Quando l’attualità provoca i ricordi.
Il dibattito sui migranti, sulla gente che abbandona il posto dove è nata e vive, spesso la famiglia, la casa, tutto e va alla ricerca della felicità come dice il Papa, alla ricerca di una vita normale, di un posto dove si può vivere senza morire per la fame, la paura e la violenza, provoca in tanti ricordi e pensieri che si incrociano e magari riposti in un angolo della memoria un po’ dimenticati.
Ricordo i miei studi universitari fatti con grande sacrificio della mia famiglia, un padre che doveva mantenere moglie e quattro figli con uno stipendio di sottufficiale della guardia di finanza. Ricordo i miei sogni di quando volevo fare l’avvocato, mi impegnavo a studiare per laurearmi senza perdere una sessione, una materia, andavo in tribunale a vedere i grandi avvocati che venivano a Palermo nei grandi processi penali di quegli anni. Cercavo una soluzione, leggevo i libri di politica di Comunità, facevo politica universitaria nell’UGI, mi appassionavo al nuovo (erano gli anni 50) come la musica che arrivava dall’America insieme alla letteratura, leggevo e vivevo in una splendida città come Palermo piena di sentimenti, di passioni, di storia, di bellezza adagiata su un mare splendido, verde come la speranza di una vita piena di sfide e di contenuti.
Volevo fare l’avvocato ma non l’ho fatto perché per farlo, se non sei figlio di avvocato o nipote di avvocato, devi vivere anni con i danari della tua famiglia e piano piano costruire la tua professione. Forse oggi è diverso, ma non tanto. Entrare nella professione lo fai se già ci sei dentro per motivi familiari o perché qualcuno ti conduce per mano, altrimenti è quasi impossibile!
Dovevo lavorare, non potevo campare ancora a carico della mia famiglia che faticava per tirare avanti con dignità. E allora ho cercato lavoro e fortunatamente l’ho trovato, forse perché i tempi erano migliori di quelli di oggi o perché sono stato fortunato. Ho trovato lavoro alla Olivetti che non conoscevo, ma sapevo di Adriano Olivetti, di Comunità, leggevo i suoi libri che ci regalavano come associazione studentesca e poi tra di noi giovani di allora discutevamo di questo approccio di Adriano che tendeva a legare la fabbrica con il territorio, il futuro con il passato, era affascinante, soprattutto per un giovane che sognava un mondo migliore, riscattato dalla guerra che ancora si sentiva incombente anche se l’aria profumava di libertà.
Ho trovato lavoro ma in continente, al nord, dovevo lasciare famiglia, casa, amici, ambiente. Avevo poco più che vent’anni, era un’altra epoca, la televisione c’era da poco, il lavoro si sapeva che bisognava prenderlo dove c’era, ma che non arrivava dove eri tu.
Sono partito un giorno con la Freccia del Sud per Milano (23 ore), la mia famiglia che mi salutava sul marciapiede della stazione, la valigia di pezza in cui avevo messo tutte le mie cose, tutto quello che avevo, la paura di dove andavo e cosa facevo, il cappotto nuovo comprato da Marzotto (il primo della mia vita), l’animo pieno di speranza e di rimpianti. Un viaggio brutto fatto senza toccare cibo (dalla gola non passava niente), piangendo, senza parlare con nessuno, cercando di sognare e di immaginare il futuro per compensare il presente.
E poi Milano, dove cercare un letto, la nebbia, la gente. Una città senza cielo, un odore nell’aria tra la gomma bruciata e un bollito di carne, la paura di farmi riconoscere come un estraneo, un provinciale, un terrone come dicevano.
Oggi ripenso alla gente che lascia il proprio paese su una barca sfidando la morte e non faccio paragoni perché mi sento un privilegiato. Ma un po’ capisco, ricordo il vuoto che si sente dentro, la paura del futuro, il dramma che si vive.
Ora tutto questo, se non lo si è in qualche modo provato, anche se in modo molto ma molto parziale, non lo si può capire, capisco chi non lo può capire. È una terribile, una grande disperazione. Ancora oggi a distanza di tanti anni e dopo essermi inserito in questa città (Milano), in questo ambiente, aver messo su famiglia, avere qua amici, ricordi e affetti, non riesco a dimenticare. Quei giorni sono nella mia memoria impressi come il fuoco e hanno condizionato tutta la mia vita in modo cosciente e incosciente.
Perché racconto questo? Non lo so, ma per giustificare me stesso perché quando vedo la televisione che racconta dei migranti e fa vedere quelle terribili scene e mi vengono le lacrime agli occhi. E perchè in qualche modo riesco a capire (anche se con dolore) coloro che disprezzano alcuni imbonitori che pontificano su questo dramma umano come fosse una partita di calcio per conquistare due seggi in più in qualche consiglio comunale.