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In 10 anni tre milioni di persone in meno
di Bruno Lamborghini
Una recente analisi da parte del Centro studi CGIA di Mestre ha dato l’allarme indicando che nei prossimi dieci anni l’Italia perderà tre milioni di persone in età lavorativa (15-65 anni), passando da 37.4 milioni a 34,3 milioni (- 8,3%) con pesante impatto sull’occupazione e sulla crescita.
Tra il 2019 ed il 2023 la popolazione italiana ha perso 720.000 unità e l’indice di fertilità femminile è ulteriormente sceso e probabilmente continuerà a scendere dall’attuale 1,2 nati per donna (si ricorda che 2,1 rappresenta il livello base necessario per mantenere inalterata la popolazione).
Cresce la differenza negativa tra nati e morti così come la differenza negativa tra persone in entrata e persone in uscita dall’Italia (in particolare sono decine di migliaia i giovani italiani per lo più laureati che emigrano ogni anno verso paesi che offrono maggiori prospettive di lavoro qualificato). Né il calo demografico trova parziale compenso nell’immigrazione che sempre più in Italia ed in Europa è oggetto di crescenti blocchi regolatori.
Il calo demografico non riguarda solo l’Italia, ma anche la Germania e l’Europa in generale e si sta manifestando in altri paesi nel mondo in particolare sta divenendo un grave problema in Cina in cui si prevede nell’arco dei prossimi 20 anni una riduzione della popolazione per oltre 130 milioni ed a fine secolo un quasi dimezzamento dei suoi 1,3 miliardi a confronto con la forte crescita dell’India in marcia verso i due miliardi.
In Giappone da molti anni è in atto una netta riduzione della popolazione che viene in parte affrontata con una crescita ben gestita della cosiddetta Silver economy ed il prolungamento della vita attiva, mentre vi è anche un netto calo demografico nella Corea del Sud ed un inizio in Vietnam.
Negli Usa sinora il mantenimento dei livelli di popolazione è stato ottenuto grazie alla forte immigrazione proveniente soprattutto dal Messico e Centro America, ma i blocchi e la deportation di Trump porterà anche in quel paese problemi demografici e carenza di lavoro (con una disoccupazione già ai minimi che determina l’inattuabilità della reindustrializzazione forzata voluta da Trump).
Secondo una analisi di McKinsey, entro il 2050 l’Occidente (Usa, Europa, Giappone e Corea del sud) rischia di perdere 340 milioni di abitanti in età lavorativa ed un calo del rapporto tra la popolazione da 15 a 65 anni e la popolazione oltre i 65 anni dall’attuale 4 a 1 sino ad un rapporto di 2 a 1 con gravi effetti su skill shortage e invecchiamento.
All’opposto prosegue la crescita della popolazione nella più grande parte del mondo che viene definita il Sud del mondo (India, Africa, Sud Est asiatico, e parte dell’America Latina) con una crescita stimata di oltre un miliardo di persone nell’arco de prossimi 50 anni (da 6 a 7/8 miliardi). Sono i paesi che noi nelle nostre statistiche classificavamo come Resto del mondo (Rest of the world), mentre in un futuro non troppo lontano rischiamo noi europei e occidentali di essere indicati come “i restanti paesi”.
Il baricentro del pianeta anche in termini economici è destinato a passare dalle regioni nord-occidentali al Sud del mondo, anche per ragioni generazionali (età media sotto i 30 anni del Sud contro gli oltre 50 anni dei paesi occidentali), aprendo in quei paesi nuove grandi opportunità di lavoro e di sviluppo contro crescenti carenze di giovani entranti nel lavoro e invecchiamento nelle aree in declino demografico.
L’Africa rappresenta il continente più dinamico per crescita della popolazione in cui entro il 2050 si prevede il raddoppio della popolazione in età lavorativa per oltre 700 milioni di persone, un serbatoio di giovani in buona parte con competenze qualificate (basti pensare che oggi in Africa vi sono 1200 università e i giovani africani accedono a Internet via smartphone).
Questo porterà l’Africa subsahariana ad acquisire nel mondo grande sviluppo economico e sociale e nello stesso tempo i giovani africani possono rappresentare anche una riserva di forza lavoro qualificata per i paesi in declino demografico, in specie per l’Europa se sarà in grado di aprire in modo programmato le sue frontiere e utilizzare al meglio queste opportunità.
