Aggiornato al 20/04/2024

Non sono d’accordo con quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo

Voltaire
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Théodore Géricault (1791-1824) – La Demente (La folle monomane de l'Envie) - 1822

Dalla Dementia Praecox alla Schizofrenia: un problema nosografico e clinico risolto?

"Noi non siamo cartesianamente monadi senza finestre: noi siamo gettati e immersi nel mondo con le nostre speranze e le nostre disillusioni, le nostre angosce e la nostra disperazione, le nostre attese e la nostra gioia. Non c'è l’Io da una parte e il mondo delle cose e della realtà umana dall'altra: ma l’Io si riflette nel mondo e il mondo si rispecchia nell’Io in una circolarità senza fine”.

E. Borgna, 1995

 

L’evoluzione del concetto di Schizofrenia che, tradizionalmente, si fa iniziare con Morel in Francia alla metà dell’800 e proseguire con Kraepelin e Bleuler, fino ad arrivare ai giorni nostri, nonostante la mole di studi condotti e di lavori scientifici scritti sull’argomento, se, da un lato, ha consentito di fare chiarezza su alcuni aspetti nosologici della malattia (ma non su tutti), dall’altro, sembrerebbe che il dibattito sulla natura e sul disturbo fondamentale della Schizofrenia siano tutt’altro che risolti.

In realtà, prima ancora di Morel, Pinel nel 1801 diede la prima descrizione “integrata” della Schizofrenia, utilizzando il termine “demencé” (deterioramento mentale), per caratterizzare la perdita delle facoltà mentali in un disturbo di tipo cronico in un gruppo di pazienti ricoverati. Il termine “demencé” è stato in uso nella letteratura francese fino al 1809, quando John Haslam descrisse molte delle caratteristiche della schizofrenia, ricavandole da altri autori successivi.

George Man Burrows (1828) sostenne che la demenza poteva alternarsi con la mania o la “melancolia”.

Millingen (1847) mise in evidenza che la Schizofrenia diventa manifesta dopo l’età pubere. Wilhelm Griesinger (1845) utilizzò il termine “demenza paralitica” per descrivere la Schizofrenia, ritenendo che ciò fosse dovuto ad alterazioni strutturali del cervello. Distinse, inoltre, quelle forme che avevano una prognosi favorevole da quelle che, invece, erano destinate al deterioramento in una forma di “apatia”, che si rifaceva alla Schizofrenia di I e II Tipo di Crow.

Crow, infatti, aveva introdotto il concetto di Schizofrenia di tipo I e tipo II: caratteri distintivi del tipo I sarebbero la presenza di deliri, allucinazioni, disturbi formali del pensiero, il decorso acuto, la buona risposta ai neurolettici, la prognosi spesso favorevole, l’assenza di compromissione intellettiva, la patogenesi collegabile ad una alterazione dei sistemi dopaminergici; il tipo II sarebbe invece contraddistinto dall'impoverimento affettivo, dalla povertà dell'eloquio, dalla perdita della iniziativa, dal decorso cronico, dalla scarsa risposta ai neurolettici, dalla prognosi quasi costantemente negativa, da una frequente presenza di deficit intellettivo, da una probabile patogenesi legata a perdita cellulare e cambiamenti strutturali nel cervello.

I tratti caratteristici del disturbo furono evidenziati, comunque, da Morel che coniò il termine francese “demencé precocé” nel 1852, per descrivere pazienti giovani che erano affetti da una forma prematura di demenza. Rimane caratteristica la sua descrizione di un ragazzo di 14 anni, le cui facoltà intellettuali subirono un arresto e il quadro clinico si caratterizzava per una specie di torpore, “ebetudine”, letargia, compromissione anche fisica, oltre che cognitiva, e considerato un caso senza speranza. Questa forma di demenza era distinguibile dalla “demencé senilis”: dunque veniva utilizzato come metodo classificatorio, il decorso della malattia.

Lo schema seguente tenta di dare una visualizzazione, nosografica e storica riassuntiva.

