La comunicazione virtuale nel mondo adolescenziale: riflessioni cliniche.
Le modalità di trasmissione della cultura hanno subìto molte e, per certi versi imprevedibili, trasformazioni.
Da un tipo di cultura orale primitiva, in cui ciò che si riteneva importante tramandare, lo si faceva tramite la parola, si è via via passati a forme più evolute, come quella della parola scritta, fino alla stampa, alla cultura televisiva e, ancor più recentemente, divulgata tramite Internet.
Se, però, la tendenza della “parola” era ad aggregare le persone, oggigiorno è l’individualismo a farla da padrone: appare difficile ritrovare nelle espressioni più moderne, il “com-unicare”, ossia una cultura da condividere.
La divulgazione della cultura tramite la TV ha visto il passaggio progressivo da una visione comunitaria (nei bar), ad una visione più ristretta alla cerchia familiare, fino ad una mancata “con-divisione” nell’ambito di una stessa famiglia dello stesso apparecchio televisivo.
Tutto questo ha portato a grosse trasformazioni nel modo di gestire le proprie emozioni nell’ambito della famiglia e, soprattutto, (ma non solo) dei componenti più giovani di essa.
L’adolescenza, infatti, è una periodo di vera “metamorfosi”, un momento evolutivo delicato nella storia personale, in quanto si pone a cavallo tra passato e futuro, tra il mondo ludico, fantasmatico, idilliaco, interno al nucleo familiare, quello infantile, e il mondo insidioso, razionale, concreto, autonomo ed inserito in un contesto sociale spesso frustrante, quello adulto.
L’adolescente è quindi chiamato a confrontarsi con una nuova realtà insidiosa ed impervia, la quale costituisce il banco di prova per l’accesso alla vita adulta.
Se, da un lato, a partire dagli studi di A. Freud e di M. Klein, agli inizi del ventesimo secolo, l’adolescenza ha cominciato ad acquisire una sua precisa collocazione nel processo evolutivo, fino a posizioni più recenti che tendono ad attribuire al periodo adolescenziale un carattere di autonomia nel senso di una fase maturativa specifica dotata di movimenti psicologici e psicodinamici propri.
Nelle società moderne il passaggio tra infanzia e adolescenza avviene quasi inavvertitamente, attraverso tappe vissute come rituali interiori, che consentono al giovane pubere di consolidare le ambizioni, superare le angosce, proseguire le certezze e maturare la personalità.
L’adolescente, inserito nel contesto sociale, trae dall’ambiente i propri insegnamenti, accostandosi alla vita adulta per imitazione ed identificazione.
Il complesso mondo adolescenziale è permeato da contraddizioni che esprimono la presenza del binomio dipendenza-autonomia: l’adolescente alla ricerca di se stesso vive le esperienze autonome al di fuori della famiglia, tuttavia trae proprio dall’appoggio dei genitori buona parte della spinta alla conquista della propria affermazione.
La presenza della famiglia, pertanto, riveste un’importanza strategica, poiché si configura come veicolo di comunicazione e di guida; insostituibile nell’infanzia, il suo ruolo di protezione e di argine diventa essenziale anche in adolescenza.
L’adolescenza è anche il momento in cui la ricerca di autonomia fa sorgere il bisogno di nuovi investimenti oggettuali da sostituire al legame infantile con le figure parentali (secondo Winnicott D (1)“una madre sufficientemente buona” che soddisfi il bisogno di “stare soli in presenza di un altro” per cui se alla madre appartiene “la stabilità della casa”, al padre appartiene “la vivacità della strada”.); è in questo periodo che il “gruppo” diventa predominante: i coetanei sono la colonna portante della maturazione adolescenziale.
Il ragazzo evade dall’ambiente familiare cercando la spinta negli amici, con i quali condivide gioie e amarezze. Le esperienze così si arricchiscono di un’impronta esteriore più o meno solida, ma essenziale ai fini della separazione dai genitori. Il gruppo fornisce quel sostegno interiore che nell’infanzia è garantito dalla famiglia, e diventa l’istituzione in seno alla quale l’adolescente esperisce le sensazioni, elabora le angosce e condivide le nuove emozioni.
