Aggiornato al 21/11/2025

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Voltaire

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Il debito pubblico italiano: verità scomode e doppie morali

di Achille De Tommaso

 

Quando si parla di debito pubblico italiano, c'è un copione già scritto: gli italiani vivono al di sopra delle proprie possibilità.  Ma dietro questa narrativa si nasconde una realtà molto più complessa, fatta di doppie morali, e regole applicate a geometria variabile  

Perché c'è qualcosa che non torna in questo racconto: se gli italiani vivono al di sopra delle proprie possibilità, come mai le famiglie italiane sono tra le meno indebitate d'Europa? E soprattutto perché, quando la Francia spende a deficit nessuno batte ciglio, mentre quando l'Italia ha chiesto flessibilità si è scatenato l'inferno?

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Il debito che nessuno vuole vedere: quello privato

Cominciamo da un dato che raramente viene menzionato nei salotti di Bruxelles: il debito privato italiano è tra i più bassi d'Europa. Mentre il dibattito pubblico si concentra ossessivamente sul debito dello Stato, nessuno parla del fatto che le famiglie e le imprese italiane sono molto meno indebitate rispetto ai loro omologhi europei. Il debito privato italiano (famiglie più imprese) si aggira intorno al 100-110% del PIL. Quello tedesco è di circa 140%; quello francese superiore al 150%. Quello spagnolo ha toccato picchi del 200% prima della crisi del 2008. I Paesi Bassi, tanto citati come modello di virtù, hanno un debito privato che supera il 230% del PIL.  La verità è che è il debito complessivo di un Paese che dovrebbe essere considerato, per valutarne la salute economica. E su questo parametro, l'Italia non è affatto messa peggio di Germania, Francia o Spagna. Anzi.

La Germania virtuosa? Una barzelletta ben raccontata

Partiamo da un fatto incontrovertibile: la Germania ha violato sistematicamente le regole europee senza mai essere sanzionata. Il Patto di Stabilità e Crescita, è stato calpestato dalla Germania per anni. Negli anni 2000, Berlino ha sforato ripetutamente il limite del 3% di deficit. Ha riformato il mercato del lavoro con le cosiddette riforme Hartz, che hanno sì ridotto la disoccupazione, ma hanno anche creato una massa di lavoratori sottopagati, con contratti precari. Ha adottato politiche di svalutazione competitiva interna, comprimendo i salari per rendere le esportazioni tedesche imbattibili. Tutto questo violando sistematicamente lo spirito, se non la lettera, delle regole europee sulla concorrenza leale. E quando la crisi finanziaria del 2008 ha rischiato di far crollare le banche tedesche, la BCE e i meccanismi di salvataggio europei hanno salvato Deutsche Bank e le altre banche tedesche. Ma quando si è trattato di salvare la Grecia, guarda caso, i prestiti del "salvataggio" sono serviti principalmente a ripagare le banche tedesche e francesi.

Berlino ha beneficiato enormemente dell'euro. La moneta unica, tenendo il cambio più basso di quanto sarebbe stato un marco tedesco rivalutato, ha reso le esportazioni tedesche straordinariamente competitive. Secondo varie stime (*), la Germania ha guadagnato centinaia di miliardi di euro grazie all'euro. L'Italia, al contrario, ha perso competitività, non potendo più svalutare la lira. Oggi la Germania è in recessione tecnica, l'industria automobilistica tedesca è in crisi, la dipendenza dal gas russo si è rivelata un errore industriale colossale. Eppure, nessuno a Bruxelles parla di commissariare la Germania o di ridimensionarne le ambizioni, e si continua a parametrare lo spread contro il “bund” tedesco. Doppie morali, appunto.

