con qualcuno, né sembra che stia chiedendo informazioni a terzi.
Questo ci ha resi coscienti che dove c’è comunicazione c’è gesto, il quale può pertanto essere considerato l’equivalente della parola e dell’ascolto: partiamo comunque dell’inizio per vedere dove ci porterà il discorso.
Nella razza umana, ancora prima di imparare a parlare, si impara a fare gesti. Non esiste infatti cultura o lingua che, accanto al vocabolario, non abbia un repertorio gestuale altrettanto efficace nell’espressione dei significati più complessi che le mail su internet non lasciano filtrare.
Pur non avendo una comunicazione fisica frequente, ci si può rendere conto che, durante una conversazione, tutto il corpo è coinvolto: testa, sguardo, mani, braccia, persino bacino e gambe se necessari.
Il corpo, infatti, non produce solo movimenti inconsci che fanno trapelare le emozioni, come spesso si pensa; molto spesso, questi movimenti contribuiscono in modo determinante a chiarire o completare il messaggio che la persona che sta parlando vuole o vorrebbe trasmettere all’interlocutore.
Domandiamoci allora cosa sia il gesto?
Di primo acchito potremmo dire, che un gesto è qualsiasi movimento del corpo eseguito allo scopo di comunicare. In questo senso, non ci sono limiti alla libertà del parlante di trasformare in comunicazione anche quelle azioni che in altre circostanze non lo sarebbero.
Pensiamo a un banale colpo di tosse. Se autentico, è un atto spontaneo, poco controllabile, che poco ha a che fare con la comunicazione. Ma se a teatro qualcuno sta chiacchierando durante l’esecuzione di un concerto e dalla platea parte un colpo di tosse, questo sarà facilmente interpretato come un atto volontario, eseguito allo scopo di richiamare gli indisciplinati. E quindi è un gesto.
Se è vero che qualsiasi movimento può essere eseguito per comunicare, è altrettanto evidente che i gesti per antonomasia sono i movimenti delle mani e delle braccia. Le numerose possibilità articolatorie di dita, polso, avambraccio e braccio rendono possibili innumerevoli variazioni: basti pensare che le stesse parti del corpo producono le lingue dei segni, che possiedono la stessa complessità semantica, sintattica e pragmatica delle lingue verbali.
I gesti delle mani, però, non sono tutti uguali. Spesso, infatti, un gesto si presenta in isolamento, senza parlato, e da solo sostituisce una parola o addirittura una frase.
Si pensi, ad esempio, al gesto che significa OK; o a quello per dire ‘no’; o per chiedere il conto al ristorante; o, ancora, e questo è non solo comprensibile, ma anche decisamente volgare, mandare qualcuno a farsi friggere, e richiede semplicemente il dito medio sollevato in alto. . Questi gesti vengono definiti “emblemi” e sono gesti altamente convenzionali, sicuramente diversi da cultura a cultura
Tuttavia, questo non è l’unico modo in cui le mani esprimono significati: quando stiamo parlando le nostre mani si muovono costantemente, senza che noi si voglia magari trasmettere qualche informazione. Questi movimenti, infatti, non sono casuali o secondari per lo svolgimento dell’interazione, ma un flusso ordinato e regolato, sincronizzato temporalmente e semanticamente col parlato.
Inoltre, proprio come i concetti si possono scomporre in parole, e le parole in unità più piccole, come i morfemi e i fonemi, il flusso gestuale si può scomporre in frasi gestuali e le frasi gestuali in unità più piccole che ruotano intorno all’apice di un gesto, il momento in cui il gesto è completo, prima che le mani tornino a una posizione di riposo o si preparino per un altro gesto.
La gestualità cambia da cultura a cultura, e qui ci sarebbe da scrivere assai, tuttavia pare che nel mondo siamo noi italiani che gesticolano più di qualsiasi altro popolo: e qui, per gli italiani del Nord sono gli italiani del Sud a gesticolare di più, e per gli italiani del Sud è la gente incolta che si esprime solo in dialetto, e così via: insomma, gli altri gesticolano sempre più di noi.
