Il marketing è una cultura.
Nel coro delle critiche che riguardano l’Italia di questi tempi, in gran parte giustificate, ci metterei anche la scarsa cultura di marketing. Che non è cosa ininfluente.
Purtroppo da noi il marketing si insegna poco, e quel poco di solito a cura di accademici che hanno molto studiato e poco operato. Nelle Università americane invece, ma anche altrove, le lezioni sono tenute da manager, quasi sempre ancora attivi, che raccontano come loro stessi e loro omologhi hanno affrontato e risolto problemi reali, verificabili, attuali. Il rapporto tra studenti e imprese si crea li, all’Università. E anche le opportunità di lavoro.
Nelle nostre imprese il marketing è abbastanza negletto, e infatti pure in settori nei quali riteniamo di primeggiare, come l’agroalimentare e la moda, ci bagnano il naso dall’estero, ultimamente soprattutto dalla Francia (Gucci, Bulgari, Emilio Pucci, Fendi, Loro Piana, Galbani, Invernizzi, Cademartori, Parmalat). Gente, i nuovi proprietari e il loro management, che sa fare industria ma anche marketing.
Per non parlare dei tanti marchi italiani in mano a multinazionali marketing-driven come Unilever, Nestlé, Danone, Kraft e Procter&Gamble, che era considerata e forse è ancora una delle migliori scuole di marketing del mondo.
Gli industriali italiani sono più spesso eredi della straordinaria tradizione artigianale che pionieri dell’industria vera e propria. Nascono quasi sempre dalla capacità di realizzare prodotti eccellenti ma poi si perdono nelle fasi di crescita; nello sviluppo internazionale; nella gestione più personalistica che manageriale; nelle successioni al fondatore, decise in base all’appartenenza più che al merito.
Investono magari in macchine per la produzione, i nostri industriali, ma non in cultura e non nel marketing, che non conoscono, non studiano, non analizzano e spesso identificano con la pubblicità.
In questo Paese poi si tende a inquadrare e giustificare tutto come marketing: dalla petulanza dei disturbatori telefonici all’invadenza nel cercare di carpire dai consumatori, con ogni mezzo, dati e preferenze. Talvolta, addirittura, contratti verbali (nelle tlc e nell’energia sono casi ricorrenti, da anni). Così il marketing, come da tempo la vendita, finisce con l’essere percepito come una disciplina un po’ volgare, truffaldina, professionalmente di scarso prestigio.
Insomma, non c’è cultura di marketing diffusa, e siccome non c’è non si può sviluppare. Cioè di male in peggio.
Certo, l’impresa in Italia è angariata da una burocrazia invadente e inefficiente, da leggi complesse e arretrate, spesso astruse, e da un fisco in tanti modi troppo esigente: però non saremmo onesti se ignorassimo le carenze interne, culturali, delle imprese italiane. Il marketing è una di queste, e non la meno rilevante.