Francia: l'elefante nella cristalleria europea

Se la Germania è l'esempio dell'ipocrisia travestita da rigore, la Francia è il campione indiscusso del "fate come dico, non come faccio". La Francia ha un debito pubblico che supera il 110% del PIL e un deficit che sfora sistematicamente i parametri europei. Parigi spende più di Roma in percentuale sul PIL, ha una spesa pubblica che supera il 55% del PIL (la più alta d'Europa), e un sistema pensionistico che fino a poco tempo fa permetteva il pensionamento a 62 anni con generosi assegni previdenziali. Eppure, non ha mai ricevuto da UE richieste pesanti, né sanzioni. Ma quando l'Italia chiede flessibilità sui conti pubblici, viene messa sotto esame; viene messa sotto sorveglianza rafforzata, con richieste molto concrete su pensioni, bilancio, produttività e spesa pubblica. La UE è più tollerante verso la Francia. Perché? La risposta è semplice: la Francia è un Paese fondatore dell'Unione Europea, ha l'arma nucleare, un seggio permanente al Consiglio di Sicurezza dell'ONU, e soprattutto una classe dirigente che ha sempre occupato posizioni chiave nelle istituzioni europee. Lagarde, Trichet, Juncker (lussemburghese ma notoriamente vicino a Parigi), la lista è lunga. La Francia ha potuto permettersi di nazionalizzare EDF (l'azienda elettrica nazionale), di salvare banche in difficoltà, di sovvenzionare massicciamente l'agricoltura attraverso la PAC (Politica Agricola Comune, che beneficia soprattutto la Francia), di mantenere campioni nazionali protetti dalla concorrenza. Tutto questo mentre predicava liberalizzazioni e privatizzazioni agli altri. E l'Unione Europea? L'Unione Europea ha chiuso entrambi gli occhi. Quando Macron ha affrontato le proteste dei gilet gialli, ha potuto permettersi di aumentare la spesa pubblica per placare le piazze senza che nessuno a Bruxelles gridasse allo scandalo. Immaginate se lo stesso avesse fatto un governo italiano. La verità è che l'Europa a due velocità non è un'ipotesi futura, è la realtà presente. C'è un'Europa del Nord, che detta le regole, e c'è un'Europa del Sud, che deve subirle.

L'eredità dell'assistenzialismo: quando la sinistra ha bruciato il futuro

Ma sarebbe disonesto scaricare tutte le colpe su Germania e Francia, e su UE. L'Italia ha le sue responsabilità, e vanno chiamate col loro nome. Per decenni, i governi hanno praticato un assistenzialismo dissennato che ha bruciato risorse pubbliche senza creare sviluppo. Pensioni baby, prepensionamenti, assistenzialismo clientelare nel Mezzogiorno, assunzioni nella pubblica amministrazione senza criterio meritocratico, sprechi regionali monumentali. Il modello era semplice: comprare consenso attraverso la spesa pubblica, redistribuire reddito senza preoccuparsi di creare le condizioni per generarne di nuovo. Il risultato? Un debito pubblico che è esploso negli anni '80 e '90, passando dal 60% al 120% del PIL in meno di vent'anni. Le pensioni sono l'esempio più evidente. L'Italia ha avuto per anni uno dei sistemi pensionistici più generosi e insostenibili del mondo. Si andava in pensione troppo presto, con coefficienti troppo favorevoli, scaricando il costo sulle generazioni future. La riforma Fornero ha corretto parzialmente il problema, ma il danno era già fatto. Oggi paghiamo pensioni per una percentuale del PIL superiore a qualsiasi altro paese europeo – circa il 16% – mentre gli investimenti pubblici sono crollati sotto il 3%. E poi c'è il capitolo del Mezzogiorno: miliardi e miliardi di euro spesi in "interventi straordinari" che di straordinario avevano solo la capacità di sparire senza lasciare traccia. Opere incompiute, fondi europei non spesi o spesi male, assistenzialismo e sprechi che hanno distrutto ogni incentivo al lavoro e all'impresa. Il Sud ha tutto il potenziale per essere un motore economico – clima, posizione geografica, patrimonio culturale – ma decenni di cattiva politica lo hanno ridotto a un malato cronico dipendente dai trasferimenti. La sinistra italiana e i sindacati hanno preferito la redistribuzione alla crescita, i diritti acquisiti alla competitività, la conservazione dello status quo all'innovazione. Hanno difeso rendite di posizione, corporazioni, burocrazie elefantiache. Hanno bloccato riforme necessarie in nome dell'"equità sociale", senza capire che senza crescita non c'è equità che tenga. Hanno rallentato e rallentano progetti industriali primari (TAV e TAP), in nome di una dissennata politica “green”. E quando qualcuno ha provato a cambiare rotta – Renzi con il Jobs Act, per esempio – la sinistra stessa lo ha sabotato, preferendo l'ortodossia ideologica alla pragmatica economica.