Riprendendo il discorso iniziato dianzi, un altro gesto molto usato in Italia è “il pollice verso l’alto”, che praticamente equivale al “Mi piace” di Facebook, e questo risale addirittura agli antichi Romani. Il suo utilizzo moderno nasce da un’errata convinzione: quella che lo ritiene un segnale di grazia negli scontri tra gladiatori. Il pollice in alto, del pubblico e dell’imperatore, avrebbe simboleggiato il desiderio di salvare la vita allo sconfitto. In realtà aveva il significato opposto, una condanna che avveniva molto raramente, riservata a chi aveva agito in maniera vile. Nelle lotte tra gladiatori, infatti, l’organizzazione dell’evento doveva pagare una penale per la morte di ogni combattente, inoltre si tendeva a evitare la perdita di atleti faticosamente addestrati.
L’errore nei secoli ha reso il pollice in alto un gesto positivo: ad esempio, nell’Inghilterra medievale indicava la conclusione positiva di una trattativa; nella Seconda Guerra Mondiale era l’“ok” dei piloti per il decollo.
Le dita a V, sono un gesto utilizzato per esprimere esultanza, il suo significato nasce proprio da ciò che le dita rappresentano: una “V” che è l’iniziale di “Vittoria” in più lingue. È infatti diffuso in diverse nazioni; tutto ebbe inizio quando il parlamentare, tennista e speaker radiofonico belga Victor de Laveleye (1894-1945), durante il secondo conflitto mondiale, propose ai suoi connazionali di utilizzare la lettera “V” quale segno di riscossa, sia nei gesti che come simbolo scritto.
L’idea venne adottata anche da Winston Churchill, che contribuì a renderla popolare in tutta l’Europa. Parlando di dita a “V”, occorre fare un precisazione che può evitare situazioni imbarazzanti. Alcuni, soprattutto tra i giovani, posano in foto eseguendo il gesto al contrario, con il palmo della mano verso il viso e il dorso verso l’esterno. Spesso ignorano che nel mondo anglosassone si tratta di un insulto, corrispondente a mandare a quel paese qualcuno.
La mano a cucchiaio è anche di dominio sui social, esprimendo perplessità, ed è considerata un simbolo dell’italianità. Il gesto è talmente antico che l’esatta origine rimane oscura: secondo alcuni nascerebbe nel ricco folklore napoletano, mentre lo scrittore Carlo Emilio Gadda ne parla come di un gesto “tanto in uso presso gli Apuli” (l’“Apulia”, nell’antichità romana, comprendeva quasi tutto il Sud Italia).
Quel che è certo è la possibilità di usarlo in due modi. Se il gesto è ampio e lento e il viso contrariato, ha il significato di un irritato “Che fai?”, “Che vuoi?”, “Che ti prende?”; eseguito invece in maniera più rapida e meno vistosa, può segnalare semplicemente che non capiamo quello che qualcuno dice, o quello che stiamo scrivendo.
Salutare qualcuno incrociando le dita, vuole dire augurare buona sorte, gesto cosi popolare che è presente anche nei social. Per quale motivo due dita incrociate evocano la fortuna? La spiegazione è nella nascita del gesto, che risale alle origini del Cristianesimo. I primi cristiani dovevano riconoscersi tra loro senza essere scoperti dai persecutori. Nacque così l’idea di una mossa poco vistosa, una sorta di segnale segreto che rappresentasse vagamente una croce: indice e medio sovrapposti. In seguito, nel Medioevo l’origine religiosa del gesto lo legò all’idea di scacciare il diavolo e, di conseguenza, la cattiva sorte.
Per consentirci di chiudere questa lunga tiritera vi sarete chiesto perché non abbiamo citato il gesto delle corna, tipica ironica allusione all’infedeltà, con indice e mignolo rivolti verso l’alto.
L’azione deriva dalla mitologia greca. Si narra infatti che Parsifae, moglie del re di Creta Minosse, volle salvare un bellissimo toro che doveva essere sacrificato a Poseidone. Il dio, offeso per la ribellione, fece impazzire la donna che si innamorò dell’animale. Dalla loro unione nacque il Minotauro e i cretesi adottarono il gesto delle corna (di toro), per alludere al tradimento. Lo stesso movimento rivolto verso il basso rappresenta, invece, l’atto di respingere la sfortuna, con la forza di un animale che la colpisce a cornate.
Cosa dire, invece, del gesto delle corna nel rock? In questo caso, l’associazione è doppia: era in voga già nel movimento hippy perché, nel linguaggio dei segni, indica “amore”. In seguito il cantante metal americano Ronnie James Dio, di origini familiari italiane, iniziò a usare nei live lo scongiuro tipico di sua nonna. Lo eseguì però con la mano in alto, consolidando un gesto iconico.