Il gruppo aiuta anche a conoscersi, a capirsi, a definire i confini ed a solidificare la personalità. Esso, inoltre, si presenta come strumento di complicità che consente di sognare ad occhi aperti e di trasgredire; dà spazio alle esternazioni, elabora le proiezioni, ma soprattutto è un’occasione di conoscenza e di scoperta della sessualità, un laboratorio dei sentimenti nel quale l’adolescente impara a vivere le sue emergenze pulsionali.
La vita dei coetanei si plasma su quella del gruppo, ne cattura le mode e gli ideali; nel gruppo gli adolescenti trovano intesa di opinione e di azione, scoprono la possibilità e la forza di inserirsi, per poi emergere, nella società la quale vigila sui giovani e propone continuamente modelli e stili di vita che guidano ed uniformano le masse.
Ma anche se fa parte di un gruppo, spesso l’adolescente si sente da solo.
Mancando un’autentica percezione del futuro, non esiste nemmeno la possibilità di immaginare un tempo in cui le condizioni potranno essere diverse. La percezione del futuro, infatti, è un’altra importante variante nell’attuale mondo giovanile. Gli adolescenti di oggi vivono l’iperconcreto, l’”hic et nunc”:la loro prospettiva potrà estendersi, semmai, al prossimo weekend, al massimo alle prossime vacanze. La percezione del futuro si è ulteriormente ridotta e con il futuro è sparita un’altra dimensione, quella della morte. La morte per il giovane è prevalentemente quella cui può assistere in televisione: una morte senza agonia, senza dolore; una morte persino transitoria, come quella di un attore che viene ucciso in un film ma poi si può rivedere su un altro canale. Alcuni comportamenti dei giovani, violenti, spesso spettacolari, seguono in realtà, la percezione di questa morte televisiva, non quella esistenziale. D’altra parte, è difficile, senza percezione del futuro, aderire ad un’idea di morte, che presuppone, pur sempre, una proiezione in una dimensione temporale remota. Ed ecco come la violenza, rispetto a qualche generazione fa, diventa una violenza-limite: proprio perché è cambiata la percezione della morte.
Se è vero che tutta la storia umana è intrisa di violenza è anche vero che oggi sono disponibili strumenti di condizionamento sociale, particolarmente diffusi ed efficaci, che favoriscono la costituzione di personalità violente. Il modello di vita dominante nella nostra società è di tipo competitivo, e trova in questi strumenti un facile percorso per la sua realizzazione.
Innumerevoli ricerche, per esempio, hanno messo in evidenza il rapporto causale che c’è fra televisione e violenza (films, servizi giornalistici, perfino cartoni animati).
I bambini passano diverse ore ogni giorno davanti al televisore, spesso non guidati dagli adulti nella scelta dei programmi per loro più adatti, e lasciati da soli dinnanzi alle immagini violente, non commentandole con loro, anche perché le città offrono loro ben poco spazio per attività alternative che potrebbero favorire una loro positiva socializzazione. Inoltre attività come il disegno, la lettura o semplicemente il parlare con qualcuno diventano meno frequenti, anche perché i bambini in questo come in altri campi imitano gli adulti, i quali dedicano sempre meno tempo ad attività creative e comunicative e diventano sempre più teledipendenti.
Un altro grosso rischio connesso con il passare molto tempo dinnanzi alla TV è il soprappeso e l’obesità, perché accade che il ragazzo continui a mangiucchiare, introducendo molte calorie vuote che nella sedentarietà di una poltrona non vengono smaltite(2).
Non vi sono dubbi sul fatto che l’uso smodato, sia relativamente al tempo che alla modalità, dei videogiochi, possa provocare disturbi anche gravi della personalità del ragazzo, nuocendo alla sua salute psico-fisica: l’apprendimento, la socializzazione e i diversi atteggiamenti nei confronti dei coetanei vengono profondamente influenzati dai mezzi tecnologici.
Una ricerca pubblicata sul “Journal of Personality and Social Psychology” (3), ha messo in evidenza la pericolosità dell’impatto dei videogiochi sui comportamenti aggressivi, violenti o antisociali dei bambini e degli adolescenti.
Utilizzando scale di valutazione psicometria dell’aggressività, un gruppo di ricercatori ha valutato la personalità di circa 200 ragazzi e li ha poi sottoposti ad una seduta con videogiochi ad elevato contenuto violento. Dopo il gioco il test è stato ripetuto: si è rilevato un incremento dell’aggressività, sia pensata che tradotta in parole ed espressa da agitazione psicomotoria. I soggetti di sesso maschile sono apparsi maggiormente influenzabili rispetto alle ragazze. Gli stessi sono stati quindi suddivisi, sulla base della prima valutazione della loro personalità, in tre gruppi: a bassa, a media e ad elevata tendenza aggressiva.