Con il governo Meloni, per la prima volta da anni, l'Italia ha un esecutivo che sta tentando di invertire la rotta senza farsi intimidire dai diktat di Bruxelles.

L’attuale governo, erede di ignobili sprechi, cerca comunque di mantenere i conti pubblici sotto controllo, rispettando sostanzialmente i parametri europei, nonostante le difficoltà legate all'inflazione, alle guerre, e al caro energia. Ha evitato l'assistenzialismo selvaggio pur mantenendo le protezioni necessarie per le fasce deboli. Ha riformato il Reddito di Cittadinanza, quella misura simbolo dell'assistenzialismo pentastellato che stava creando una generazione di persone abituate a vivere di sussidi senza cercare lavoro. Il taglio del cuneo fiscale e gli sgravi contributivi sono misure che vanno nella direzione giusta: mettere più soldi nelle tasche di chi lavora, rendere meno costoso assumere, premiare il lavoro invece che l'assistenza. Non sono regali, sono investimenti sulla crescita. Sul fronte degli investimenti, il governo sta cercando di utilizzare al meglio i fondi del PNRR, quei 200 miliardi di euro che l'Europa ha messo sul piatto dopo la pandemia.  E sul tema della natalità, uno dei problemi strutturali più gravi dell'Italia, il governo attuale ha almeno messo il tema nell'agenda politica, con misure per sostenere le giovani coppie e le famiglie con figli. Troppo poco? Forse. Ma è più di quanto abbiano fatto i governi precedenti, che si sono limitati a guardare il crollo demografico senza fare nulla. Ma soprattutto, questo governo ha la schiena dritta nei confronti di Bruxelles. Non si inchina automaticamente quando Francia e Germania dettano legge. Negozia, difende gli interessi nazionali, non accetta supinamente imposizioni che danneggerebbero l'Italia; e questo, per una classe politica europea abituata a trattare Roma come un protettorato, è inaccettabile.

La sostenibilità del debito: questione di strategia, non di contabilità

Torniamo al debito. Il debito pubblico italiano è alto, ma è sostenibile? La risposta è: dipende. Dipende dalla crescita economica. Se il PIL cresce al 2-3% annuo, il rapporto debito/PIL si riduce anche senza lacrime e sangue. Il problema è che l'Italia, negli ultimi vent'anni, è cresciuta pochissimo, perché ha mancato le grandi riforme strutturali. Perché la burocrazia soffoca le imprese. Perché il sistema fiscale è vessatorio e irrazionale. Perché la giustizia civile è lumaca. Perché l'istruzione, che ha abbandonato la meritocrazia, non forma le competenze richieste dal mercato. Dipende dai tassi di interesse. Finché la BCE mantiene tassi bassi e continua ad acquistare titoli di Stato, il costo del debito italiano è gestibile. Ma se i tassi risalgono – come sta già accadendo – il peso degli interessi diventa rapidamente insostenibile. Per questo è cruciale mantenere la fiducia dei mercati. Dipende da cosa finanzia il debito: se i soldi presi in prestito servono a costruire autostrade, digitalizzare la pubblica amministrazione, formare lavoratori qualificati, finanziare ricerca scientifica, allora quel debito è un investimento; se servono a pagare pensioni d'oro, garantire uno stipendio minimo al di là del merito, mantenere carrozzoni pubblici inefficienti, finanziare sprechi regionali, allora è un suicidio.

E qui veniamo al punto: l'Italia deve smettere di farsi imporre l'austerità fine a se stessa e deve rivendicare il diritto di investire sul proprio futuro. Il debito non è il nemico. Il nemico è la stagnazione.