 

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Il merito principale di aver "costruito" la nosografia della Schizofrenia è da attribuire a E. Kraepelin (1891), la cui classificazione della malattia prevedeva una netta distinzione tra due grandi gruppi: la Dementia Praecox e la Psicosi maniaco-depressiva.

Anche in questo caso l’accento viene posto sul decorso della malattia: la diagnosi di Dementia Praecox contiene già in sé elementi utili per la prognosi. Caratteristici sono la perdita dell’unità del pensiero, del sentire e dell’agire, l’”appassimento”  dei sentimenti più elevati, i disturbi della volontà, i deliri di perdita della libertà psichica, e di influenzamento fino alla disintegrazione della personalità. Le capacità più semplici resterebbero, invece, relativamente integre. In ogni caso, comunque, il “destino”, l’esito finale, irreversibile, sarebbe Defekt o Verblödung.

Solo molti anni dopo Kraepelin riconobbe che tale suddivisione basata sul decorso e sull’esito finale, caratterizzato da ottusità, perdita della risonanza affettiva, manierismo, stereotipie, negativismo, alterazioni percettive, non era così completamente sostenibile, in quanto questa non era in realtà la forma più frequente.

Sarà K. Jaspers con la sua Psicopatologia Generale del 1913, ad evidenziare che lo stesso esito non può costituire una prova per l’identità della malattia, minando tutta la costruzione kraepeliniana della Schizofrenia.

M. Bleuler studiò nel 1972 (Dementia praecox oder Gruppe der Schizophrenien) il decorso e gli esiti della Schizofrenia, introducendo il concetto di Endzustand (condizione di uscita) uno stadio cui peraltro giungono, a suo avviso, il 60-75% degli schizofrenici dopo 10-15 anni di malattia e che non è tout-court identificabile con il Defekt, ma può corrispondere anche ad una guarigione (più o meno completa) o ad una psicosi di varia gravità. Non è possibile, secondo lo studioso, che cerca di dare un senso psicopatologico ai sintomi, ipotizzare, qualcosa di definitivo o immutabile, poiché egli riteneva che "lo schizofrenico, come ogni uomo, si sviluppa e cambia fino alla morte".

L’idea che ispira Bleuler è introdurre uno scarto tra le manifestazioni primarie del processo morboso e i sintomi conclamati: in tale scarto troviamo di nuovo al lavoro il soggetto.

La distinzione tra sintomi primari (diretta espressione del processo schizofrenico) e secondari (tentativi di adattamento alle modificazioni del campo esperienziale dovute ai sintomi primari) rappresenta non solo "una delle idee più feconde della psicopatologia", come scrive Weitbrecht (1963), ma una di quelle idee in assenza delle quali non si dà la psicopatologia stessa" (Stanghellini, 1997).

Tra i sintomi primari Bleuler indica la perdita dei nessi associativi o dissociazione; il nome stesso di Schizofrenia si basa su questo concetto (schizein = tagliare, frén = mente).

Nel 1912, Philippe Chaslin aveva descritto il gruppo delle "folies discordantes", caratterizzate proprio dal sintomo della “discordance”, di cui egli parla riferendosi "a due livelli diversi: il primo livello è l’assenza di accordo tra emozioni e idee (la dissociazione ideo-affettiva di Bleuler), il secondo invece caratterizzato da un discorso formalmente corretto ma che non rinvia ad alcun significato". (Alessandrini, 2004).

Tale concetto di scissione, dopo Bleuler, è stato studiato soprattutto da Autori di ispirazione psicodinamica. In realtà l’uso del termine “scissione” in chiave psicoanalitica (soprattutto kleiniana) si discosta di molto dalla concezione bleuleriana, basata sulla psicopatologia; la psicoanalisi kleiniana infatti distingue tra scissione dell’oggetto dell’Io e tra oggetto buono e cattivo e frammentazione (come si nota appunto nella Schizofrenia).