Ad ognuno degli appartenenti ai diversi gruppi è stato chiesto di elencare i 7 videogiochi preferiti. La relazione tra l’utilizzo dei giochi più violenti e le personalità più aggressive è risultata statisticamente significativa.
Inoltre, secondo una ricerca di Chau A. W. e coll (4) l’80% dei videogiochi è improntato alla violenza e il 21% di essi rappresenta scene di aggressione compiute contro il sesso femminile. Tale ricerca ha messo in luce che il videogioco violento sarebbe molto più dannoso di uno spettacolo televisivo, in quanto nel corso del gioco, il bambino viene indotto ad identificarsi con l’aggressore, di cui controlla l’azione e assume il “carattere”. Ciò lo induce a guardare il mondo con l’occhio del personaggio che sta interpretando. Inoltre l’interattività del mezzo implica la scelta di aggredire e di agire consapevolmente in maniera aggressiva, mentre la violenza televisiva viene vissuta passivamente.
Mentre, dunque, per la TV l’approccio comunicativo si ferma alla ricezione del messaggio, non mettendo in gioco i propri investimenti personali, nel “cyberspazio” si acquista un elemento ulteriore che è quello della partecipazione, in cui l’individuo investe parte di sé, mettendo in gioco la propria sfera emotiva e assuefacendosi ad una forma di “dipendenza” che può indurre a ripetere gli stessi schemi violenti anche nella vita quotidiana.
L’espressione “Internet Addiction Disorder” (I.D.A.) viene introdotta nel 1995 da uno psichiatra americano, Ivan Goldberg(5) che assimilava l’Addiction alle dipendenze patologiche, ossia alle ricerche reiterate di una forma di piacere.
Infatti, pur non essendo implicata l’assunzione di sostanze chimiche, una o più attività lecite e socialmente riconosciute, come lo shopping, il gioco d’azzardo, l’utilizzo di internet, il lavoro, il sesso, le relazioni sentimentali, considerati normali abitudini della vita quotidiana, possono diventare, per alcuni individui, delle vere e proprie dipendenze, che, con un analogo “craving”, sconvolgono ed invalidano l’esistenza del soggetto e il suo sistema di relazioni.
Spesso le “New Addiction” si combinano tra loro, o si accompagnano alle dipendenze da sostanze; molto frequente è, per esempio, l’associazione di Gioco d’Azzardo Patologico e Dipendenza dall’Alcool(6). Si riscontrano, altresì, passaggi da una dipendenza ad un’altra, la quale diventa sostitutiva di quella precedente, secondo un meccanismo di spostamento dell’oggetto della propria dipendenza (7).
La “dipendenza” è un fenomeno estremamente complesso, che racchiude una molteplicità di aspetti, riguardanti il comportamento dell’individuo, il vissuto, i significati psicologici e le conseguenze che derivano da tale esperienza.
Alcuni autori(8,9) hanno focalizzato la loro attenzione sulla relazione che si instaura tra il soggetto e l’oggetto, non individuando nel tipo di sostanza o di attività la causa della dipendenza, ma nell’interazione tra soggetto, oggetto e contesto (“la dipendenza è ciò che risulta dall’incrocio tra il potere che la sostanza ha in potenza e il potere che quella persona è disposta ad attribuire alla sostanza…è la convinzione individuale di aver trovato in un posto e solo in quel posto la risposta fondamentale a propri bisogni e desideri essenziali: che non è possibile soddisfare altrimenti8).
Alcuni autori (10) si riferiscono alle dipendenze comportamentali parlando di compulsioni o di disturbi appartenenti allo spettro ossessivo-compulsivo, anche se appare importante precisare l’egosintonia del comportamento proprio della dipendenza e l’egodistonia della compulsione e dell’ossessione.