La ricchezza nascosta: il patrimonio degli italiani

C'è un altro elemento che viene sistematicamente ignorato nel dibattito pubblico: il patrimonio privato degli italiani è immenso. Le famiglie italiane possiedono ricchezza netta per circa 10.000 miliardi di euro. Immobili, risparmi, titoli. Una ricchezza che supera ampiamente il debito pubblico. Certo, questa ricchezza è distribuita in modo diseguale, concentrata soprattutto nelle generazioni più anziane e nelle regioni del Centro-Nord. Ma il punto è che l'Italia, come Nazione, non è povera. È un paese ricco con uno Stato indebitato. La differenza è fondamentale. Molti economisti hanno proposto, nel tempo, forme di patrimoniale o di contributo straordinario sui grandi patrimoni per ridurre il debito pubblico. Proposte che vengono regolarmente bocciate perché politicamente suicide. Ma il ragionamento di fondo ha una sua logica: se la ricchezza privata è così alta, perché non può contribuire a sanare il debito pubblico? La risposta della destra è: perché quella ricchezza è già stata tassata una volta, quando è stata guadagnata. Tassarla di nuovo sarebbe ingiusto e controproducente. La risposta della sinistra è: perché la ricchezza si è accumulata anche grazie a servizi pubblici finanziati col debito, quindi è giusto che contribuisca.

L’Italia e l’Oro

il nostro Paese ha una potentissima polizza assicurativa contro l'instabilità internazionale. Quando una valuta traballa, i mercati che si stressano, le tensioni globali aumentano, gli Stati si possono proteggere con il bene rifugio per eccellenza: l'oro; che non dipende da nessuno, non è sanzionabile, non ha rischio default.
L’Italia è terza al mondo: davanti alla Francia, davanti alla Russia, davanti alla Cina. A proposito di CINA (sempre lungimirante), negli ultimi anni ha comprato oro in modo massiccio per ridurre la dipendenza dal dollaro (e lo stesso ha fatto la Russia). Gli USA mantengono il primo posto come garanzia dell’egemonia del dollaro. La GERMANIA conserva le sue riserve per far valere la credibilità della sua economia industriale. Le nostre riserve rafforzano la percezione di stabilità dell'Italia. Nei mercati emergenti conta moltissimo: 
Il dibattito è aperto: l'Italia ha le risorse per gestire il proprio debito; è molto lontana dall’essere un paese fallito, ma è un paese che deve fare scelte politiche coraggiose.

Il confronto che fa male: perché l'Italia paga di più

Torniamo al confronto internazionale, ma con uno sguardo più tagliente. Il Giappone ha un debito del 260% del PIL, ma nessuno lo considera a rischio; perché il debito giapponese è quasi interamente in mano a investitori domestici, denominato in yen, e il Giappone controlla la propria banca centrale. Tokyo può, nei fatti, stampare moneta per ripagare il debito. Non lo fa per scelta, non per impossibilità. Gli Stati Uniti hanno un debito di 33.000 miliardi di dollari e continuano a spendere deficit mostruosi per finanziare esercito, sanità, tagli fiscali. Nessuno si preoccupa. Perché il dollaro è la valuta di riserva mondiale e tutti vogliono comprare Treasury bonds americani. Washington può indebitarsi all'infinito perché il mondo intero finanzia la spesa americana. L'Italia? L'Italia non controlla la propria moneta. Non può stampare euro. Dipende dalla BCE, che deve tenere conto degli interessi di venti paesi diversi. E soprattutto, l'Italia paga lo spread perché i mercati sanno che, in caso di crisi, Francia e Germania non muoveranno un dito per salvarla. Lo abbiamo visto nel 2011-2012: quando lo spread è volato sopra i 500 punti base e l'Italia era sull'orlo del default. Ci ha salvato Mario Draghi, non la solidarietà europea. E lo stiamo vedendo ora: ogni volta che c'è un accenno di instabilità politica italiana, lo spread schizza. Non perché l'economia italiana sia peggiore, ma perché i mercati sanno che l'Italia è sola. Questa è la vera tragedia dell'euro così com'è strutturato: una moneta unica senza una politica fiscale comune, senza eurobond, senza meccanismi di solidarietà automatici. Una moneta che avvantaggia i forti (Germania) e penalizza i deboli (Italia, Spagna, Grecia). Un sistema asimmetrico che genera squilibri permanenti.