Freud, dal canto suo, non si occupò principalmente delle psicosi, ma sostenne che condividevano con le nevrosi funzioni e meccanismi fondamentali. La psicosi allucinatoria è originata da idee intollerabili che, rifiutate dall’Io, riemergono tendendo al soddisfacimento “allucinatorio” del desiderio.
Freud sosteneva che per i nevrotici il meccanismo difensivo centrale fosse la "rimozione”, cioè la repulsione da parte dell’Io o del Super-Io di rappresentazioni incompatibili con le proprie esigenze. Mentre per le psicosi introdusse, nel 1896, il meccanismo della “proiezione” intesa come misconoscimento della realtà interna, operazione attraverso cui il soggetto localizza fuori di sé, in persone o cose, ciò che rifiuta o non riconosce come proprio.
Freud considerò la Schizofrenia come un cambiamento della relazione che il paziente aveva con persone e oggetti del suo ambiente.

Un altro concetto fondamentale in chiave psicopatologica della Schizofrenia, è l’Autismo. Per Bleuler "Chiamiamo autismo il distacco dalla realtà e la predominanza della vita interiore. (…) La vita interiore assume una preponderanza patologica". Egli lo considerò “sintomo fondamentale” della malattia.

L’autismo schizofrenico è, da un lato, "la diretta conseguenza della scissione schizofrenica della psiche”, dall’altro "è l’esasperazione di un fenomeno fisiologico: esiste un pensiero autistico normale che non tiene in nessun conto la realtà".

Per Minkowski (1927), invece, l’autismo sarebbe il disturbo generatore dell’esistenza schizofrenica, e non un semplice "sintomo" della schizofrenia, per fondamentale che possa essere considerato, interessando più che l’una o l’altra funzione psichica, lo “spazio interstiziale” tra le funzioni, cioè la loro coesione.

Ecco che Minkowski delinea il concetto di "contatto vitale con la realtà", ossia la sintonia, la compartecipazione che possiamo (e dobbiamo) avere con gli altri, senza venirne invasi o distrutti, e che sarebbe sostituita patologicamente nello Schizofrenico dalla schizoidia, in cui il contatto con gli altri non è più vitale, ma diventa “mortifero”: l’altro ci invade, non riusciamo a mantenere una giusta distanza emotiva. Fino al concetto di Binswanger (1927) di "autismo non come ritiro dal mondo e ripiegamento in se stessi, ma soggiogamento del sé da parte del mondo, debolezza dell’esistenza". Binswanger, originale fenomenologo, non pose più in primo piano la distinzione tra sano e malato, ma la preoccupazione di cogliere, anche nel malato, la modalità con cui si declina e si temporalizza il suo essere-nel-mondo.

W. Blankeburg (1971), allievo di Binswanger, coglie la dimensione nucleare del disturbo schizofrenico, che egli individua nella “perdita dell’evidenza naturale”, descritta attraverso le parole di una sua paziente: "Che cosa mi manca davvero? Qualche cosa di Piccolo, di strano, qualche cosa di Importante, di indispensabile per vivere. A casa, da mia madre, umanamente non c'ero. Non ero all'altezza. Mi limitavo a stare lì, stavo semplicemente in quel posto, ma senza essere presente. Ho bisogno di una relazione che mi guidi - quando non ho più nozioni sufficienti non ci riesco..., per esempio una relazione con una famiglia, con una donna.

Ho bisogno di un legame che mi guidi, senza che tutto [sia] artificiale... adesso devo sempre stare attenta a non perdere tutto... L'esistenza è avere fiducia nel suo modo di essere che stimola, cosi che io possa accettare... dovrei anche essere più legata e più impegnata attraverso la fiducia.

Ho semplicemente l’impressione di avere ancora bisogno di appoggio. Ho bisogno di appoggio nelle cose quotidiane più elementari. Sono ancora troppo piccola, piccola nel modo di pensare. Non ci riesco da me. Senza dubbio mi manca l'evidenza naturale".

Secondo Blankenburg la perdita dell'evidenza naturale non deve servire da sintomo, deve invece costituire un filo conduttore per lo studio delle metamorfosi del Dasein umano, quindi non “privazione” ma “negazione” intesa dialetticamente.