K.S. Young (11) è stata una delle prime autrici a studiare il fenomeno dell’abuso di internet, conducendo nel 1996 una ricerca on-line, allo scopo di valutare l’esistenza di una dipendenza dalla rete. Dalla ricerca risulta un confronto tra 396 soggetti dipendenti e 100 non dipendenti: i primi, ad esempio, spendono otto volte di più delle ore a settimana spese dai non dipendenti. I primi, inoltre, tendono ad incrementare progressivamente il tempo di collegamento, al contrario dei secondi. L’autrice ipotizza che questi risultati potrebbero essere interpretati come un indicatore della tolleranza che si sviluppa nelle tossicodipendenze. In conclusione dalla ricerca emerge che mentre i “normali” utenti vedono internet come una risorsa, non riportando interferenze nella vita quotidiana, i soggetti dipendenti ne subiscono da problemi, concernenti sia la sfera somatica che quella psichica: disturbi del sonno, indebolimento del sistema immunitario, irregolarità dei pasti, scarsa cura del corpo e dell’attività fisica, sindrome del tunnel carpale, problemi visivi.
In Italia si è cominciato a parlare di dipendenza da Internet nel 1997, quando è stata introdotta l’espressione, mutuata dalla letteratura internazionale, “Internet Related Psychopathology”.
Per la prima volta, il DSM-5 (l’ultima edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali) (12), comprende, insieme ai disturbi da uso di sostanze, anche il disturbo da gioco d’azzardo che non è correlato all’uso di una sostanza. La task force e i gruppi di lavoro del DSM-5 hanno stabilito che ad oggi, non esisteva evidenza sufficiente per giustificare l’inclusione dell’I.D.A nella categoria diagnostica delle dipendenze da non sostanze.
Sono stati però proposti, nella sezione 3, riservata alle condizioni che richiedono ulteriori ricerche prima di essere formalmente considerate disturbi, i criteri diagnostici per il disturbo da gioco su internet.
Le attività svolta in rete variano da sesso virtuale a relazioni virtuali, gioco online (d’azzardo e non), ed è diffusa non solo tra le nuove generazioni, ma in grande misura anche tra adulti ed anziani (sarà oggetto, quest’ultimo, di un mio intervento ad un convegno organizzato per l’Ottobre prossimo, dalla Scuola Superiore di Sessuologia di Torino, la Coppia over 65). Il rischio è quello di affrontare tutte le relazioni interpersonali in modo surreale e che il suo sovra-utilizzo per la gestione delle relazioni e delle proprie emozioni, si tramuti in una vera e propria dipendenza. La maggior parte del tempo e delle energie vengono spesi nell’utilizzo della rete, e ciò crea, com’è ovvio, importanti modificazioni in senso peggiorativo, nelle principali e fondamentali aree esistenziali, quella personale, relazionale, scolastica, familiare, affettiva. Esattamente come accade nelle dipendenze da alcol o sostanze, si può avere comparsa di tolleranza, craving e assuefazione.
Sono distinti cinque tipi di dipendenza (Presidenza del Consiglio dei Ministri. Dipartimento Politiche Antidroga, 2014) (13):
- Dipendenza dalle relazioni virtuali (Cyber-Relational Addiction), caratterizzata da un’eccessiva tendenza ad instaurare rapporti d’amicizia o amorosi con persone conosciute in rete principalmente via chat, forum o social networks. Le relazioni online diventano rapidamente più importanti dei rapporti nella realtà con la famiglia e con gli amici reali.
- Sovraccarico cognitivo (Information Overload), caratterizzato da una ricerca ossessiva di informazioni sul web: gli individui trascorrono sempre maggiori quantità di tempo nella ricerca e nell’organizzazione dei dati in rete.
- Dipendenza dal sesso virtuale (Cybersexual Addiction), nella quale si individua un uso compulsivo di siti dedicati alla pornografia e al sesso virtuale. Gli individui sono di solito dediti allo scaricamento e all’utilizzo di materiale pornografico online, sono coinvolti in chat per soli adulti e possono manifestare masturbazione compulsiva.
- Gioco Offline (Computer Addiction), caratterizzato dalla tendenza al coinvolgimento eccessivo in giochi virtuali che non prevedono l’interazione tra più giocatori e non sono giocati in rete.
- Gioco Online (Net Compulsion), nel quale si evidenziano coinvolgimento eccessivo e comportamenti compulsivi collegati a varie attività online quali il gioco d’azzardo, lo shopping compulsivo, i giochi di ruolo.