Il futuro di ciascun paese a Nord e a Sud quindi sarà sempre più determinato, assieme alla transizione ecologica ed a quella digitale AI, soprattutto da come verrà affrontata la grande trasformazione demografica con i conseguenti effetti macroeconomici su geopolitica, aree d’influenza, rischi di conflittualità, protezionismo vs libero commercio internazionale e governance politica tra liberismo ed autocrazie.
In chiave microeconomica questo inciderà sull’evoluzione dei mercati, sull’innovazione tecnologica, sulle organizzazioni pubbliche e private, sui comportamenti sociali, sulle imprese e soprattutto sulle trasformazioni del lavoro.
L’invecchiamento della popolazione con lo sviluppo di politiche per la Silver economy può produrre effetti anche positivi, come si sta praticando da tempo in Giappone ed ora anche in alcuni paesi europei, ad esempio in Danimarca in cui apposite agenzie promuovono interventi per un impegno lavorativo o comunque attivo per persone anziane, anche ultraottantenni, favorendo nuovi interessi, partecipazione sociale e buona salute fisica e mentale (riducendo così anche la spesa sanitaria).
Maggiori incertezze e maggiori rischi sia politici che imprenditoriali si prospettano nelle aree in crisi demografica ed in particolare in Europa ed in Italia, con l’aggravarsi di carenze di personale e skill shortage che già ora stanno facendo soffrire le istituzioni e le imprese, limitandone la crescita.
La riduzione continua della popolazione in entrata nel lavoro influirà pesantemente in Italia sulla crescita del PIL, dei consumi e degli investimenti, se non si cercherà di introdurre azioni per favorire, accanto ad una difficile ripresa delle nascite con effetti solo nel lungo termine, una programmazione e gestione dei flussi migratori in base alle qualificazioni richieste dal mondo produttivo, ma soprattutto efficaci processi di formazione e integrazione dei nuovi entranti.
In Italia vi sono spazi vuoti da coprire nel rapporto anomalo tra la popolazione in età lavorativa e la forza lavoro occupata. L’Italia ha indicatori di partecipazione al lavoro nettamente inferiori agli altri paesi europei (66% contro 72/75% degli altri paesi), in conseguenza anche della più ridotta partecipazione femminile al lavoro, dell’alta disoccupazione giovanile al 19% e della presenza di una fascia anomala di Neet cioè di giovani che non studiano e non lavorano.
Sono ormai tutte le imprese italiane, ed in specie le PMI, che non riescono a trovare ed assumere giovani con le competenze lavorative necessarie, a causa delle carenze di formazione per funzioni operative da parte del sistema universitario.
Negli ultimi due anni è fortemente cresciuta l’occupazione in Italia, ma appare riguardare prevalentemente le fasce di età oltre i 50 anni, mentre molto limitata è la crescita dell’occupazione nelle fasce di età sotto 50 anni.
Questo andamento anomalo viene spiegato dalla necessità di dover ricorrere a personale già attivo con sufficienti esperienze, anche ritardandone l’entrata in pensione o assumendo pensionati, al posto di giovani in calo o comunque non adeguatamente formati o anche con nuove motivazioni al lavoro (Generazione Z).
Questa necessità peraltro rischia di rallentare le capacità innovative delle imprese, soprattutto tenendo conto del ruolo sempre più determinante dell’innovazione tecnologica ed in particolare la transizione in tutte le attività verso le reti digitali e le applicazioni di AI., che determinano difficoltà ai “non nativi” digitali.
Il calo demografico renderà necessario anche una accelerazione dei processi di robotizzazione e automazione nella manifattura ed applicazioni diffuse di AI nei servizi con parziale sostituzione di personale con macchine, ma questo passaggio richiede ingenti interventi non random, ma sistematici con programmi pubblici e privati rivolti in particolare a promuovere investimenti riorganizzativi soprattutto nel prevalente tessuto italiano di piccole e medie imprese, come è avvenuto in parte con il piano Industria 4.0, ma poi con incerto o scarso proseguimento.
Non si tratta di puntare sulle macchine al posto delle persone, ma anzi il maggiore impegno va rivolto alla formazione delle competenze necessarie attraverso un ripensamento dei programmi formativi universitari e professionali. Senza le competenze delle persone le macchine non funzionano.