Aggiornato al 02/12/2024

Non sono d’accordo con quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo

Voltaire

Jonathan West (Contemporaneo - Baltimore) – Earthquake – Acrylic on canvas

 

Tutto cade: se si potesse tenersi in equilibrio nella fragile contemporaneità

di Anna Maria Pacilli

 

Di solito non scrivo necessariamente su argomenti di attualità, ma scrivo di ciò che mi interessa approfondire o che mi colpisce tanto da essere per me uno spunto di riflessione. Ovvio, non è un caso che oggi scriva del terremoto che ha colpito (e purtroppo sta continuando a colpire)  le regioni italiane del centro-sud, ma perché questo degli ultimi giorni, come altri dolorosamente già accaduti in passato, più o meno vicini a noi, mi ha fatto venire in mente delle ipotesi di fragilità più profonde. Il 23 novembre 1980 avevo molti anni in meno e molte speranze in più. Ero a casa della mia madrina di battesimo, un antico palazzo nobiliare, al primo piano e quel terribile terremoto dell’Irpinia lì, per fortuna, lo avvertimmo poco. Eppure c’era molta paura, un fuggi fuggi generale. Mia madre che ricordo sempre molto sicura di sé, ebbene anche lei ebbe attimi di cedimento. Papà, invece, era rimasto a casa con la mia tata Graziella, al quinto piano. Lì il sisma si avvertì molto di più, chi vide il nostro condominio dall’esterno, disse che oscillava sulle sue fondamenta. Ecco, una prima riflessione che mi venne in mente, già da allora, era il senso di precarietà dell’esistenza e dell’inevitabilità di certi eventi naturali.

Non potevamo fare nulla, se non complicare le cose fuggendo in modo confuso e disorganizzato.
Utilizzo la metafora del terremoto, che poi tanto metafora non è, per indicare il crollo dell’ordine simbolico, politico, economico, patriarcale e per evocare il senso di precarietà estrema che ne deriva. Il crollo dell’ordine delle cose è un evento umano, pure a prescindere dalla volontà dei singoli.
 Il crollo è simile al concetto di “crisi” in Medicina ed in Psichiatria, dove siamo soliti pensarla come un evento negativo.

Ma crisi può essere anche rottura di un equilibrio preesistente e forse mal tenuto, a favore del raggiungimento di un nuovo equilibrio, forse più duraturo, ma che, comunque, il più delle volte non può prescindere da una distruzione che permetta di venire più in contatto con le nostre radici. E’ difficile ravvisare questo nel crollo causato dal terremoto. Il terremoto, che ci scuote materialmente nelle nostre fondamenta reali, provoca, in realtà, uno scuotimento più radicale nelle radici del nostro essere, nella nostra stessa essenza, quella più intima e ci mette al cospetto della fragilità della nostra identità. Quella per la quale nessuno può fare nulla. Quella che, forse, avevamo sempre avuto paura di toccare, perché sapevamo in bilico. Una scelta rivelatasi sbagliata, ma nell’attimo esattamente successivo a quello in cui era stata compiuta, sapere di non poter tornare indietro, l’incertezza del domani...tutto distrutto.

Tutto deve ricominciare a partire dalle nostre macerie, quelle che investono il nostro Sé ma anche le relazioni con gli altri.
 In questo senso è pure difficile pensare che un cambiamento così radicale apra spazi nuovi, che la possibilità che mondi nuovi si schiudano, e relazioni si intreccino. La ‘precarietà’ legata all’esperienza del crollo presenta elementi creativi, positivi: permette alle identità di riformularsi e rimanda alla fragilità del Sé e delle sue relazioni. Non c’è niente di dato una volta per tutte. C’è ciò che sta lì e per questo lo diamo per scontato salvo poi accorgerci che scontato non è. Le perdite e i lutti costellano le nostre vite esattamente come le gioie e i guadagni.

Un crollo rappresenta dunque sempre un trauma, una ferita e dalla sventura (S. Weil,  Reflexions sur la guerre,  in La Critique sociale n. 10, novembre 1933),  che ne consegue, può darsi un nuovo avvio, ma, intanto, il crollo, si presenta all’improvviso, proponendo una situazione di pericolo estremo: non è detto che si sia capaci di trasformarsi, di ritrovarsi in forme nuove, in relazioni diverse, ci si può anche perdere senza più ritrovarsi.
 Il crollo è intanto paura e macerie e noi per ora ci troviamo nel momento della caduta, ancora non si capisce cosa verrà dopo la polvere, ancora non sappiamo se sapremo cogliere una apertura. Intanto si fa un gran parlare del sentimento della precarietà come di un sentimento diffuso, comune soprattutto alle nuove generazioni.

La precarietà viene oggi molto spesso ricondotta ad un fattore economico da cui deriverebbe il senso di incertezza che pervade tutte le altre sfere dell’esistenza. Ma la precarietà diventa una condizione dell’anima e non più solo un sentimento legato a condizioni materiali e lavorative. Il termine “precarietà” viene da prex, preghiera, e vuol dire ottenuto per concessione altrui, che non dura sempre, ma quanto vuole chi la concede. Indica, dunque ciò che ha poca durata, è instabile, temporaneo.
La precarietà (riferita spesso all’esistenza, si parla di precarietà, fragilità dell’esistenza) è un concetto di lunga tradizione filosofica ma anche religiosa, ed è stato utilizzato spesso per caratterizzare la dimensione fragile e transeunte dell’umanità, la sua dipendenza da una dimensione ulteriore, spiegabile o inspiegabile, definibile o indefinibile.

L’ordine simbolico, oggi diventato per lo più ordine economico, serviva proprio a dare struttura alle paure e alle ansie di un’umanità incapace di dare forme e contenimenti alla infinita possibilità di cambiamento che investe l’essere umano. Da questo punto di vista, potremo gioire della caduta di queste barriere consolidate solo se saremo capaci di definire nuovi confini, nuove forme, non precedentemente date, ma da noi oggi stabilite.
Più che una stanza tutta per sé, com'era una volta nelle famiglie numerose, sembra mancare oggi un tempo tutto per sé, dove per sé si intende quello spazio della singolarità che può essere attraversato dall’impersonale. Sembra di non avere più di tempo per poter fare ciò che c’è da fare, come se esso si consumasse più in fretta nel vortice della fragilità del Sè e delle relazioni.


Si dovrebbe allora cercare di partire dal vuoto, dalla mancanza, dal dolore, dal senso di disorientamento che si prova davanti a una vita non avvertita come propria e come autentica. Occorrerebbe avere la capacità di fermarsi, per poi ripartire da una ricerca più felice di tempo per sé e per le relazioni con gli altri. Quindi, mi viene da dire, forse, per desiderare, ancora una volta, l’impossibile.

Pubblicato anche su www.annamariapacilli.it

Inserito il:30/08/2016 15:34:21
Ultimo aggiornamento:30/08/2016 15:42:09
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