Questi utenti patologici di internet navigano in rete come forma di fuga dalla realtà o come forma di autocura negli stati d’umore depresso. Gli uomini, solitamente, sono “catturati” da siti a sfondo sessuale, perché più attratti da stimoli visivi e “relazioni sessuali”. Le donne, per lo più, passano il tempo a flirtare in chat, perché sono più concentrate su una “relazione affettiva”.
Non sono note le cause che determinano l’insorgenza del disturbo. Le attuali teorie neurobiologiche portano a ipotizzare l’esistenza di uno squilibrio tra il sistema della serotonina e della dopamina, mediatori fondamentali per la regolazione dei comportamenti della disinibizione comportamentale e della gratificazione. La serotonina regola prevalentemente l’inibizione comportamentale e l’aggressività, mentre la dopamina è collegata ai meccanismi di piacere/gratificazione e a quei comportamenti di attivazione della curiosità e ricerca delle novità. In questo senso, la dipendenza da internet si potrebbe spiegare come provocata da determinate reazioni emotive e forse anche mentali, che si ricavano dalle attività online. Da un punto di vista neurobiologico potrebbe non essere presente un numero adeguato di recettori dopaminergici oppure essere ipotizzabile una quantità insufficiente di serotonina/dopamina. Motivo per il quale le attività che la maggior parte delle persone trova gratificanti, non sono riconosciute come fonte di piacere, ma, per aumentare il piacere, queste persone cercano un maggior coinvolgimento per stimolare il rilascio di dopamina nel nucleo accubens del circuito della gratificazione che, con il tempo, tenderebbe a “cronicizzarsi” in un effettivo non-equilibrio, non riconosciuto dal soggetto che, invece, tende ad attribuirsi qualità fisiche e caratteriali spesso distanti da quelle reali e a sperimentare sentimenti di onnipotenza.
Del Miglio, Gamba e Cantelmi (14) hanno validato un questionario per valutare il rischio psicopatologico connesso all’abuso di internet, utilizzando degli items che seguono tre dimensioni teoriche: dipendenza, dissociazione e spazio psicologico.
Il tipo di personalità predisposto a sviluppare la dipendenza da internet è caratterizzato da tratti ossessivo-compulsivi, inibizione sociale, e per il quale il mare virtuale rappresenta un modo per naufragare lontano, pur correndo continuamente il rischio di cadere nella trappola della “rete”, da una realtà quotidiana vissuta come minacciosa e, a volte, intollerabile.
Il passo da un uso protratto ad una “dipendenza” è breve:le connessioni ad internet diventano sempre più lunghe, il ritmo sonno veglia si altera, il numero delle frequentazioni in chat aumenta, si comincia a praticare il sesso virtuale, astraendosi sempre più dalla realtà.
Molte altre forme interattive hanno contribuito a generare dipendenza, i cellulari, in cui le relazioni si instaurano (e terminano), tramite “s.m.s.”, seguendo delle modalità che non consentono, anzi tendono ad evitare accuratamente, il confronto interpersonale e un tempo “cibernetico” difforme, per certi aspetti dilatato e per altri ristretto, rispetto a quello reale.
Un tempo scandito da improvvise accelerazioni, cui fanno seguito pause seppur brevi ma vissute come insostenibili, perché non rappresentano un’occasione di riflessione, e a cui possono seguire altre accelerazioni, ritenute, invece, veri valori vitali, secondo un tempo cronologico “asincrono”, che rispecchia l’inquietudine e l’aritmicità del tempo interiore.
Nella comunicazione virtuale il suono della parola assume diverse dimensioni espressive, non più un timbro ben definito.
Il gesto del linguaggio e le sue vibrazioni corporee cedono il posto a neosimbolismi, segni grafici e volti virtuali che cercano affannosamente di esprimere delle emozioni.
Le relazioni virtuali appaiono assolutamente mentalizzate, ossia costruentisi nella mente di chi le vive, in cui si può dare il massimo sfogo alla propria fantasia ed immaginare se stessi in diverse situazioni di vita.
La comunicazione in linguaggio “irachese” avviene in uno spazio nuovo, che non ha un “dove”, ma dei “siti” in cui incontrarsi tramite “smiles”: l’elemento fondante del “cyberspazio” è la condivisione dell’informazione, in una società slegata dal contatto fisico.
