Aggiornato al 26/04/2024

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Voltaire

Victoria Stanway (from Bicester, Oxon, United Kingdom) - Working from Home

 

Remote working, privilegio per pochi?

di Ruggero Cerizza

 

Il Collegio dei commissari ha approvato l'European Chips Act; "ci permetterà di raddoppiare la produzione di semiconduttori entro il 2030". Lo ha annunciato la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen.

L'European Chips Act, approvato in questi giorni dalla Commissione europea, mobiliterà oltre 43 miliardi di euro per la produzione di semiconduttori in Europa, tra fondi pubblici e privati. "Si tratta di 15 miliardi di investimenti pubblici e privati aggiuntivi entro il 2030, oltre ai 30 miliardi già previsti da Next Generation Eu, da Horizon Europe e dai bilanci nazionali", ha spiegato la presidente della Commissione.

L'Eu Chips Act cambierà le regole del gioco", ha aggiunto.

"Il Chips Act europeo cambierà le regole del gioco per la competitività globale del mercato unico europeo. A breve termine, aumenterà la nostra resilienza alle crisi future, consentendoci di anticipare ed evitare interruzioni della catena di approvvigionamento. E a medio termine, contribuirà a rendere l'Europa un leader industriale in questo settore strategico".

"La chiave del nostro successo - ha aggiunto la presidente - risiede negli innovatori europei, nei nostri ricercatori di livello mondiale, nelle persone che hanno fatto prosperare il nostro continente nel corso dei decenni".

Per la presidente della Commissione europea, "l'Europa è il Continente dove tutte le rivoluzioni industriali sono cominciate e può essere la casa anche della prossima rivoluzione industriale". "L'Europa - ha aggiunto la presidente - costruirà partnership per la produzione di chip con i Paesi con cui la pensiamo allo stesso modo, come gli Stati Uniti o il Giappone", che vadano a garantire "un equilibrio tra le dipendenze e l'affidabilità".

A mio avviso questa “nuova rivoluzione industriale” è solo l’ultimo di innumerevoli “contrordini” ai quali ci sta abituando la UE.

Infatti, dopo anni di fanatismo per la “globalizzazione”, in cui questi soloni hanno pensato di essere i più FURBI DEL MONDO e ritenere quindi “intelligente” tenerci la parte nobile della produzione dei chip, cioè il “design” e demandare la parte plebea, cioè la “sporca e volgare manifattura” ai popoli del Far East, che tra l’altro costano assai poco e possono accettare un alto tasso di inquinamento; adesso si accorgono che, per essere “resilienti e sostenibili” dobbiamo dedicarci, aimè, anche alla produzione.

Però tranquilli, perché noi oltre che furbi siamo anche “i migliori del pianeta” e sapremo essere la “casa della prossima rivoluzione industriale”.

Cito questa ennesima rivoluzione copernicana della UE perché le ragioni di fondo che l’hanno resa necessaria sono le stesse che ci stanno inducendo a “divinizzare” il “lavoro non in presenza”, rispetto al lavoro tradizionale in fabbrica e in ufficio.

La divisione del lavoro non è stata inventata nell’ottocento, c’è sempre stata nella storia dell’uomo, chi era bravo a costruire le armi non cacciava e chi cacciava non sapeva costruire le armi.

La novità della seconda metà del settecento, che ha dato origine alla” rivoluzione industriale” è stata l’introduzione di nuove fonti energetiche inanimate (il vapore, l’energia elettrica e i combustibili fossili) che hanno stimolato lo sviluppo tecnologico delle macchine azionate da energia meccanica e reso possibile il passaggio dalla produzione artigianale a quella industriale, cambiando così la scala della capacità produttiva umana e liberando vaste fasce di popolazione dalla necessità di soddisfare quotidianamente i propri bisogni primari.

Questo processo è ancora in atto, anzi è stato, a partire dagli anni settanta dello scorso secolo, estremamente potenziato dall’avvento dei calcolatori.

Sono un appassionato di processi produttivi e seguo con interesse i documentari che illustrano le fabbriche di diversi settori produttivi: autoveicoli, birrifici, piastre elettroniche, aeromobili, cantieri navali, grandi opere viarie, alimentari, ecc.

In tutti questi processi ormai la macchina, oggi chiamata robot, è la componente fondamentale in grado di eseguire lavorazioni che prima dovevano essere svolte in maniera semi-artigianale, sollevando gli operai dai compiti più gravosi e assicurando livelli quantitativi e standard qualitativi impossibili con lavorazioni manuali.

Tuttavia siamo sempre comunque in presenza di una catena di montaggio di tipo classico dove il compito degli operai rimane, in ogni caso, ripetitivo e assolutamente specializzato nelle varie fasi di lavorazione. Il saldatore rimane un saldatore, il verniciatore un verniciatore, il montatore un montatore, e così via. E tutti devono rispettare i propri tempi di lavorazione, pena l’interruzione del processo con gravi ripercussioni economiche.

Così come l’operaio rimane un operaio, anche l’agricoltore continua a dissodare, arare, seminare, raccogliere; il fattorino continua a fare le consegne, l’autotrasportatore a trasportare le merci, il marinaio a navigare, il commesso a mettere i prodotti sugli scaffali, il manutentore a riparare le macchine, l’installatore ad installarle, il collaudatore a collaudarle, l’infermiere ad accudire i malati, il chirurgo ad operarli, l’autista di autobus a trasportare persone, il macchinista a guidare il treno, il cameriere a servire in tavola, il cuoco a cucinare e così via.

Di fronte a questa situazione, che è ancora, forse nostro malgrado, la realtà dei fatti, mi riesce difficile comprendere in quali settori produttivi il “lavoro non in presenza” può rappresentare un nuovo modello di organizzazione del lavoro.

Probabilmente è applicabile solo nel mondo “burocratico pubblico”, dove la produttività del lavoro non è certamente il punto di forza, e nel mondo degli “uffici” in genere.

Se anche fosse vero che in questi ambiti il “lavoro non in presenza” sia quantomeno produttivo come quello “in presenza” - cosa tutt’altro che certificata - il risultato sarebbe la creazione di una nuova casta di privilegiati, ai quali sarà concesso di gestire il proprio tempo senza il “vincolo” di dover rispettare rigorosi tempi di realizzazione per non rallentare le lavorazioni a valle delle proprie.

Dobbiamo però mettere in conto le legittime rivendicazioni in termini reddituali e di impegno lavorativo che saranno pretese dalla casta inferiore dei “nuovi servi della gleba”, alle quali sarà necessario dare risposte concrete, pena la loro ribellione. E magari tra una decina di anni assistere ad un altro dietro-front da parte degli “illuminati”.


 

Inserito il:15/02/2022 17:38:38
Ultimo aggiornamento:15/02/2022 17:43:56
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