Nicolas Poussin (1594-1665) - Pastori dell'Arcadia - (Et in Arcadia ego) - 1639
La Paura della Morte è Paura della Vita? Riflessioni in Filosofia
di Anna Maria Pacilli
Post mortem nihil est (Seneca)
Ci pensiamo un po’ tutti alla morte, chi più chi meno. A seconda della nostra età: da giovani viene “vista”, come tanto lontana, addirittura da ragazzini è vista come transitoria: il concetto di morte è quello del protagonista di un telefilm che muore da una parte, per riapparire in un altro canale. Ecco perché spesso i giovani osano, a volte, mettersi in competizione con la vita, sfidando la morte con sports estremi. Quando cresciamo, solitamente, la morte comincia a toccarci, a diventare parte della nostra vita: i nonni, prima, i genitori poi. I nostri cari, dunque. E con la morte il concetto di sofferenza e di malattia che inevitabilmente si associano. E crescendo, invecchiando si comincia a pensare alla nostra, di morte. Soffriremo prima di morire o saremo così fortunati da non risvegliarci, così, semplicemente, colpiti nella notte da una morte indolore? Ecco, è naturale associare la morte alla inevitabilità del concetto di dolore, ed anzi invocarla, quando le sofferenze diventano insopportabili.
Dunque avrebbe un senso pensare alla morte?
Epicuro sembra rassicurarci, affermando che: "Quando siamo noi, non c'è la morte; quando c'è la morte, non siamo più noi. Nulla dunque essa è per i vivi e per i morti, perché in quelli non c'è, e questi non sono più". Quindi perché temerla se non possiamo averne esperienza diretta?
Pascal, invece, sostiene che, benché sia “più facile accettare la morte senza pensarci che pensare alla morte”, la grandezza dell’uomo consiste proprio nel poter pensare ed essere cosciente di ciò che vive: "l'uomo è solo un debole giunco della natura; ma è un giunco pensante [...] l'uomo è assai più nobile di ciò che lo uccide perché sa di morire… tutta la nostra dignità consiste nel pensiero".
Heidegger ci invita a rinunciare a parlare della morte, che è un evento impersonale che riguarda il ‘Si muore’, ma non sono ‘Io’ che muoio. Allora la morte non è una realtà per nessuno.
Ma ha un senso, e purtroppo doloroso ed angosciante, quando tocca chi amiamo, parlare di essa tramite l'osservazione che di tale fenomeno si fa sugli altri. E non della morte in sé, ma del fenomeno del morire, cioè di quel tunnel di sofferenza che troppo spesso si è costretti ad attraversare, prima che la sofferenza stessa finisca.
Heidegger sostiene che, per lo più, gli uomini considerano la morte come un evento “indeterminato, che, certamente, un giorno o l’altro finirà per accadere, ma che, per intanto, non è ancora presente e quindi non ci minaccia”. L’uomo non ha il coraggio di sopportare l’angoscia, che lo metterebbe di fronte a se stesso in modo autentico, “possibile ad ogni attimo”, quindi certa.
Sartre, invece, ha affermato l’opposto: la morte si presenta all’uomo come un assurdo, giunge a lui dall’esterno e rimane incomprensibile, dato che il senso si realizza sempre mediante il soggetto, che, nella morte, viene annientato.
Spesso non ci augureremmo una vita lunga ma una morte dignitosa. La vecchiaia spesso non è dignitosa. Per esorcizzare la paura della morte si dovrebbe forse cercare di vivere ‘in confidenza’ con la morte per tutta la vita, ma che significato avrebbe vivere se poi tutto deve essere distrutto dalla morte?
La morte, allora, è fuori o dentro la vita? Ovunque essa sia, la morte di Socrate, ad esempio, come quella di altri uomini illustri e quella dei martiri cristiani, avrebbe un senso nell’essere stata preceduta da un’esistenza vissuta all’insegna di valori che l’atteggiamento da essi assunto nei riguardi della morte ha poi riconfermato.
Heidegger ritiene che la morte sia un evento della vita ed un fenomeno da comprendersi esistenzialmente, e non solo da un punto di vista biologico, è il significato ultimo dell’esistenza, un ‘essere per la morte’…“la possibilità della pura e semplice impossibilità dell’esserci”.
Tutte le ‘cose’ della vita non sono definitive, sono solo possibilità e, dunque, l’uomo dovrebbe imparare a coglierle nella loro vera natura transeunte, rimanendo aperto all’unica possibilità che è definitiva, la morte appunto.
Il morire per l’uomo è un suo modo di essere, egli ‘è per la fine’, è orientato verso di essa nella sua stessa essenza. “L’uomo, appena nato, è già abbastanza vecchio per morire”.
Tutto questo consentirebbe di cercare di vivere appieno la vita, ma non autorizza a fare alcuna ipotesi, né a formulare teorie sulla “immortalità” dell’uomo.
La risposta laica alla paura della morte, sembra essere la sua esorcizzazione tramite il vivere intensamente i piaceri, gli affetti, i desideri ed il cercare il più possibile di realizzarli. Esorcizzarla perché per la maggior parte degli individui la morte rappresenta un evento che si tenta di fuggire, vivendo il più intensamente possibile il tempo presente e proiettandosi in quello futuro, con tanti progetti da realizzare.
In realtà, più l’uomo corre per sfuggire alla morte, più le va incontro: ad ogni attimo della vita, ricorda Scheler, lo spazio del tempo passato si dilata, quello del presente si comprime e quello del futuro diminuisce: la morte viene incontro al nostro presente.
Allora la nostra unica immortalità potrebbe stare nel ricordo di chi ci ha amato.
(Pubblicato anche sul mio blog http://www.annamariapacilli.it)