Non essendo in tal modo possibile lo scambio dialogico tra gli interlocutori, si assume sempre più la tendenza ad occultare il “vero Sé”, costruendosi, fantasticamente, un “falso Sé”, che sia plasmabile in base ad ogni diverso interlocutore con cui si “chatta” (chiacchiera), e che viene ad essere idealmente completato con delle parti “aggiunte” dalla propria fantasia.
La modalità di contatto “on line” sembra fornire anche l’illusione di poter “conoscere” una persona in un tempo brevissimo: riducendo il tempo fisiologicamente necessario, si riduce anche l’incertezza e le piccole frustrazioni inevitabili nel rapporto con l’altro.
Il rapporto diventa, così, “perfetto”: si comprende l’altro e si è completamente da lui capiti, in un irreale scambio reciproco di emozioni, che avviene, come sostiene G. Favaretto (15) “in una sensazione di un clima claustrofilico di ‘allargamento’ dell’Io e della coscienza che pur nella consapevolezza di essere soli, fa percepire la posizione di chi scruta da una finestra che permette visuali ampie e orizzonti illimitati…Non c’è bisogno di carta e penna, la realizzazione dell’”intenzione” comunicativa è praticamente immediata e non prevede il tempo per accorgersi del separarsi dai propri pensieri. Il messaggio, infatti, viene inviato quasi alla stessa velocità del pensiero al punto che ‘mandare un pensiero’ non è più una metafora ma, letteralmente, quello che sembra accadere”.
E in questo nuovo ma improbabile sviluppo della vita psichica si fa fatica a ritrovare il concetto bioniano di mente come “contenitore” capace di consentire ai nostri pensieri di essere pensati.
Il modo virtuale offre e costringe ciascuno a percepire e narrare la propria esistenza attraverso molteplici possibilità e visioni: il vero e il falso presentano pericolose aree di sovrapposizione.
Allorquando, poi, si instaurino relazioni interpersonali “reali”, queste tendono comunque ad essere “fantasmatizzate” e a seguire gli stessi ritmi del tempo virtuale: improvvise accelerazioni, brevi pause…la lentezza non può avere posto in un tempo in cui si richiede (non solo agli altri, ma soprattutto a se stessi), tutto. E velocemente.
“Conseguentemente, molte delle nostre azioni, comprese quelle legate alle dinamiche relazionali, sono realizzate lasciando poco o nessuno spazio all’analisi profonda delle motivazioni e dei significati…Di fatto, in realtà, ci si abitua ad uno stile di vita dominato da un’azione continua” (16).
Come “disassuefarsi” da questa forma di dipendenza?
Sono stati proposti(17) percorsi terapeutici differenti, in relazione alle esigenze e alle predisposizioni individuali: gruppi di auto-aiuto, counselling terapeutico, psicoterapie individuali, prevalentemente di tipo cognitivo-comportamentale, che, portando alla luce le distorsioni cognitive del soggetto durante l’esposizione allo stimolo, lavora sulla ristrutturazione cognitiva, atta a suggerire cambiamenti nelle abitudini di utilizzo incontrollato della rete.
Se, come studi (18)hanno dimostrato, le dipendenze dal mondo virtuale si associano spesso ad una patologia di tipo depressivo e, in questi casi, una psicofarmacoterapia, tendente a risollevare il timismo od a stabilizzarlo, nei casi in cui si associ un disturbo di tipo bipolare, piuttosto che depressivo, migliora anche la considerazione che l’individuo ha di se stesso e il rapporto che intrattiene con il mondo esterno, d’altro canto non esiste (e non può esistere!) un farmaco che induca a “disconnettere” o, comunque, a limitare il tempo di connessione: non è pensabile somministrare un farmaco senza la creazione di un saldo rapporto terapeutico medico-paziente, in cui, come voleva Balint (19) “il primo farmaco che il medico prescrive è se stesso”.
Quindi “cercare di andare oltre il ‘sintomo’ e cercare, come in un rebus i ‘significati’ che il disagio sottende” (20).
Ma, al di là di ogni possibilità terapeutica, il futuro, tendente ad avvicinare il virtuale al reale, sarà una sfida continua per chi vive il rapporto con l’altro come un pericolo per l’integrità del Sé.
La comunicazione, definita da U. Galimberti (21), “l’assurdo gioco dell’impossibile”, in quest’ottica che tende sempre più a fuggire il confronto con l’altro, diventerà, ogni volta, un “in-contro” mancato.
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