E Tatossian (1979) ritiene che la perdita della evidenza naturale schizofrenica sia il nucleo dell’autismo, anche se abitualmente questo nucleo è più o meno dissimulato da una sintomatologia "reattiva" che va dalle “attività” autistiche al delirio.

Come scrive Ballerini (2002) né l’autismo povero di Minkowski, né la perdita dell’evidenza naturale di Blankenburg si accordano al modello medico del sintomo, ma possono fare luce sul senso che può acquisire una determinata modalità di vivere (o di non vivere) la dimensione intersoggettiva.

Quando cambia lo Stimmung (lo stato d’animo) che è in ciascuno di noi, cambia, assieme, anche la fisionomia del mondo: cambiano i modi con cui il mondo ci chiama e ci parla, e nella reciprocità dialettica delle relazioni c’è anche una modificazione dell’Io.

Del mondo schizofrenico con gli strumenti della psicopatologia, possiamo tentare di comprendere anche a livello terapeutico, l’esistenza di una dimensione di scambio, non più di sola osservazione volta alla ricerca di sintomi, che portino alla codifica di una diagnosi.

Esiste, dunque, nell’ottica di questo rinnovato approccio terapeutico, una possibilità di “uscita” dalla psicosi schizofrenica?

Ballerini e Rossi-Monti che si sono occupati a lungo di questa patologia, arrivano a concludere che la guarigione con difetto intesa in senso tradizionale non esiste, mentre esistono, grazie ai migliorati approcci terapeutici, guarigioni parziali che rappresenterebbero un successo terapeutico, ma non definibili guarigioni con difetto.

Per Defekt si potrebbe intendere allora un quid patologico nuovo che segue alla psicosi ma che si differenzia da esso. La cosiddetta patologia defettuale corrisponde infatti ad una non avvenuta guarigione dalla psicosi e la patologia rilevabile in molti casi di vera guarigione, non rappresenta affatto un quid novum nella biografia della persona.

A differenza di ciò che si riteneva in passato che la psicosi schizofrenica comportasse una inevitabile modificazione strutturale della personalità, lasciando poca o nessuna possibilità di evoluzione favorevole della malattia, la pratica clinica indica che il decorso e la prognosi della schizofrenia si sono modificate nel corso di questi ultimi 30-40 anni, soprattutto grazie all’utilizzo dei farmaci neurolettici.

Gli aspetti stereotipi, di ritiro apatico, di "sottofunzionamento" propri delle fasi defettuali, potrebbero allora essere considerati una tappa nel tentativo del paziente di operare una ristrutturazione interna che gli permetta di integrare nel proprio campo d’esperienza i vissuti che, nelle fasi acute della psicosi, costituiscono il terreno delle proiezioni deliranti e allucinatorie. Il Defekt sarebbe allora una situazione non statica, ma, vista in una prospettiva dinamica, ancora passibile di evoluzione.

Sono stati sicuramente gli studi compiuti negli anni’70 da M. Bleuler, L. Ciompi e G. Huber a confermare che il decorso e l’esito della Schizofrenia è ben lungi dall’essere scontato e uniforme e che almeno in circa un terzo dei casi il disturbo schizofrenico evolve verso la guarigione, in un terzo cronicizza in modo deficitario e in un terzo si ha la cosiddetta “guarigione sociale”. Pare ovvio, comunque, che il punto di vista kraepeliniano, purtroppo a volte ancora oggi, è quello più “comodo” da adottare anche in vista di un trattamento riabilitativo: se un paziente è destinato alla “demenza”, perché fare riabilitazione “credendoci” e “impegnandosi”? Meglio “custodire” il paziente (ahimè) e sedarlo farmacologicamente.

 

Diagnosi differenziale tra Schizofrenia e Demenza frontotemporale: un caso clinico.