Cosa dovrebbe fare l'Italia

Primo: investire, non tagliare. Il debito può essere sostenibile se finanzia crescita. Infrastrutture moderne, ricerca e sviluppo, istruzione di qualità, digitalizzazione. Non assistenza, non sprechi, non carrozzoni.

Secondo: riforme strutturali vere, non tagli lineari. Semplificare la burocrazia, accelerare la giustizia civile, rendere il fisco più equo e meno vessatorio, liberalizzare i mercati chiusi dalle corporazioni. Riforme che aumentino la produttività e attraggano investimenti.

Terzo: pretendere regole uguali per tutti in Europa. Basta con i due pesi e due misure. Se la Francia può sforare, deve poterlo fare anche l'Italia. Se la Germania può proteggere le proprie industrie, deve poterlo fare anche l'Italia. O le regole valgono per tutti, o non valgono per nessuno.

Quarto: valorizzare la ricchezza privata. Non necessariamente con patrimoniali draconiane, ma con meccanismi che incentivino gli italiani a investire nel proprio Paese. BTP indicizzati alla crescita, fondi di investimento per le infrastrutture, incentivi fiscali per chi investe in startup e innovazione.

Quinto: ricostruire la fiducia. I mercati prestano soldi a chi ritengono affidabile. L'Italia deve dimostrare stabilità politica, coerenza nelle scelte economiche, capacità di rispettare gli impegni. E questo richiede una classe politica all'altezza e una amministrazione pubblica efficiente.

Conclusione: la verità oltre la propaganda

Il debito pubblico italiano è alto. Ma non è insostenibile per natura; la vera questione è politica, non tecnica. L'Italia deve decidere se vuole continuare ad essere vittima di doppie morali e politiche penalizzanti, oppure se vuole rivendicare con forza il proprio ruolo di grande economia europea, con il diritto di investire sul proprio futuro. E questo, dopo anni di governi che si inchinavano a Bruxelles e che praticavano assistenzialismo interno, appare già un cambiamento significativo. Il debito non è il nemico. Il nemico è la rassegnazione. La vera scommessa dell'Italia non è ridurre il debito a tutti i costi, ma usarlo per costruire un paese più moderno, più produttivo, più giusto. E smettere, una volta per tutte, di subire le regole che altri scrivono per il proprio vantaggio.

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(*)Studi sul vantaggio tedesco dall'Euro

1. Studio del Centre for European Policy (CEP) - 2019

  • Ricerca condotta da Matthias Kullas e altri economisti del CEP di Friburgo
  • Stima che la Germania abbia guadagnato circa 1.900 miliardi di euro dal 1999 al 2017 grazie all'euro
  • Metodologia: confronto tra crescita economica reale e uno scenario controfattuale con il marco tedesco

2. Studio di Goldman Sachs - 2017

  • Analisi che stimava il marco tedesco essere sottovalutato del 15-20% rispetto al suo valore teorico se fosse ancora in circolazione
  • Questo ha reso le esportazioni tedesche molto più competitive

3. Ricerca dell'Istituto Bruegel - 2018

  • Calcoli secondo cui la Germania beneficia di un tasso di cambio effettivo inferiore del 20% rispetto a quello che avrebbe con una valuta nazionale
  • Vantaggio annuale stimato tra 50 e 70 miliardi di euro sulle esportazioni

Studi sulle perdite italiane

1. Studio di UBS - 2017

  • Stima che l'Italia abbia perso circa 4.300 miliardi di euro (in termini di PIL cumulativo) dal 1999 al 2017
  • Perdita media annua stimata intorno ai 200 miliardi

2. Ricerca dell'economista Paolo Savona

  • Calcoli che mostrano come l'Italia abbia perso competitività del 30-40% rispetto alla Germania dal 1999
  • Prima dell'euro, l'Italia compensava con svalutazioni periodiche della lira

3. Studio Bocconi - Banca d'Italia

  • Analisi che mostra come il tasso di cambio reale dell'euro sia troppo alto per l'Italia del 15-20%
  • Questo ha penalizzato export italiano, specialmente nei settori manifatturieri tradizionali

 

 

Inserito il:20/11/2025 13:06:26
Ultimo aggiornamento:20/11/2025 13:10:13
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