Giorgio è un uomo celibe di 34 anni, ricoverato nel Reparto Psichiatrico di Diagnosi e Cura per disturbi del comportamento che includono ripetute aggressioni verso la sua famiglia. Dal colloquio iniziale emergono allucinazioni di tipo visivo e uditivo. L’affettività appare abbastanza coartata nel senso di una tristezza vitale. Il paziente era nato da parto eutocico, la gravidanza era stata regolare, il primo sviluppo psicofisico nella norma. All'età di 26, il paziente, che lavorava come operaio, viene licenziato a causa di scarso rendimento e assenteismo. Inizia, così, a trascorrere molto tempo a guardare la TV, l’eloquio diventa sempre più povero, ed egli si mostra a volte arrabbiato e violento senza una motivazione. Dopo un ricovero, viene diagnosticata una patologia dello spettro schizofrenico con predominanti sintomi negativi, quindi alogia, abulia, ritiro autistico, ma anche sintomi positivi, cioè produttivi, come allucinazioni e deliri. Trattato con un farmaco di tipo neurolettico a lento rilascio e a somministrazione mensile, perché persistevano dubbi rispetto ad una compliance terapeutica per os a domicilio, viene seguito con una terapia ambulatoriale. Il paziente non riusciva però, nel tempo, a riprendere le sue normali abitudini di vita, che conduceva in modo stereotipato, con una scarsa comunicazione e poca attività motoria. Viene, quindi, nuovamente ricoverato per peggioramento dello stato generale e trattato con risperidone per os 8 mg / giorno associati con citalopram 40 mg / giorno. Anche in questo caso, però, non si osserva nessuna significativa evoluzione circa il modo di vivere che permane apatico e stereotipato. La capacità di comunicazione è sempre scarsa. Valutazioni neurocognitive rivelano, poi, molteplici e gravi disfunzioni. La memoria esecutiva e le attività di attenzione appaiono estremamente compromesse.

Esami neurologici mostrano un segno di Babinski positivo, ossia l'estensione dorsale dell'alluce deponente per una lesione del tratto piramidale.

La TAC cerebrale e la RMN evidenziano una atrofia frontale.
E’ evidente l’importanza di discutere una diagnosi differenziale tra Demenza Frontale e Schizofrenia in questo paziente. I sintomi psicotici come allucinazioni e l'età di esordio sono osservazioni essenziali per la diagnosi di Schizofrenia, ma non possono, tout court, escludere un quadro demenziale.  Memoria, funzioni intellettive ed attentive, abilità di vario tipo possono tutte essere alterate tanto nella Schizofrenia che nella Demenza. Anomalie cerebrali riscontrabili nella Schizofrenia sono gli ingrandimenti dei ventricoli laterali. L’atrofia del lobo frontale è predominante nella Demenza ed è solo un reperto sporadico nelle popolazioni di schizofrenici. Come, ancora, Schizofrenia e Demenza potrebbero essere concomitanti.
Dunque, la diagnosi differenziale tra Schizofrenia e Demenza è difficile da stabilire. La Schizofrenia è una malattia eterogenea con una grande varietà di disfunzioni cognitive e sicuramente strumenti di tipo neurocognitivo possono migliorare le nostre conoscenze e le possibilità diagnostiche.

 

Riferimenti bibliografici

Alessandrini M. — Ripensare la Schizofrenia — Magi ed., 2004

Ballerini A. — Patologia di un eremitaggio — Bollati, 2002

Blankenburg W. — La perdita dell’evidenza naturale — Cortina, 1998

Cappellari L. — Callegaro M. — Schizofrenia residua e Defekt — Rivista "Psichiatria Generale in Età Evolutiva" — vol. 28, 1990

Cargnello D. — Il concetto di autismo nell’opera di L. Binswanger — Rivista "Psichiatria Generale in Età Evolutiva" — n. speciale, 1993

Freud, S. "Nevrosi e Psicosi." Newton Compton 1975.

Maggini C. (a cura di) — Psicopatologia e clinica della Schizofrenia — ETS ed., 1995

Mistura S. — Introduzione a: E. Minkowski — La Schizofrenia — Einaudi ed., 1998

Stanghellini G. — Antropologia della vulnerabilità — Feltrinelli ed., 1997

 

Inserito il:25/08/2015 11:02:15
Ultimo aggiornamento:14/09/2015 10:43:19
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